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PAPI E BEATI - PAPA GIOVANNI PAOLO II - I PRIMI ANNI DI PONTIFICATO

PREFAZIONE

Questa parte della storia di Karol Wojtyla abbraccia i primi due anni del suo ministero di Papa. Il lettore vi troverà molti fatti, molte immagini che già conosce, per aver potuto seguire i principali avvenimenti che hanno caratterizzato questo tempo e che il mezzo televisivo ha reso compresenti, portandoli spesso in tutte le case. E tuttavia non vi è dubbio che la panoramica globale qui raccolta nel testo e nelle illustrazioni tornerà gradita a tutti coloro - e sono moltitudini - che seguono con interesse e con partecipazione l'attività del Papa polacco.
Due elementi colpiscono particolarmente le folle non meno delle singole persone: questo Papa possiede ed esterna una singolare comprensione simpatia per i suoi simili, quali non è frequente incontrare in un uomo carico di tante responsabilità; ed inoltre questo Papa moltiplica i suoi spostamenti per accostare da vicino il numero più grande possibile di persone che non sono in grado di raggiungerlo nella sua sede.
C'è da chiedersi da dove traggano origine queste due caratteristiche che tra le molte sue doti sembrano le più appariscenti e sono senza dubbio la ragione immediata della sua profonda e universale popolarità.
La risposta si deve cercare nel modo personale con il quale Papa Wojtyla ha ritenuto fin da principio di sviluppare le linee di apostolato indicate dai suoi immediati predecessori.
Egli sente il papato come una testimonianza da rendere a Gesù Cristo, che agli apostoli disse: «andate nel mondo universo... insegnate loro tutto ciò che vi ho detto». I tempi domandano che il Papa torni a farsi pellegrino come gli apostoli, percorra le vie del mondo predicando il Vangelo, raggiunga i suoi fratelli vescovi nelle loro postazioni di lavoro apostolico per confermarli secondo il mandato di Cristo.
Testimone e pellegrino, egli dimostra di non volere lasciare nessuno senza il bene che gli compete. È dunque un concetto di condivisione quello che muove il suo zelo a non darsi requie tutte le volte che gli è possibile ricevere visitatori che cercano la sua parola e la sua sicurezza, tutte le volte che può raggiungere comunità che sa in attesa delle sue direttive e del suo conforto.
Non è la prima volta che intorno al Papa si raccolgono folle sterminate a pregare, ad ascoltare, a confermare e ravvivare una fede già radicata e discesa dai padri. Paolo VI scaglionò nel suo pontificato una serie di viaggi memorabili con i quali diede praticamente avvio a questa forma di apostolato che è nuova per i tempi moderni e che è autentico ritorno alle origini. Giovanni Paolo II, seguendone le tracce ha, tuttavia dato prova di volere intensificare la frequenza di questi incontri, così da renderli quasi l'abituale attività del Papa. Le illustrazioni di questo volume ce lo mostrano tra le popolazioni di vari centri religiosi italiani ma ancor più tra le folle del Messico, della sua terra di Polonia, dell'Irlanda, degli Stati Uniti d'America, dell'Africa, della Francia, del Brasile.
Egli parla di Cristo e della sua madre Maria. Ma in nome di Cristo egli parla dell'uomo. L'Enciclica programmatica del suo pontificato parla di Cristo e dell'uomo già nelle prime due parole con cui si apre: «Redemptor Hominis» «Il Redentore dell'uomo». La chiesa che egli guida visibilmente come capo, come vicario di Cristo, come successore di Pietro, deve essere interamente a servizio dell'uomo, della sua dignità, della sua integrità, della sua vocazione. Ciò significa portare all'uomo una certezza di vita eterna, ma nello stesso tempo una speranza nuova di vita nel tempo, nella pace e nell'equilibrio delle persone e delle comunità. Per questo, dopo l'uomo, nel suo insegnamento viene la famiglia, dopo la famiglia la comunità dei popoli, il rispetto e l'aiuto che da tutti deve essere portato a ciascuno.
Lo capiscono i giovani, che in ogni circostanza gli si affollano intorno e frequentemente intrecciano con lui un dialogo pieno di vita; lo capiscono i poveri dei paesi emergenti, i lavoratori delle società sviluppate, i malati e i sofferenti di ogni latitudine. Lo ascoltano i sacerdoti, i religiosi, le religiose, i missionari ai quali sempre dedica una particolare attenzione. Lo capiscono gli uomini di cultura ai quali giunge di frequente un suo messaggio originale tendente al ricupero di tutti i valori umani e alla loro fioritura nel livello più alto, il livello religioso. Sono attenti alla sua azione i cristiani che le vicende della storia hanno diviso in diverse denominazioni. E dunque tutto il popolo di Dio della Chiesa cattolica romana a gioire oggi della sua intensa attività di pastore; ma sono anche i fratelli separati, sono gli uomini di buona volontà di ogni credenza, sono i cultori della giustizia e della pace a trovarsi in sintonia con lo spirito della sua azione e del suo messaggio.
Due anni di pontificato hanno già lasciato una traccia profonda in questo nostro tempo così drammatico e spaurito, così bisognoso di speranze e di certezze.
Questo libro è documentazione ricca e approfondita, anche se necessariamente non completa, di ciò che i due anni hanno significato per la Chiesa e per il mondo a motivo del pontificato di Papa Wojtyla. Il lettore ne sarà grato ai curatori e agli editori come per un dono destinato a portare luce e serenità nel suo spirito e a stimolare nel profondo del suo essere ogni nascosta sorgente di bene.

Virginio Levi
Vicedirettore dell'Osservatore Romano

Città del Vaticano, 4 Ottobre 1980

L'ATTESA DI ROMA

Nel tardo pomeriggio di lunedì 16 ottobre la folla radunata in piazza San Pietro immersa nel caratteristico tramonto romano, accolse con trepidazione il pennacchio di fumo bianco che usciva prepotente dal sottile tubo di lamiera eretto sul tetto della Cappella Sistina. Molti, per la verità, avevano ritenuto che l'elezione del Papa potesse verificarsi la sera avanti, domenica; che i centoundici cardinali chiusisi in conclave nelle prime ore pomeridiane di sabato ripetessero la sorpresa dell'agosto, quando il patriarca di Venezia Albino Luciani aveva superato il numero dei voti necessari all'elezione dopo appena quattro scrutini, da mattina a sera. La delusione s'era accresciuta a mezzogiorno di lunedì dinanzi alla terza fumata nera, anche se più di un cardinale aveva pubblicamente pronosticato che per dare un successore a Giovanni Paolo I sarebbero stati necessari dai due ai tre giorni.
La previsione era dettata in parte dalla ripetizione a breve scadenza del conclave determinata dalla repentina scomparsa di Luciani, in parte dal desiderio di mostrare al mondo l'unione del collegio cardinalizio. I porporati non avevano più bisogno, per conoscersi, di studiare le reciproche stringate biografie fornite loro dal Vaticano in agosto o di approfondire i bisogni della Chiesa. Ne avevano discusso a lungo nel corso della preparazione del precedente conclave e i trentatré giorni del pontificato Luciani avevano lasciato insoluti i problemi. L'unico elemento nuovo era rappresentato dalla comune volontà degli elettori di documentare la fraternità esistente tra uomini provenienti da ogni angolo della terra, diversi per cultura, costumi, nazione e colore di pelle.
I cardinali non avevano dimenticato con quale favorevolissima eco l'opinione pubblica mondiale aveva accolto la rapida elezione di Luciani e come essi stessi ne avessero gioito per il suo valore e significato. «Visto come siamo stati bravi? È un esempio di unanimità che va meditato», aveva dichiarato all'indomani il cardinale Sergio Pignedoli. A sua volta l'arcivescovo di Firenze, Giovanni Benelli, rievocando l'intesa subito raggiunta all'interno della Sistina, aveva ricordato: «Un cardinale che mi sedeva vicino ad un certo punto ha detto: sembra che si sia usciti tutti dallo stesso seminario».
Non è escluso, quindi, come qualcuno degli elettori più tardi farà capire, che la presenza della folla in piazza San Pietro negli orari previsti per il termine degli scrutini - una presenza osservata dai cardinali attraverso le fessure delle finestre, meno sigillate di quanto prescrivesse il regolamento e di quanto era avvenuto in agosto perché unanime era stata la richiesta di non essere sottoposti a minuzie rispondenti ad un contesto d'altra epoca - abbia contribuito a far sì che alle 18,45 di lunedì il fumo del comignolo della Sistina fosse inequivocabilmente bianco. Restava però da sapere quale annuncio avrebbe dato il cardinale Pericle Felici dal balcone centrale della Basilica.
Sulla piazza gremita, tutta gente che aveva visto il fumo bianco come una bandiera di pace sventolare in cielo, presero a scendere lenti i minuti nell'ansia di conoscere il nome dell'eletto. Le congetture si intrecciavano, le previsioni fiorivano mentre da tutti i quartieri di Roma a piedi, in macchina, con i mezzi pubblici, fedeli e curiosi accorrevano verso San Pietro per essere presenti all'evento, ricevere la prima benedizione del nuovo papa. ln breve tempo fu densa più di un formicaio la piazza con tutte le strade adiacenti e il tramonto fu ingoiato da una sera stellata avanti che si aprisse la vetrata del lungo balcone sopra l'immenso portale della Basilica e, inquadrato dalle luci delle fotoelettriche, apparisse il cardinale, rivestito degli abiti liturgici a dare l'annuncio.

IL NOME SCONOSCIUTO

Felici è un cardinale nato in Ciociaria, un romano ricco di umori, cui era toccato in qualità di protodiacono di proclamare la nascita di Giovanni Paolo I. Secondo indiscrezioni successivamente smentite, Felici aveva in animo di aggiungere alla tradizionale formula dell'habemus Papam un augurio di lunga vita all'eletto. Ma fosse vera o no l'intenzione, certo rimase trasecolato quando, pronunciato il nome, la folla non esplose nell'usuale applauso. Anzi il silenzio, lo sconcerto, quasi una folata gelida, che aveva accolto il nome di Carolum, cui Felici fece seguire una pausa - preoccupato, spiegherà poi, per l'esatta pronuncia polacca di Wojtyla - divenne tanto imbarazzante da indurre il cardinale ad aggiungere con sveltezza che il nuovo Pontefice si sarebbe chiamato Giovanni Paolo II. E il gelo si stemperò.
La perplessità calata sulla folla per un nome sconosciuto, del quale si ignorava la nazionalità - in un primo momento alcuni credettero persino che si trattasse di un uomo di colore - fu cancellata appena il Papa apparve sulla loggia centrale di San Pietro. Nell'ora trascorsa tra l'annuncio e l'apparizione l'edizione straordinaria dell'«Osservatore Romano» distribuita nella piazza aveva permesso a molti di apprendere i dati essenziali di Giovanni Paolo II, e lo stupore per l'elezione di uno straniero, dopo quattro secoli e mezzo di una ininterrotta fila di papi italiani, di un uomo di 58 anni, per di più inesperto della curia romana - proprio il contrario della ideale fisionomia abbozzata dagli elettori nell'entrare in conclave: un italiano, non tanto giovane, pratico del governo mondiale della Chiesa - s'era andata attenuando. Sbiadì ancora di più al cospetto dell'uomo scelto: la sua atletica, nerboruta figura s'imponeva, anche se dava l'impressione di essere più uno sportivo e un uomo di azione che il nuovo «santo padre» dell'umanità. C'era qualcosa di moderno, di svecchiato, in lui, che comunicava ardore. E ancora, il disinvolto gesto con cui l'uomo dall'abito bianco appoggiò le grandi, pesanti mani sulla balaustra del balcone, quasi a prenderne materialmente possesso. Note di incisività, di coraggio, di chiarezza.

PERSONALITÀ PROROMPENTE

Non era mai avvenuto che un Papa si presentasse al popolo, alle migliaia di persone raccolte entro l'emiciclo berniniano il giorno dell'elezione e al mondo collegato attraverso gli schermi televisivi, con tanta prorompente personalità. Di solito, il cardinale che ha appena scambiato le sue vesti rosse con quelle bianche appare schiacciato dal peso del pontificato impostogli: l'emozione e la tradizione lo inducono soltanto a leggere la formula della benedizione urbi et orbi e a tracciarne il gesto. Non era mai accaduto che un Papa ai suoi primi istanti di pontificato prendesse la parola, si rivolgesse alla folla improvvisando un discorso.
Una delle preoccupazioni dei cardinali in conclave, i quali il mattino di lunedì, constatando l'impossibilità di superare gli incrociati veti alle candidature di due italiani, avevano preso a scrivere sulle schede il nome di Wojtyla con la penna dall'involucro bianco e rosso fornita dall'organizzazione vaticana, riguardava appunto la reazione dei fedeli. Come avrebbero accolta la rottura della tradizione secolare? Non sarebbe stato più opportuno procedere ad una soluzione di compromesso facendo cadere i suffragi su uno straniero vissuto a Roma? Interrogativi che non bloccarono il coagularsi di una forte maggioranza di voti intorno al cardinale di Cracovia.
Era inevitabile perciò che Giovanni Paolo II si studiasse di creare simpatia intorno a sé, e scegliesse il metodo diretto: presentarsi alla folla. Lui stesso in seguito lo confesserà. «Nel recinto del conclave - ebbe a dire - dopo l'elezione, pensavo: che cosa dirò ai romani quando mi presenterò dinanzi ad essi come il loro vescovo, provenendo da un paese lontano, dalla Polonia? Mi è venuta allora in mente la figura di San Pietro. Ed ho pensato così. Quasi duemila anni fa anche i vostri avi hanno accettato un Nuovo Venuto, adesso quindi voi pure accoglierete un altro; accoglierete anche Giovanni Paolo II, come avete accolto una volta Pietro di Galilea».
Ancora lui non poteva sapere che il suo «Sia lodato Gesù Cristo», la tradizionale invocazione che sembrava scomparsa dal linguaggio degli ecclesiastici, almeno occidentali, con cui cominciò a dare conto della scelta dei cardinali, chiamati «reverendissimi» invece che «eminentissimi»; il timore di non sapersi spiegare bene in italiano e l'invito, eventualmente, a correggerlo, dovevano immediatamente affascinare per la semplicità e la schiettezza. Poche parole ben dosate, con giuste pause, per comprarsi un popolo che subito lo ripagò con amore, quasi si sentisse colpevole di non averlo conosciuto e cercato prima.

LO CHAMPAGNE DI GIOVANNI PAOLO II

Un iniziale impatto che tuttavia non permetteva di andare al di là dell'apparenza, di superare il fatto che era appena nato Giovanni Paolo II. Neppure i cardinali potevano sapere a quale tipo di pontificato egli avrebbe dato vita. Anche per loro era uno sconosciuto, tanto che, pur desiderando mettere subito termine alla scomodissima clausura - tra l'altro dovevano fare la fila per l'uso del bagno - non ebbero l'ardire di chiederlo al nuovo Pontefice e si adattarono a trascorrere un'altra notte nel chiuso del recinto, nelle improvvisate «celle». Notarono soltanto, recandosi a cena nel refettorio comune allogato all'interno del famoso e fastoso appartamento Borgia, che al momento del brindisi con champagne, Wojtyla non si limitò ad alzare il bicchiere. Si levò dal posto che tre giorni prima gli era stato assegnato in ordine di decananza, e che era tornato ad occupare come se nel frattempo nulla fosse accaduto, per salutare uno ad uno i suoi elettori, far tintinnare il proprio bicchiere con quelli altrui. Un gesto di umile cortesia che a detta del cardinale belga Leo Suenens piacque moltissimo, cui seguì il mattino successivo, ancora a conclave chiuso agli estranei, un messaggio che lasciava trasparire anche un aspetto della personalità dell'eletto, oltre alla sua ribadita affermazione di volere restare fedele alle linee di rinnovamento della Chiesa decretate dal concilio Vaticano Secondo.
Tra l'altro nel messaggio egli evitò ogni accenno alla propria inadeguatezza di fronte al compito affidatogli, e il non protestarsi inferiore, quasi sentirsi incapace di portare avanti l'esercizio del pontificato - espressioni talvolta convenzionali che più o meno marcatamente tutti i suoi predecessori avevano pronunciato - rappresentò un segno di chiarezza. Realmente Wojtyla rispondeva all'indicazione e all'intenzione del conclave con «tranquillità interiore», immediatamente confermata dalla prima notte di pontificato trascorsa scrivendo da solo il messaggio da leggere ai cardinali, cioè rifiutando l'aiuto degli alti prelati della Segreteria di Stato (ai quali è normale rivolgersi) che sarebbero stati lieti di mettere a sua disposizione la loro esperienza. E la riprova che il Papa polacco difficilmente si sarebbe fatto guidare dall'ambiente si ebbe pubblicamente poche ore più tardi, quando Giovanni Paolo II decise di uscire dal Vaticano.

PRIMA SORTITA

Un tempo, anche dopo che la «questione romana» era stata risolta con gli accordi del 1929, il nuovo Papa lasciava i palazzi apostolici solo parecchi giorni dopo l'elezione, per prendere possesso della Basilica di San Giovanni in Laterano, la sede del vescovo di Roma. Nel Paolo VI aveva rotto la tradizione per visitare un cardinale spagnolo uscito infermo dal conclave. Una sollecitudine più che giustificata, che era al tempo stesso un omaggio alla Chiesa spagnola e all'intero collegio cardinalizio. Peraltro il gesto era stato preannunciato alle autorità italiane, le quali avevano disposto l'opportuno servizio d'ordine.
Papa Wojtyla invece manifestò improvvisamente il desiderio di visitare il polacco monsignor Andrzej Deskur, un amico personale ricoverato al Policlinico Gemelli per una trombosi cerebrale che lo aveva colpito il giorno prima del conclave. Come se fosse cosa normale per un Papa abbandonare di punto in bianco i suoi appartamenti e mettersi a girare per Roma, il segretario di Wojtyla padre Stanislaw Dziwisz (un giovane, biondo religioso che già svolgeva la medesima funzione a Cracovia) telefonò all'autorimessa vaticana chiedendo la vettura del pontefice. E immediatamente l'ottenne. Papa e segretario, ambedue inesperti dei luoghi, delle stanze, delle scale e scalette, infilarono un corridoio, oltrepassarono la porta giusta e presero un'ascensore comune, anziché quello «nobile» esclusivamente riservato ai pontefici, scendo in un cortile diverso da quello in cui attendeva l'automobile.
L'inaspettata presenza di Giovanni Paolo II nell'ospedale elettrizzò degenti e personale medico al punto che neppure l'affannoso accorrere di polizia, carabinieri, uomini della Digos e dell'antiterrorismo, persone in divisa e in borghese che si contendevano tra loro e con i membri del corpo di vigilanza del Vaticano la salvaguardia del visitatore, riuscì ad evitare la ressa.
Lo stesso Papa fu sballottato con tale violenza da spingerlo a dire, nel discorso rivolto agli ammalati, di aver rischiato «per sovrabbondanza d'affetto di restare io stesso dentro questo ospedale». Accenno dal tono esplicitamente ironico, che successivamente si scoprì essere una costante di Papa Wojtyla, piuttosto restio nel manifestare i propri sentimenti, il quale se ne serve anche nei confronti di se stesso. Infatti aveva appena terminato di parlare, quando, avvertito da un prelato, aggiunse: «Scusate, mi hanno ricordato che devo darvi la benedizione».

CONFERENZA - STAMPA

L'episodio dimostrò la simpatia già conquistata dal Papa «straniero» ed in particolare la disinvoltura con cui il cardinale di Cracovia aveva indossato le vesti bianche. Ne fu certa soprattutto la moltitudine di giornalisti che aveva seguito le fasi del conclave, ai quali l'eletto volle dedicare una delle prime udienze collettive. All'inizio l'incontro s'era snodato secondo i ritmi usuali; da una parte il Papa non s'era discostato dai moniti che in simili occasioni i nuovi pontefici sogliono impartire agli operatori delle comunicazioni sociali, sia pure alternando all'approvazione per il lavoro compiuto inviti a fare meglio e con maggiore profondità; dall'altra una platea di occhi attenta e maliziosa per formarsi una opinione personale del personaggio chiamato a governare la Chiesa. Poi, terminato il discorso, una volta alzatosi dalla poltrona papale entro cui era stato costretto a rannicchiarsi per via di una corporatura che davvero non poteva essere paragonata all'esilità di Montini e di Luciani, Giovanni Paolo II s'era infischiato delle garbate pressioni dei monsignori a lui vicini perché lasciasse in fretta l'aula. Tranquillamente aveva diretto i passi verso i giornalisti, accalcati in doppie, triplici file al di qua e al di là delle bancate che dividevano il salone, dando luogo ad una sorta di conferenza stampa. «Santità, non si sente prigioniero?». E lui condiscendente, dopo un attimo di perplessità che si rifletté sul suo volto di slavo, dagli zigomi alti, il naso corto, la carnagione chiara: «Beh, sono passati pochi giorni. Poi vedremo». «Come si trova in Vaticano?». «Si può resistere». Botte e risposte, rapidi dialoghi nelle più disparate lingue, fatti veramente inconsueti per la ieratica etichetta vaticana, che indicano subito come il nuovo Papa non sottovaluti l'importanza dei mezzi di informazione ma anziché blandirli o rifuggirli, li affronti e magari cerchi di catechizzarli, comunque riuscendo ad utilizzarli per il prestigio del papato e della Chiesa.
Una delle risposte che in quell'occasione ebbe maggior eco riguardava la possibilità di tornare in Polonia, a Cracovia: «Sì, se me lo permetteranno», disse Giovanni Paolo II, iniziando a pubblicizzare un desiderio che nutriva fin dalle prime ore successive all'elezione. Non a caso una delle prime telefonate era stata per il palazzo arcivescovile della sua città. Gli aveva risposto il vescovo ausiliare Stanislaw Smolelnski, già suo principale collaboratore. «Pronto - aveva detto Wojtyla - non mi riconosce? Sono il Papa». Dall'altra parte del filo il presule era rimasto paralizzato dall'emozione, riuscendo appena a balbettare qualche parola. «Mi saluti tutti i fratelli carissimi. Dica loro che invio la mia paterna benedizione» - lo aveva incalzato Giovanni Paolo II - «vi chiamerò ancora. Spero che la televisione in Polonia dia in diretta la cerimonia dell'incoronazione fra qualche giorno».

RIPERCUSSIONI POLITICHE

L'incertezza di Papa Wojtyla per le reazioni del governo di Varsavia, almeno sul piano ufficiale, era giustificata. La svolta storica operata dai cardinali scegliendo un uomo dell'est, un presule dei paesi socialisti poteva dare ingresso a contrastanti giudizi. Difatti i grandi organi di stampa, le radio e le televisioni posero giustamente l'accenno sulla nazionalità del Pontefice, non soltanto per esaltare il cattolicesimo polacco, così provato dalla fedeltà a Roma, quanto anche per il significato politico che vi si annetteva. Alle sottolineature della posizione anticomunista della Chiesa polacca furono contrapposte opinioni volte a sostenere che i cardinali elettori avevano voluto rompere la logica dei blocchi, dando un concreto esempio di apertura. «L'ascesa di un cardinale polacco sul trono pontificio è la migliore smentita del silenzio della Chiesa nei paesi socialisti», ebbe a scrivere con evidente intento propagandistico il settimanale sovietico «Tempi Nuovi», avallando l'atteggiamento assunto dalle autorità di Varsavia le quali, superata la sorpresa, avevano manifestato soddisfazione ufficialmente in toni contenuti. Ma una cosa era l'orgoglio dei Polacchi, che a livello popolare aveva provocato commozione ed esaltazione e che in privato coinvolgeva anche i vertici del governo e del partito comunista, altra l'annosa tensione ideologica tra Stato e Chiesa. Uno degli ostacoli al processo di normalizzazione fra la Chiesa di Polonia e le autorità comuniste era rappresentato appunto dalla richiesta, sempre respinta, del libero accesso alla radio e alla televisione per le manifestazioni religiose.

IL SEGNO DEL POTERE

Il capitolo del dialogo di Roma papale con i paesi comunisti dell'Europa dell'est, la cui prefazione era stata scritta da Giovanni XXIII, e che era stato aperto da Paolo VI dando inizio a quella che fu chiamata l'«Ostpolitik vaticana», segnava il passo In Polonia non s'era superato lo stadio di una astiosa, precaria convivenza fra regime e Chiesa, determinata soprattutto dalla granitica compattezza dei cattolici e dalla necessità per il governo di dover fare appello alla gerarchia ecclesiastica nei momenti più difficili per invitare il popolo alla moderazione. Furono necessarie lunghe e complesse trattative fra la televisione italiana e quella polacca perché la grande cerimonia religiosa dell'insediamento potesse essere seguita dal vivo dai connazionali di Wojtyla.
Una cerimonia che fu chiamata di «inaugurazione» del pontificato anziché di incoronazione o intronizzazione, come già era avvenuto per l'inizio del governo di Giovanni Paolo I, il quale, seguendo tutto sommato le indicazioni di Paolo VI (presto disfattosi della triplice corona regalatagli dai fedeli milanesi), aveva preferito accantonare anche lui il «triregno». Però Giovanni Paolo II, in un passo del discorso pronunciato per l'occasione, avvertì che la rinuncia era limitata al segno esteriore del potere, non al suo esercizio, volendone mantenere l'intimo e vitale significato. Una dichiarazione rivolta all'interno della Chiesa, mentre all'esterno invitava ad «aprire, spalancare le porte a Cristo». Fu questo l'aspetto più rilevante di un rito liturgico spettacolare, tenuto all'aperto, sul sagrato della Basilica, che aveva preso l'avvio con la lunga teoria dei cardinali che rendevano omaggio al Papa accolti da lui familiarmente. Uno dei momenti che fece scattare l'applauso della piazza gremita fino all'inverosimile fu provocato dall'incontro con il cardinale Stefan Wyszynski, primate di Polonia. Al bacio dell'anello da parte di Wyszynski, Giovanni Paolo II replicò con un inchino e il bacio della mano del vecchio cardinale. Al gesto seguì l'ovazione dei polacchi affluiti a Roma in numero così cospicuo che le autorità di Varsavia avevano dovuto chiudere un occhio nella concessione dei visti sui passaporti. Del resto non avrebbero potuto agire diversamente senza rischiare proteste che sarebbero state subito colte dall'opinione pubblica mondiale, assai attenta a quel che succedeva in Polonia dopo l'elezione di Wojtyla, così come dovettero acconciarsi alla volontà del Papa di sfruttare l'occasione della trasmissione diretta il più a lungo possibile. Infatti, terminato il rito, peraltro lungo e con molte pause, Giovanni Paolo II non si congedò: con i paramenti sacri indosso e il pastorale in mano con cui dava la benedizione, talvolta agitandolo con forza, lasciò il seggio pontificale e si avviò fra gli esterrefatti addetti al servizio d'ordine vaticano verso la scalinata che congiunge il sagrato alla piazza. Era un invito, che i fedeli delle prime file accolsero con entusiasmo, stringendoglisi intorno, polacchi e italiani.

POPOLARITÀ CRESCENTE

La spontaneità di Giovanni Paolo II non poteva non colpire la fantasia e dilatarne la popolarità. Giorno dietro giorno gli episodi si moltiplicarono. «Dobbiamo chiudere, è il tempo per il pranzo», disse affacciandosi alla finestra, nel riprendere l'uso dei predecessori di recitare l'«Angelus» domenicale, per mettere fine agli interminabili applausi. E il secondo, pubblico, struggente abbraccio a Wyszynski nel corso dell'udienza di commiato al pellegrinaggio polacco. I due sembrarono fondersi, annullarsi reciprocamente: il vecchio, diafano cardinale che tentava insistentemente di inginocchiarsi quasi sparì tra le robuste braccia del Papa che lo accoglievano e sorreggevano. O il gesto, che poi diverrà usuale, di levare in alto i bambini tra le mani grandi, forti da antico guerriero, e di baciarli, magari commentando: «Vedo che non basta un solo Papa per abbracciare tutti. Il Papa tuttavia è uno solo e non so come moltiplicarlo». Oppure la corsa a Castel Gandolfo, nella residenza estiva papale, spinto dalla curiosità di visitare una località ed un palazzo del quale aveva sentito parlare per anni, che gli fece dire agli abitanti: «Così sono divenuto un vostro concittadino. Il nostro primo incontro è molto rumoroso, molto caloroso. Ma spero che sia molto religioso».
Le cronache furono costrette a parlare di lui, della sua attività instancabile e imprevedibile, di uscite notturne quasi clandestine per tornare a trovare l'amico Deskur all'ospedale, del pellegrinaggio al santuario mariano della Mentorella. «Romani, sapete dove si trova Mentorella?», chiese una domenica alla fine di ottobre dalla finestra dello studio. E molti che si accalcavano sotto il palazzo apostolico, romani e no, non avrebbero davvero saputo rispondere. Mentorella è un santuario, un eremo posto sui monti Prenestini, a breve distanza dalla città, quasi del tutto sconosciuto ai medesimi itinerari di fede, che il cardinale Wojtyla amava visitare ogni qualvolta veniva a Roma. Una chiesetta affidata a quattro religiosi polacchi che divenne immediatamente nota a folle di fedeli il giorno in cui il Papa prese l'elicottero per raggiungerla. Prima vi si recava in macchina fin dove cominciava il sentiero che mena al santuario, chilometri e chilometri di cammino tutt'altro che agevole. Ma un Papa non può più comportarsi come uno sconosciuto cardinale. Adesso i riflettori della pubblicità sono puntati su di lui per studiarne i gesti più minuti, persino il modo di muoversi, di parlare, oltre a centellinarne le parole.
I primi a scrutarlo sono i monsignori vaticani che gli vivono attorno, che ruotano nella sua orbita. Prelati importanti e meno, religiosi e laici sono tutti curiosi e ansiosi di essere i primi a conoscere le novità, di penetrare la sua intimità.

LA GIORNATA DEL PAPA

Dall'appartamento pontificio prospiciente le logge di Raffaello, al terzo piano del palazzo apostolico, la mattina attorno alle otto non si spande l'odore del caffélatte ma il sottile aroma delle uova fritte, del prosciutto, del pane tostato. A servire il Papa sono tre suore polacche dell'istituto di San Stanislao, che ha sede in via delle Botteghe Oscure, quasi a gomito con la sede della direzione del PCI. Giovanni Paolo II è mattiniero, si alza alle cinque, e dopo due ore, impiegate in preghiere e meditazioni, celebra la messa nella cappella privata per sé e per le suore. Una breve passeggiata sul terrazzo che fu costruito per Paolo VI, da cui si domina Roma, rappresenta il giornaliero esercizio fisico.
Alle otto e trenta Wojtyla si misura con la lettura di giornali, di dossier, di dispacci, di relazioni, di petizioni. È una lettura veloce in virtù della buona memoria e di una eccellente vista: è il primo Papa, tra quanti se ne ricordano, a non aver bisogno di occhiali.Il pranzo arriva alle tredici, e non è mai consumato in solitudine. Il pomeriggio non è poi tanto diverso dal mattino. A differenza dei suoi predecessori, che si riservavano le ore pomeridiane per se stessi, Papa Wojtyla sconvolge le abitudini vaticane continuando a dare udienza. Le luci dell'appartamento privato si spengono alle dopo un pasto frugale consumato, come il pranzo, spesso in compagnia. Dalla giornata restano esclusi gli sports, le scalate in montagna, lo sci, la canoa; le parentesi di libertà che un Papa non può prendersi, anche se è giovane e sano.
C'è un mondo che lo guarda, una opinione pubblica che vorrebbe immediatamente rendersi conto di quale Papa le hanno dato, se non altro perché ogni pontificato prende le sembianze dell'uomo che lo impersona. E non basta sapere ciò che è stato, conoscere le sue passate esperienze, i libri scritti, gli interventi in concilio o nei sinodi episcopali. Questo rappresenta l'ieri, costituisce una base per giudicare il passato, neanche tanto sicura, giacché il papato, le grandi responsabilità assunte, modificano, maturano, consumano, fanno rivedere opinioni. Già Wojtyla non è più l'uomo di poche parole, schivo, modesto che si vedeva incontrandolo da cardinale: insieme con le nuovi vesti pare aver acquistato la certezza di poter garantire la leadership della Chiesa. Una leadership perseguita in altre forme pure da Paolo VI, il quale nei primi giorni di pontificato confessava ad un cardinale di puntare al raddoppio del numero dei cattolici. Ma Montini, divenuto papa con un concilio appena avviato e l'impegno di condurlo a termine, tormentato dalla crisi ideologica e disciplinare che l'evento aveva provocato nella Chiesa, subiva coi suoi tentennamenti il peso di portare sulle spalle l'eredità di duemila anni di pontificato: mancava dell'ottimismo, della felicità di vivere che promana da Giovanni Paolo II, il quale, ignorandole, sconvolge le costumanze vaticane, ascolta tutti evitando di dare risposte salvo non siano richiami all'ordine rivolti alle varie componenti della Chiesa. E nel frattempo si studia di allargare i consensi.

IL CATECHISMO DEL PAPA

Le udienze generali continuavano ad essere così affollate da colmare sia le navate di San Pietro, sia la grande aula fatta costruire da Paolo VI. Ed ogni volta, la difficoltà di vederlo da vicino, poiché Wojtyla aveva rifiutato la sedia gestatoria, adoperata da Montini per l'artrosi che gli impediva di muoversi agilmente. Per venire a capo del problema, gli addetti alle udienze furono costretti a mettere in atto un marchingegno: una pedana mobile che rendesse visibile il Papa da ogni angolo, anche il più lontano. Ma la pedana non poteva risolvere tutti i problemi, limitava non annullava la calca, che un giorno fece dire a Giovanni Paolo II: «Quanto chiasso. Mi date la parola»?. E ottenuto un relativo silenzio proseguì: «Quando sento questo chiasso penso sempre a San Pietro che si trova qui sotto. Non so se questo chiasso gli farà piacere, ma io penso che sia contento».
In questi incontri settimanali il Papa riprese, in tono meno disarmante, il discorso catechistico iniziato da Luciani. La sua voce non è ascetica come quella di Pio XII, non ha la melodiosa risonanza di Giovanni XXIII, non è sofferta come quella di Paolo VI, non è indulgente come quella di Giovanni Paolo I: è incisiva, sicura, gradevole, di un uomo che conosce l'uomo, debolezze e grandezze; di chi non ha cercato il comando, ma ricevutolo, ne usa. Con garbo, s'intende.
La vivacissima accoglienza di circa tredicimila suore ricevute in Vaticano gli fece dire: «Pensavo che le suore fossero gente alla buona. Invece fanno tanto rumore: è gente energica che vuole distruggere il Papa o almeno la sua sottana». Ma a queste parole di buon umore fece poi seguire un discorso in cui non mancavano i richiami alla disciplina. Subito dopo il primo Natale, trascorso a Roma senza dimenticare, nell'intimità, nessuna delle usanze polacche e negli addobbi e nei cibi (lui stesso lo confesserà ai fedeli: «Voglio assicurarvi che questa prima vigilia di Natale del Papa si è svolta a Roma come tutte le volte a Cracovia; dunque tutto prosegue per adesso nel migliore dei modi»), il Papa non esitò a rimproverare i vescovi che mandavano i pellegrinaggi delle loro diocesi senza guidarli personalmente.
Nelle udienze generali del mercoledì i vescovi che sono a capo dei gruppi, i cui nomi fanno parte di una lista comunicata in anticipo al Papa, vengono fatti sedere accanto alla poltrona papale. Quel giorno ne mancavano parecchi e Papa Wojtyla ne fece rimarcare l'assenza. «Si vede - soggiunse - che i vescovi debbono stare a casa durante le feste di Natale e devono sorvegliare il presepe». Si trattò non di una tiratina d'orecchie, ma della riaffermazione del principio d'autorità che cominciava ad emergere nitidamente e che, conseguentemente, provocava allarmi al'interno della Chiesa, o meglio tra coloro che ancora non avevano capito come il suo passo da montanaro si adattasse perfettamente ad un uomo fornito di una dura volontà, in certe cose addirittura granitica. Lo si comprese con il primo grande viaggio fuori d'Italia, in Messico.

PELLEGRINO APOSTOLICO

Uno dei problemi che Paolo VI aveva lasciato in eredità a Giovanni Paolo I e questi, a sua volta, a Papa Wojtyla riguardava la conferenza generale dell'episcopato latino-americano da tenersi nella cittadina messicana di Puebla. L'assemblea era stata convocata da Montini, il quale nel 1968 s'era recato in Colombia appunto per inaugurare una identica manifestazione, quella che aveva attribuito alle Chiese latino-americane un nuovo ruolo nel continente. Il 1968 era stato l'anno in cui la contestazione, esplosa a catena in ogni settore, anche in campo religioso, dilagava in tutto il mondo, lacerando di volta in volta antichi equilibri.
Per l'America Latina il castrismo, oramai consolidatosi a Cuba, cui facevano riscontro il «golpismo» delle destre militari e la sopraffazione di ristretti gruppi, sollecitava gli episcopati - incitati da quanto avevano appreso nel concilio Vaticano Secondo e dalla montiniana enciclica Populorum progressio - a prendere posizione. Quale? Per gli studenti latino-americani non v'era solo l'esempio di Ché Guevara, che poteva mettere termine all'antico squilibrio tra i tassi di aumento della popolazione e il debole ritmo di sviluppo della produzione. Sull'altro lato dello stesso crinale si ergeva la figura di Camilo Torres, il sacerdote colombiano che aveva buttato la tonaca alle ortiche ed era morto imbracciando il mitra del «guerriero». I capi delle Chiese locali, radunati nella cittadina colombiana di Medellín, erano stati ammoniti da Paolo VI a rifiutare la violenza e il marxismo, ma pure a riparare agli errori del passato, curare le «attuali infermità», indicare la «giustizia in cammino verso la fratellanza e la pace».
Durante due settimane, quando già Paolo VI era tornato a Roma, i vescovi avevano messo a punto, superando non pochi contrasti interni, una serie di documenti che analizzavano i mali dell'America Latina, mali socio-economici, politici, culturali, adottando scelte sconvolgenti per le Chiese di quel continente, ancora rimaste rattrappite nella missione di custodire la fede e preparare le anime per l'eternità. Nuovi processi si sostituivano alla tradizionale difesa delle classi dominanti e dei privilegi concessi dai governi. Nasceva una concezione della Chiesa diversa e distante da quella sopravvissuta all'epoca coloniale; una visione naturalmente accompagnata da crisi di rigetto. Un tipo di Chiesa che vide vescovi, preti, suore, schierati in difesa dei poveri e degli oppressi, pronti a darne personale testimonianza. Almeno dove i documenti di Medellín, approvati dalla Santa Sede, avevano avuto concreta applicazione. Ne erano seguite tensioni, giacché al tentativo di superare il dramma di popolazioni sovente al di sotto del livello di sussistenza mediante trasformazioni sociali, le classi dominanti avevano risposto affidando il potere, in molte delle venti repubbliche latino-americane, ai regimi militari e all'adozione della «sicurezza nazionale». Una ideologia che giustificava la repressione in nome della lotta ai fermenti rivoluzionari, per garantire la stabilità e l'ordine contro le infiltrazioni «sovversive» nella Chiesa.
In questa situazione, che coinvolgeva quasi la metà dei cattolici nel mondo, Paolo VI aveva convocato la conferenza dei rappresentanti dell'episcopato per l'ottobre del . La sua morte, e poi quella di Luciani, avevano fatto slittare la riunione al gennaio del 1979. Spettava dunque a Giovanni Paolo II decidere se l'assemblea dovesse aprirsi alla sua presenza ed ascoltarlo di persona o se, come già aveva anticipato Luciani, il Papa avrebbe seguito i lavori restando a Roma.
Fin oltre la metà di dicembre Papa Wojtyla mantenne il silenzio, pur continuando a dimostrare di non avere alcuna intenzione di restare confinato entro le mura del Vaticano, tra stanze, cortili e uffici di cui aveva cominciato ad impratichirsi visitandoli metodicamente. In novembre s'era recato ad Assisi in elicottero; le ore trascorse nella cittadella di San Francesco, l'incontro con la moltitudine accorsa da tutta l'Umbria avevano testimoniato la sua comunicatività. «Saluto tutti, specialmente quelli che si trovano sui tetti avendo un po' paura per loro», aveva esordito levando gli occhi verso i grappoli umani che, non trovando posto nel pur ampio spiazzo dinanzi alla Basilica inferiore, gremitissimo, s'erano inerpicati sulle case prospicienti. Ma Assisi e l'omaggio ad uno dei santi patroni d'Italia, cui era seguíto nella stessa giornata quello reso a Roma, sostando dinanzi alla tomba di Santa Caterina da Siena, rientravano in una certo senso nella normalità di un Papa «venuto da lontano», giovane e attivo; non possedevano le incognite di un viaggio in un mondo tanto travagliato e turbolento come quello sudamericano.
Nell'usuale udienza ai cardinali per ricevere gli auguri di Natale, Giovanni Paolo II dette l'annunzio ufficiale: comunicò che si sarebbe recato in Messico per dare il via alla terza conferenza dell'episcopato. «Qualcuno ha detto - spiegò - che il futuro della Chiesa 'si gioca' nell'America Latina. Anche se, su un piano generale, questo futuro è nascosto in Dio secondo un suo disegno che va oltre i progetti umani e i condizionamenti storico-sociali, quella frase contiene una sua verità, perché sta a significare quanto sia solidale la sorte della Chiesa nel continente centro e sudamericano con quella dell'unica e indivisa Chiesa di Cristo».

IL PRIMO GRANDE VIAGGIO

Il Papa avrebbe soggiornato in un paese di due milioni di chilometri quadrati, con una popolazione di 64 milioni di abitanti in maggioranza meticci, di cui l'83% cattolico, colpito da una grave crisi economica, fughe di capitali, alti tassi di disoccupazione ed un livello di analfabetismo mediamente del 20% ma che sale al 40% nelle campagne. Sarebbe andato nel favoloso Messico degli Aztechi e dei Maya, le popolazioni preispaniche soggiogate da Cortes e alle quali i missionari avevano imposto una cristianizzazione alla spagnola; tra gente dove la grande povertà coesiste con grandi ricchezze. Un mondo in sostanza che, sotto determinati aspetti, riassumeva le condizioni generali del continente e conseguentemente avrebbe sollecitato il Papa a non misurare le parole. Non che fino ad allora avesse avuto riserve: nei due mesi e mezzo di pontificato aveva più volte sostenuto come non vi potesse essere altra soluzione per risolvere i «difficili problemi sociali, economici, politici, i problemi della cultura e della civiltà contemporanea, le sofferenze dell'uomo di oggi, i suoi sbandamenti, le sue tensioni, i suoi complessi, le sue inquietudini» che nel Vangelo. Però aveva più colpito la sua vitalità piuttosto che l'inflessibilità in materia di fede e la volontà di ristabilire la disciplina nel mondo ecclesiastico. Ora era venuto il momento di vedere come si sarebbe comportato il Papa nell'affrontare una situazione che avrebbe avuto ripercussioni anche fuori del continente sudamericano.
Per il viaggio di sette giorni, dal 25 al 31 gennaio, Giovanni Paolo II s'era preparato anche sotto il profilo tecnico. «Non conosco lo spagnolo», aveva confessato ai giornalisti che lo avevano interpellato in quella lingua durante l'incontro in Vaticano, «ma ho promesso ai cardinali di Spagna in conclave che lo imparerò». E lo aveva fatto. I primi ad accorgersene furono appunto i giornalisti messicani ammessi sull'aereo papale che il mattino del 25 lasciò Roma per San Domingo, tappa di un giorno, prima dello sbarco a Città del Messico. Il Vaticano, infatti, aveva accettato di mettere a disposizione un certo numero di posti per gli inviati dei giornali, delle televisioni, delle radio. Un numero assai limitato rispetto a quanti volevano seguire il pellegrinaggio pontificio, rigidamente suddiviso a seconda delle nazionalità. Tuttavia si ignorava che, una volta in volo, Papa Wojtyla avrebbe lasciato la speciale cabina approntatagli sull'aereo (rimosse le poltrone dell'intera prima classe, era stata allestita una zona salotta con un tavolo e quattro poltroncine destinato alla consumazione dei pasti ed eventualmente a lavorare) per intrattenersi a colloquio con i giornalisti del seguito. A distanza di circa mezz'ora dalla partenza il Pontefice apparve nel settore riservato ai rappresentanti della stampa, non per distribuire medagliette o santini, ma per sottoporsi a qualsiasi tipo di domande gli fossero state rivolte.
«Legge i giornali di sinistra?». «Li leggo con particolare attenzione. Bisogna conoscere le critiche che ci rivolgono. Dobbiamo essere autocritici». Sicuro di sé, passava di posto in posto ascoltando con attenzione l'interlocutore, meditando le parole di risposta. «Recandosi a San Domingo prima, nell'isola in cui sbarcò Colombo, e poi in Messico, lei, Santità, ripercorre il cammino dei conquistatori, una pagina di storia con momenti foschi. Con quale spirito ripercorre questo cammino?», gli chiese un telecronista italiano. E il Papa: «Occorre collocare le cose nella prospettiva storica. Pagine fosche ci sono state, ma c'è stata pure l'evangelizzazione, che è un bene. Del resto si parla delle pagine fosche del passato, ma non ci sono anche oggi pagine proprio fosche?».
Il dialogo andò avanti oltre un'ora nella più assoluta libertà, conquistando ancora una volta lo spregiudicato uditorio. «Santità, cosa porta in America Latina?». «Porto la fede, non è abbastanza?». «Non corre il rischio di assistere o anche di prendere parte ad un grande spettacolo che nasconda la vera realtà?». «Vedrò vescovi che conoscono bene ciò che avviene». «Lascerà a loro, dunque, il giudizio definitivo?». «Nelle situazioni concrete, sì. A me compete di dare gli orientamenti generali». La lunga conversazione - conclusa con una dichiarazione all'inviato della Radio Vaticano: «Il mio è un pellegrinaggio di fede. E che cosa vi potete attendere da un Papa se non la fede?» - aveva lasciato Giovanni Paolo II sereno, allegro. Almeno così lo si vide scendere dopo dieci ore di volo senza scalo nell'aeroporto di San Domingo, sotto l'implacabile sole dei Caraibi.
La prima tappa del primo viaggio intercontinentale di Giovanni Paolo II

RODEO DOMINICANO

Disceso dalla scaletta dell'aereo il suo primo gesto fu di genuflettersi in terra e baciare il suolo d'America. Subito dopo una specie di rodeo. L'esuberanza dei dominicani era tale che, spaventato, il servizio di sicurezza arrivò alla brutalità per proteggere il Papa. Sulla piazza dell'Indipendenza più di duecentomila persone, quasi quanto ne conta la capitale dell'isola, lo acclamarono, udendolo dire in spagnolo, con pronuncia assai corretta, che per rendere più giusto il mondo bisognava far si che non vi fossero «bambini senza sufficiente nutrimento», «contadini senza terra per vivere e svilupparsi in modo degno», «lavoratori maltrattati e diminuiti nei loro diritti», «sistemi che permettono lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo o da parte dello Stato», «la corruzione», «chi abbondi di tutto mentre ad altri senza nessuna colpa manca tutto». Un preambolo al tema dei diritti dell'uomo che avrebbe sviluppato nel corso dei sei giorni messicani tra il delirio di un intero popolo, talvolta anche l'isterismo, che di colpo annullò i formalismi studiati dalle autorità pubbliche, le quali, pur essendo lieti della presenza dell'ospite, aveva cercato di salvaguardare l'immagine di un paese ufficialmente anticlericale, quasi ateo.
Papa, cardinali e monsignori del seguito avevano viaggiato senza passaporto. La deroga scaturiva dal fatto che il Messico è retto da una Costituzione che non solo sancisce la completa separazione dello Stato dalla Chiesa, ma la sottopone alla sorveglianza e al controllo del governo e la priva di una formale indipendenza.
Il governo, espressione del partito erede delle lotte rivoluzionarie condotte negli anni Venti anche contro una Chiesa in difesa dei suoi privilegi e ricchezze d'epoca coloniale, al potere da circa mezzo secolo, non poteva accogliere il Papa in quanto capo della Chiesa. Anzi, v'era stato disappunto per la divulgazione da parte del Vaticano del programma di massima del viaggio, che comprendeva l'incontro tra Giovanni Paolo II e il presidente José Lopez Portillo. Intendiamoci, avevano fatto sapere le fonti diplomatiche messicane alla Santa Sede: il presidente era lieto, lietissimo di farsi trovare ai piedi della scaletta dell'aereo, e con lui vi sarebbe stata anche la moglie ma non occorreva darne preventiva notizia pubblica. Il passo avrebbe potuto essere considerato lesivo della solenne affermazione della laicità dello Stato contenuta nella carta costituzionale.
Quelli del Vaticano erano rimasti sorpresi del rilievo: non avevano dimenticato le lotte con la Chiesa e neppure la legislazione in vigore, che disconosce al clero ogni diritto civile, lo priva del possesso dei luoghi di culto e impone al sacerdote nato fuori del paese di chiedere il permesso per la celebrazione della messa. Però proprio da Città del Messico erano state diramate le prime notizie sull'incontro tra il presidente della Repubblica e il Papa, sicché alla diplomazia della Santa Sede non era sembrata una scorrettezza darne conferma pubblicamente. Comunque, a lenire le suscettibilità e, forse, a premiare le buone intenzioni del presidente, aveva provveduto Papa Wojtyla, inserendo nel discorso al corpo diplomatico, ricevuto per gli auguri di Natale dopo i cardinali, l'espressione della sua «gioia per la comprensione e l'atteggiamento di benevolenza delle autorità messicane per quel che concerne il viaggio». Dal canto suo il governo messicano s'era cautelato spiegando che il «senor» Wojtyla sarebbe stato ricevuto come un visitante distinguido. Perció niente colpi di cannone, come a San Domingo, o qualsiasi altra ufficialità per il «distinto visitatore».
Giovanni Paolo II in volo verso Città del Messico con il Segretario di Stato Monsignor Caprio

L'ARRIVO IN MESSICO

All'aprirsi della porta dell'aereo, il Papa apparve con la veste bianca, le braccia aperte con effusione sulla folla plaudente. Il suo primo gesto fu di baciare il suolo messicano. Mentre si genufletteva in terra una folata di vento alzava la sua mantellina coprendogli il capo: sembrò realmente un pellegrino giunto al termine di un viaggio lungamente desiderato. Dopo la stretta di mano del presidente e poche parole di benvenuto fu la volta dei cardinali e dei vescovi, i quali, col pieno consenso del governo, avevano disatteso il divieto di indossare gli abiti ecclesiastici. Intorno urlavano «Mexico», «Mexico» e un gruppo folcloristico cantava «Cielito lindo» (Piccolo cielo bello), mentre fuori dall'aeroporto la folla urlava «vogliamo vedere il Papa». Era cominciata la grande fiesta.
Nei giorni precedenti l'arrivo le autorità governative, temendo una incandescente manifestazione, avevano ripetutamente invitato i quattordici milioni di abitanti di Città del Messico a mostrare fervore con responsabilità, allegria senza eccedere. Però nessuna raccomandazione avrebbe potuto attenuare l'ardore di un popolo che vedeva nella presenza di Giovanni Paolo II sul loro suolo, a seconda delle condizioni sociali, premio allo sforzo di uscire dal novero dei paesi in via di sviluppo, soddisfazione all'orgoglio nazionalistico e più generalmente esaltazione di un misticismo fondato su quella naturale religiosità che consentì al cristianesimo di sovrapporsi ai riti precolombiani.
D'improvviso Giovanni Paolo II si trovò stretto tra decine e decine di persone. Gli ammessi all'aeroporto, tutta gente selezionata da inviti distribuiti con parsimonia, avevano rotto l'esile cordone di polizia. Tra la folla emerse e si staccò un gigantesco messicano con un enorme sombrero in testa, avvolto nella caratteristica coperta, per rendere un particolare omaggio: aprì la coperta ed una cascata di boccioli di rose cadde ai piedi di Wojtyla. Il Papa, sorpreso, lasciò pure che il messicano gli mettesse il sombrero in testa.

«FIESTA» MESSICANA

La vera «fiesta» si ebbe lungo i quindici chilometri di percorso che dividevano l'aeroporto dalla cattedrale: centinaia di migliaia di persone affollavano i due lati delle strade, una massa umana che sventolava bandierine bianche e gialle vaticane, o cartelli con la scritta «bienvenido», che aveva aggirato la proibizione di gridare «viva il Papa» urlando «Juan Pablo».
A San Domingo, Wojtyla ad un gruppo di fedeli che ne ritmava il nome aveva gridato di rimando, mettendo le mani ai lati della bocca: «Non Juan Pablo dovete dire, ma Jesus Christo». A Città del Messico non poteva farlo: dall'alto del minibus scoperto, su cui aveva preso posto insieme con il seguito ed un gruppo di vescovi, si trovava innanzi ad una immensa folla che al suo passaggio esplodeva in un entusiasmo quasi isterico. Dalle case piovevano giù coriandoli e confetti, ad ogni angolo di strade v'erano «mariachis» e porras, orchestrine e cantanti, senza i quali non può esservi autentica «fiesta». Così fino allo Zócalo, la sterminata piazza - una delle più vaste d'America - dove s'erano stipate trecentomila persone.
Lo Zócalo della capitale rappresenta per i messicani ciò che, sotto alcuni aspetti, è piazza San Pietro per i cattolici. Tanto è vero che in ogni città e cittadina messicana esiste uno Zócalo, il quale non può essere tale se da un lato non ha la chiesa e dall'altro il palazzo del governo. Solo che a Città del Messico il palazzo fu costruito da Cortés sulla distrutta reggia dell'imperatore azteco Montezuma e la cattedrale venne eretta sulle rovine del tempio maggiore degli aztechi, di cui, in parte, furono usate le pietre. Se poi a questi dati si aggiunge che ogni 16 settembre il presidente della Repubblica appare al balcone del palazzo nazionale, su cui è posta la campana adoperata dal parroco Hidalgo nel 1810 per chiamare il popolo all'insurrezione contro gli spagnoli e ne celebra l'anniversario suonando la campana e ripetendo il grido della rivolta, appare evidente come lo Zócalo di Mexico City riassuma tutta la storia del paese. Da qui l'importanza di averlo messo a disposizione per la messa celebrata all'interno della cattedrale e diffusa dagli altoparlanti sulla piazza.

ESALTAZIONE COLLETTIVA

Le stesse autorità religiose messicane non credevano, nel programmare il soggiorno papale, che il governo avrebbe permesso l'uso dello Zócalo e avevano pensato, in via subordinata, di usufruire dello stadio dove erano stati disputati i campionati mondiali di calcio. Invece era stato sufficiente esternare il desiderio perché il governo accettasse. Anzi uno dei suoi esponenti s'era affrettato a formulare la giustificazione nel caso in cui i settori anticlericali del paese avessero protestato per aver consentito ad un sacerdote non messicano di celebrare il rito senza aver presentato la domanda prescritta dalle disposizioni in vigore: sarebbe stato detto d'aver considerato Karol Wojtyla quale capo della comunità polacca in Messico. Poco più di trecento persone.
Tuttavia la completa adesione del governo alle richieste della gerarchia ecclesiastica messicana non impedì a Giovanni Paolo II, nel corso dell'omelia pronunciata nella cattedrale, di mettere a nudo il tema dei rapporto con lo Stato, da un lato rinfrancando i cattolici messicani («... vivere nella Chiesa, essere Chiesa è oggi molto esigente. Qualche volta non costa la persecuzione chiara e diretta, peró può costare il disprezzo, l'indifferenza, l'emarginazione»), dall'altra denunciando la situazione della Chiesa in Messico, la sua marginalità sotto il profilo giuridico. Problema del quale discusse nell'incontro privato con il presidente Portillo, una volta riuscito a fendere la calca e risalire sul minibus scoperto, alla cui altezza da terra era stata affidata la sua incolumità. «Non so come sia sopravvissuto», erano state le prime parole con cui lo aveva accolto a sera il presidente.
Nella seconda giornata messicana continuò la collettiva esaltazione. Di solito nei viaggi fuori d'Italia di Paolo VI accadeva che dopo il primo incontro, superata l'emozione, il turbamento, la gioia per l'arrivo dell'ospite eccezionale, l'entusiasmo calava di tono. In Messico avvenne il contrario, non soltanto perché il Papa si recò nel santuario della Vergine di Guadalupe, il simbolo nazionale della fede dei Messicani, per rivolgere un messaggio ai cattolici dell'America Latina. Un santuario celebre in tutto il Sud America che conserva l'immagine della «Morenità»: un dolce volto di india, un poco mesto, con le spalle rotonde come le sculture nate nel periodo classico.

UNA MADONNA INDIGENA E POPOLARE

L'immagine, secondo la leggenda, nacque dal rifiuto del vescovo di accettare quanto, un decennio dopo la conquista spagnola, era andato a raccontargli Juan Diego, un indio appena convertito: la Madonna gli era apparsa sotto le vesti di una donna del popolo e parlandogli nella sua lingua nativa, non in quella dei padroni, lo spagnolo, aveva offerto protezione agli abitanti di quella terra e chiesto le fosse costruita una chiesa per restare vicino al popolo. L'indio non era stato creduto dal vescovo di Città del Messico e allora la Vergine era tornata ad apparire a Juan Diego dandogli ordine di portare al vescovo un cespo di rose da lei immediatamente fatto fiorire sulla pietraia in cui era comparsa. L'uomo obbedì, avvolse le rose nel mantello e si recò a palazzo episcopale. Quando fu in presenza del presule svolse il mantello e apparve sul tessuto il volto del «Morenita», come la chiamano familiarmente i messicani, la figura in cui si concentra la storia e la vita del paese, e nel cui nome furono fatte guerre e rivoluzioni, contro gli spagnoli, gli invasori nordamericani, i francesi. Nella lotta civile tra anticlericali e cattolici da ambedue le parti erano morti invocando il suo nome.
La presenza del Papa nel santuario di Guadalupe che da quattro secoli mobilita, con uno stile d'espressione più simile ai grandi centri d'attrazione religiosa indiani che ai luoghi dei pellegrinaggi cattolici, milioni di persone - per di più un Papa la cui devozione mariana gli ha fatto porre una M nella stemma - doveva necessariamente eccitare gli animi. Per giungere al santuario un complesso di cinque chiese erette sulle pendici di una collina - poco distante dalla villetta della delegazione apostolica in cui aveva trascorso la notte, furono necessarie al Papa due ore. Lo spettacolo aveva indotto Giovanni Paolo II a far fermare il minibus a più riprese per stringere mani, accarezzare bambini, accontentare una moltitudine che gli chiedeva di benedire medaglie, ritratti, croci.
Dal santuario di Guadalupe - una delle cinque chiese, la facciata della vecchia basilica era stata interamente decorata con tappeti di rose riproducenti il volto della «Morenita», quello della Madonna di Czestochowa, lo stemma pontificio - Giovanni Paolo II aveva cominciato a dire i suoi no: ha negato che possa esservi una crisi di identità o una ricerca del significato della propria vita se da parte del clero si ricorre alla preghiera, alla meditazione e all'obbedienza ai vescovi. No ai sacerdoti che ritengono di trarre dal Vangelo «criteri psicologici o sociologici»; no a quanti tra loro dimenticano che la loro missione non è di essere leaders politici. Moniti che in parte anticipavano quello che avrebbe detto il giorno successivo aprendo la conferenza episcopale di Puebla.

PUEBLA «DEGLI ANGELI»

A Puebla de Los Angeles, una città ancora tutta spagnola costruita in una valle circondata dalle più alte cime di tutto il paese o, meglio, nel suo seminario, avevano atteso il Papa 177 vescovi rappresentanti di un continente che parla spagnolo e crede in Gesù Cristo. Per arrivarvi Giovanni Paolo II dovette percorrere una autostrada che alla periferia di Mexico City sfiora un altra città o una sua orrida prolungazione, Nezahualcoyotl, dal nome di un re azteco che fu filosofo e poeta: la più grande bidonville del mondo, con i suoi due milioni di abitanti frutto dell'emigrazione selvaggia delle campagne e della proliferazione umana. Ed anche da questa sterminata agglomerazione semiurbana, dalle sue strade di fango o di polvere, a seconda della stagione, era uscita la gente per vedere il Papa, il quale avrebbe voluto andare da loro se non gli fosse stato negato. Comunque pensava anche a loro, a quelle sordide case, nell'indicare ai vescovi i punti fondamentali del cammino della Chiesa in America Latina: la difesa della dignità umana, la dimensione sociale della proprietà privata, la lotta per la giustizia, la lotta per i diritti umani.
Un discorso accettato sia da presuli conservatori, sia da quelli progressisti perché ciascuno cercó di adattarvisi. Gli uni esaltando la condanna della violenza, gli altri il duro monito per la «crescita talvolta massiccia della violazione dei diritti umani» nel continente. Un tema che sotto l'aspetto della giustizia distributiva e della relatività del diritto di proprietà, Giovanni Paolo II riprese nel trascorrere una intera giornata a Oaxaca con gli indios.

OAXACA: LA SPERANZA

A Oaxaca, nel sud del Messico, avevano preparato archi di trionfo e scritte per ricevere il Papa; e all'aeroporto v'era anche un gruppo di indios in abiti colorati. Ma il raduno dei discendenti degli aztechi era stato stabilito a Cuilapán, in una spianata dinanzi alle rovine di un convento di cappuccini che la grande maggioranza dei centomila indios avevano raggiunto a piedi, talora camminando tutta la notte con il loro passo senza tempo, aspettanto per ore, silenziosi e indifferenti all'implacabile sole - che impose al Papa e prelati di coprirsi il capo con sombreri di paglia - il momento di porgere all'ospite ghirlande di fiori di carta appesi ad alti bastoni. Poi uno di loro, un indio di 40 anni, Estéban, era salito sul palco e aveva letto un discorso. «Hai detto che noi, poveri dell'America Latina, siamo la speranza della tua Chiesa. Guarda come vive questa speranza. Ci hanno relegato nelle zone più impervie della Sierra. Nella terra dei nostri avi, dei nostri padri, ci trattano come estranei. Soffriamo molto, non abbiamo lavoro, non abbiamo da mangiare. Ci hanno cacciato dalle terre buone. Le vacche vivono meglio dell'indio».
Giovanni Paolo II aveva letto le parole dell'indio la notte precedente, nella villetta di Città del Messico dove ogni sera tornava stanco e provato, e dove un doppio cordone di vigilanza gli consentiva qualche ora di sonno. Nella prima notte trascorsa in Messico, infatti lo avevano tenuto desto fino a tarda ora gruppi di cantori che s'erano alternati sotto le sue finestre. Aveva letto le parole dell'indio e quindi mutato il discorso di risposta. Non che ignorasse le condizioni dei rurali del Messico, ma pensò che la replica doveva essere più incisiva: «Il Papa vuole essere la vostra voce...». Il mondo dei campi «ha diritto a ciò che gli spetta, a non essere privato di quello che, per manovre che talvolta equivalgono a vere depredazioni, ha diritto di avere»... «la Chiesa difende il legittimo diritto alla proprietà privata, però insegna che sopra a tutta la proprietà privata pesa sempre una ipoteca sociale».
Proclamare che il mondo rurale non può più attendere il riconoscimento della sua dignità, denunciarne la triste situazione e domandare l'abbattimento delle «barriere dello sfruttamento» significava mettere a nudo uno dei problemi più scottanti del subcontinente americano la cui economia resta ancora legata alla terra. Significava anche sollecitare una urgente riforma delle strutture politiche agrarie, peraltro richiesta vanamente da Paolo VI a Bogotà e dall'assemblea di Medellín nel 1968.
Gli indios ringraziarono e gli fecero festa con il guelaguetza, il ballo della piuma: una preziosità, visto che si tiene una sola volta all'anno. Un ballo, al quale partecipano sette tribù di due gruppi etnici, «zapotechi» e «mistechi», e che non è soltanto una danza. Ciò che due gruppi di indios, acconciati con grandi copricapi di piume, mostrarono al Papa, è un dramma sceneggiato: l'antica vicenda di Montezuma e Cortés, del re azteco e del «conquistador» spagnolo, le lotte dei loro seguaci mimate mediante agili salti che facevano librare in aria i ballerini, conclusa naturalmente dalla vittoria degli Spagnoli, volutamente rappresentati da maschere odiose o grottesche. Una sopraffazione non cristallizzata nel passato, che continua ad opera degli eredi dell'incrocio delle due razze nei confronti dei discendenti di quella più debole con la sottrazione delle terre, lo sfruttamento agricolo, la corruzione, l'aggressione culturale ed ideologica.

PARTENZA TRA I CANTI

Nessuno forse saprà mai se furono le ore trascorse tra gli indios oppure la somma di constatazioni dirette e personali, cui contribuì pure l'incontro con i più miseri tra i messicani, a far si che il Papa penetrasse nella realtà latino americana. Certo negli ultimi due giorni trascorsi in Messico, Papa Wojtyla assunse un tono più vibrante e più risoluto nel denunciare le ingiustizie. Nella città di Guadalajara, dove poté visitare un quartiere povero - relativamente confortevole rispetto a quelli della capitale che l'orgoglio nazionale del governo impediva di pubblicizzare con una visita papale -, Giovanni Paolo II parlò una prima volta agli operai: «Voglio dirvi, con tutta l'anima e con tutte le forze, che mi amareggia la scarsezza di lavoro, mi amareggia profondamente l'ingiustizia, mi amareggiano i conflitti, mi amareggiano le ideologie di odio e di violenza che non sono evangeliche e che tante ferite causano all'umanità contemporanea». L'indomani, la stampa messicana poneva soprattutto in risalto la ripetuta esortazione papale a non seguire l'ideologia dell'odio e della violenza mettendo in sordina, - nei giorni precedenti ad esempio il risalto era stato dato al monito rivolto ai sacerdoti di non trasformarsi in leaders politici -, il monito sull'ingiustizia sociale o dedicando le pagine più superficialmente, alle manifestazioni d'affetto.
La maggioranza del popolo aveva accolto la visita come un atto di grazia, un atto d'amore e aveva ricambiato il Papa con una sorta di abrazo che avrebbe anche esternato concretamente se non l'avessero impedito i 30 mila uomini, in divisa e in borghese, mobilitati dal governo. A mutare poi l'entusiasmo in amore, talora estatico, talora rabbioso, aveva provveduto la schiettezza di Giovanni Paolo II, sempre disponibile a mescolarsi con la folla e persino a cantare.
Una sera, rientrando nella villetta della delegazione, una orchestrina gli aveva suonato la canzone «Amigo» di Roberto Carlos. Il Papa aveva fatto fermare la vettura, letto il testo della canzone e unito la sua voce a quella dei cantanti. E nelle ultime ore trascorse a Città del Messico, dopo aver ricevuto diecimila studenti, mentre si avviava verso l'aeroporto facendo di tanto in tanto fermare il minibus («non posso negare ad un messicano con la mano stesa la mia», aveva spiegato) udendo ripetere una canzone vollero gli spiegassero cosa significava. Lo salutavano cantando las golondrinas, la canzone delle rondini, per augurargli il suo ritorno.
All'aeroporto, poi, la partenza, nonostante l'assenza di onori protocollari, fu simile a quella di un sovrano: il Papa passò lentamente in rassegna le tribune cariche di fedeli, si fermò per qualche attimo a baciare un bambino, benedisse i motociclisti della polizia addetti alla sua scorta genuflessi in terra. Nel momento in cui saliva la scaletta dell'aereo fu liberato un volo di colombe. Due colombe bianche si posarono sull'ala destra dell'aereo e lì restarono fin quando l'apparecchio non cominciò a rullare sulla pista. Il Papa volle che l'aereo compisse un giro sulla città per salutare dall'alto Mexico City. I messicani lo sapevano e s'erano preparati: dal basso risposero con migliaia di specchietti agitati contro il sole.
L'aereo, però, non volò direttamente verso Roma, fece tappa a Monterrey, una città posta tra la Sierra Madre ed il deserto, di forte concentrazione operaia per essere la sede delle principali industrie del paese dalle acciaierie alle vetrerie, alle aziende tessili. Fu a Monterrey, trovandosi dinanzi un milione di persone, che da un ponte alto dodici metri, il Papa tenne un discorso, forse il più risoluto dei tanti pronunciati.

IL DISCORSO DI MONTERREY

In Messico il 3% della popolazione possiede il 52% della ricchezza dell'intero paese. Le percentuali possono subire qualche lievitazione ma pressappoco non si distaccano molto le une dalle altre in quasi tutte le repubbliche sudamericane. Monterrey, in cui un piccolo gruppo di famiglie domina la situazione economica e politica, rappresentava dunque il luogo più opportuno perché il Papa si rivolgesse agli obreros del continente. Un discorso che prese le mosse dal ricordo personale: «Non dimentico gli anni difficili della guerra mondiale, nei quali io stesso ebbi l'esperienza diretta di un lavoro fisico come il vostro, di una fatica giornaliera e della sua dipendenza, pesantezza e monotonia. Ho condiviso le necessità dei lavoratori, le loro giuste esigenze e le loro aspirazioni legittime». Dalla rievocazione Giovanni Paolo II passò all'esortazione di preoccuparsi principalmente di coloro che «non hanno cibo, vestiti, mezzi per vivere e non hanno accesso ai beni di cultura», al tema della disoccupazione e ai diritti dei lavoratori. «Coloro che hanno la fortuna di lavorare desiderano farlo in condizioni più umane e più sicure, per partecipare più giustamente del frutto dello sforzo comune in ciò che si riferisce al salario, alla sicurezza sociale, alle possibilità di sviluppo culturale e spirituale. Vogliono essere trattati come esseri liberi e responsabili, chiamati a partecipare alle decisioni che concernono la propria vita e il proprio futuro. È loro diritto fondamentale creare liberamente organizzazioni per difendere e promuovere i propri interessi e per contribuire responsabilmente al bene comune».
Il discorso, al pari degli altri pronunciati dopo l'apertura della conferenza di Puebla, doveva avere una influenza anche sul lavoro dei vescovi, chiuso a metà febbraio da un lungo documento approvato a Roma dal Papa. Del resto le tormentate conclusioni dei rappresentanti degli episcopati s'erano mantenute entro i punti fermi indicati da Giovanni Paolo II. Puebla non propose un modello politico, sociale o economico, puntò soprattutto su un cambio di mentalità che deve precedere il cambio di strutture definite a gran voce ingiuste ed oppressive. Non aveva detto Papa Wojtyla, aprendo la riunione, che la Chiesa non si identifica con alcuna ideologia? Naturale dunque che i vescovi lo riaffermassero, criticando il capitalismo e rifiutando il marxismo e le sue analisi, respingendo la dottrina della «sicurezza nazionale», quella sorta di giustificazione ideologica alla presa di potere di ristrette oligarchie militari o politiche. Più alto e più acuto fu il grido dei vescovi radunati a Puebla in difesa dei diritti umani.

CASTEL GANDOLFO: IL RIPOSO DEL GUERRIERO

Tornato a Roma Wojtyla preferì rinfrancarsi delle fatiche del viaggio nella quiete di Castel Gandolfo. Fu una novità rispetto a Paolo VI, che riprendeva subito il lavoro interrotto, e una sorpresa per l'ambiente vaticano, che considerava il palazzo e i parchi di Castel Gandolfo residenza esclusivamente estiva. Ma a Giovanni Paolo II i 44 ettari, i cortili, le 40 mila stanze del Vaticano stavano un poco stretti, nel senso che non riusciva ad abituarsi ad un mondo prelatizio da sempre allenato a scrutare il sovrano con la lente di ingrandimento. Erano trascorsi quasi cento giorni dall'inizio del pontificato e nella curia romana nulla era mutato. Tutti erano rimasti al loro posto, persino il Segretario di Stato, il cardinale francese Jean Villot, che aveva condiviso gli ultimi anni montiniani, e a cui Papa Wojtyla aveva mantenuto l'incarico in attesa della nomina di un prelato italiano, preannunciata pubblicamente. L'unica nomina non di routine, compiuta dal Pontefice, era stata la scelta del suo successore a Cracovia: aveva chiamato a sostituirlo nella diocesi un cinquantunenne, Franciszek Macharski, fino ad allora rettore del seminario arcivescovile. Nomina che aveva sorpreso favorevolmente giacché dimostrava che il nuovo Pontefice affidava gli incarichi senza badare ai gradi e alla anzianità, puntando solo sui meriti personali. E ne dette ulteriore prova nominando Marco Cè patriarca di Venezia e Alberto Ballestrero arcivescovo di Torino.
Il silenzio e la tranquillità di Castel Gandolfo erano necessari al nuovo Papa anche per meditare l'esperienza messicana, le esaltanti giornate durante le quali era stato acclamato complessivamente da quasi venti milioni di persone: un bilancio di cui avvertiva il bisogno non tanto per confrontarlo agli echi suscitati presso l'opinione pubblica mondiale quanto, forse, per una riflessione con se stesso. Dai giornali apprendeva che la sua proclamata avversione ad un Cristo guerrigliero, la moderazione nel condannare i regimi dittatoriali sudamericani avevano lasciato interdetti coloro i quali giudicavano che il contesto latino americano, con le sue contraddizioni e le sue violenze istituzionali, avrebbe richiesto una precisa scelta di campo. Quella da lui fatta, l'autosufficienza del messaggio cristiano e il diritto della Chiesa a risolvere i problemi e i drammi dell'uomo contemporaneo, avevano provocato commenti disparati, ora di approvazione, ora colmi di riserve. Conservatore o progressista? Continuavano a chiedersi gli osservatori, ponendo in evidenza l'una o l'altra parte dei discorsi messicani.
La riflessione del Papa non fu un fatto privato. Qualcosa ne trasparì in una udienza generale, nell'accennare alle difficolta definite «gravi prove e duri esami», create dalla colonizzazione spagnola dei popoli precolombiani. «Si ha l'impressione - disse - che questi ultimi non in tutto abbiano accettato ciò che è europeo, che in qualche maniera cercassero di nascondersi nella loro propria tradizione e nella cultura natìa. Ma contemporaneamente si ha l'impressione che abbiano accettato Gesù Cristo, che in quella comunità di fedeli si sia effettuato un incontro del 'vecchio' con il 'nuovo', e ciò si trova alla base non soltanto della vita della Chiesa ma della stessa società messicana». La meditazione sul viaggio con spiegazioni meno emotive proseguì: «Quell'ieri dell'evangelizzazione degli uomini e dei popoli del continente latino americano si è fatto costatamente notare durante la mia visita nel Messico ed ha creato uno specifico di tutto il viaggio». Parole che rivelavano come gli osanna ricevuti da un intero paese andassero subendo un intimo processo di razionalizzazione, rilevato con franchezza anche se difficilmente comprensibile dai fedeli che accorrevano sempre numerosi per vederlo e udirlo.
Il successo messicano, infatti, aveva accresciuto la popolarità del Papa. Già nelle librerie e nelle edicole si vendevano rapidi profili biografici e nastri che riproducevano brani dei suoi discorsi. Le richieste di partecipazione agli incontri settimanali erano così numerose che oltre alla Basilica e all'apposita aula, cui era stato dato il nome di Paolo VI, si dovette aggiungere il cortile di San Damaso in Vaticano. Tre luoghi diversi per concentrare migliaia di persone e dove il Papa, pur ripetendo sostanzialmente il medesimo discorso, faceva precedere o seguire le parole sia dai saluti ai gruppi presenti che da gesti dettati dall'estro del momento o dal tipo di ascoltatori. Nel corso di uno di questi incontri, ad esempio, vide un ragazzo che piangeva. Papa Wojtyla gliene chiese il motivo. «Papà è morto tre giorni fa», spiegò il ragazzo, «ma le suore mi hanno detto che anche tu sei mio padre». «È vero», disse il Papa, «e tu puoi vedermi quando vuoi, puoi chiamarmi al telefono come facevi con tuo padre». E volle ripetere l'impegno preso anche alle suore che guidavano la scolaresca in cui si trovava il ragazzo.

UDIENZE GENERALI IN PIAZZA

Appena cominciarono le belle giornate, i responsabili delle udienze suggerirono al Papa di incontrarsi con la folla in piazza San Pietro. Il progetto era ardito. V'erano migliaia e migliaia di prenotazioni, però nessuno poteva escludere una diminuzione del flusso tanto più che Giovanni Paolo II, volendo essere anche concretamente il vescovo di Roma, aveva dato avvio a visite domenicali alle parrocchie della città. Dover rinunciare in seguito all'uso della piazza per mancanza di pubblico sarebbe stato uno smacco. Ma Giovanni Paolo II non nutriva tali timori, sicuro di cavarsela in ogni situazione; e poi lo stimolava l'idea che oltre ai fedeli muniti dei biglietti richiesti in anticipo, potesse udirlo chiunque lo desiderava.
All'inizio della primavera piazza San Pietro fu suddivisa in nove settori transennati per accogliere i gruppi di pellegrini mentre il restante spazio veniva lasciato a disposizione dei singoli visitatori e fedeli. Il Papa arrivò sulla piazza a bordo di una jeep che costeggiò lentamente parte del colonnato per passare poi in mezzo alla folla prima di giungere al palco allestito ai piedi del sagrato della Basilica. Il successo fu grandioso. Le udienze in piazza divennero un fatto normale, malgrado creassero problemi insormontabili al traffìco dell'intera zona tanto che fu deciso, per ovviarvi almeno in parte, di spostare le udienze al pomeriggio. Il consenso popolare riscosso da Giovanni Paolo II stupiva il medesimo ambiente vaticano, che aveva visto in breve tempo superato persino l'affollarsi di cattolici intorno a Paolo VI in occasione dell'Anno Santo del 1975. E che Papa Wojtyla puntasse ad ottenere innanzi tutto il consenso del mondo, prima di procedere a qualsiasi riforma interna della Chiesa, la curia lo capì in occasione della morte del Segretario di Stato Villot. Giovanni Paolo II sostituì lo scomparso cardinale francese con uno dei più stretti collaboratori di Paolo VI, l'arcivescovo Agostino Casaroli, il quale aveva ricoperto sotto il precedente pontificato un ruolo paragonabile a quello di «ministro degli esteri» della Santa Sede. In quella occasione il Papa mutò anche il «sostituto» della Segreteria di Stato, chiamando ad un incarico di grande prestigio ed importanza uno spagnolo, il presule Martinez Somalo, ma non procedette alle sostituzioni che un nuovo pontificato naturalmente comporta. Segno che il Papa voleva ancora tempo per orientarsi nella complessa struttura degli uffici vaticani che, però, aveva preso a visitare per conoscere personalmente quanti vi lavoravano. Il suo interesse era rivolto all'esterno, a diffondere il programma del pontificato, come dimostrò la pubblicazione della sua prima enciclica, piuttosto anticipata rispetto all'uso.

LA PRIMA ENCICLICA

Normalmente fautori ed avversari sogliono attendere questo primo documento (l'enciclica è una lettera indirizzata a tutta la Comunità cattolica su argomenti riguardanti la dottrina o particolari situazioni religiose e sociali) per misurare programma e capacità del nuovo Pontefice. Suole così crearsi intorno all'emanazione dell'enciclica una aspettativa che cresce col trascorrere del tempo. Non fu questo il caso di Papa Wojtyla, il quale, a differenza di Paolo VI che attese un anno prima di esporre pubblicamente le linee direttive del pontificato, emanò la Redemptoris hominis cinque mesi dopo l'elezione. Lui stesso disse che l'aveva cominciata a scrivere in novembre, nelle settimane successive al conclave per esporre «quei pensieri che allora, all'inizio di questa nuova via, urgevano con particolare forza del mio animo». L'aveva scritta da solo, in polacco, senza il contributo di alcuno, e rilevava compiutamente la sua personalità.
L'enciclica, infatti, dava organicità e respiro ai temi trattati dal Papa a Roma e in Messico, a cominciare dall'invito rivolto il giorno dell'inaugurazione del pontificato: «Non abbiate paura. Aprite, spalancate le porte a Cristo». L'intero discorso poggia sulla assoluta certezza che solo mediante una completa adesione al Cristo l'uomo può trovare non solo la salvezza spirituale ma anche materiale, se non altro liberandosi dalle pesanti minacce che il progresso tecnologico, disgiunto da un uguale sviluppo morale ed etico, fa pesare su di lui.
Un discorso condotto in prima persona singolare, accantonando il tradizionale plurale, con molto pathos e perfino qualche squarcio poetico, da cui discende la legittimità degli interventi della Chiesa in ogni aspetto della vita umana, il compito di «cristianizzare» l'organizzazione sociale e politica, la difesa della libertà religiosa come aspetto preminente della libertà in senso assoluto e dei diritti umani; la netta opposizione all'ateismo strutturato in un sistema politico e il conseguente, accorato appello ai dirigenti dell'organizzazione sociale e pubblica «di rispettare i diritti della religione e dell'attività della chiesa». L'enciclica, generalmente accolta con favore, veniva pubblicata un mese e mezzo prima che Giovanni Paolo II potesse soddisfare l'ardente desiderio di tornare in patria.
L'annunzio del viaggio era stato dato con un comunicato ai primi di marzo, al termine di un lungo, laborioso negoziato con il governo di Varsavia condotto dal Vaticano e dall'episcopato polacco. Papa Wojtyla avrebbe voluto trovarsi a Cracovia per il nono centenario del martirio di San Stanislao, primo vescovo della diocesi, che cade il 13 maggio. «Avevo invitato Papa Luciani a venire, adesso mi sono autoinvitato» disse in una delle telefonate ai suoi collaboratori dopo l'elezione. Ma la presenza del Papa in coincidenza con la festività di un santo martirizzato per la difesa del popolo contro l'oppressione di un sovrano, contrastato prima e infine scomunicato, acuiva le difficoltà di un regime messo in imbarazzo dalla richiesta di un ritorno che già di per se stesso, data l'attesa popolare e la stretta identificazione fra nazionalismo e cattolicesimo, avrebbe rappresentato il trionfo della Chiesa cattolica sullo Stato socialista. Sarebbe stata inevitabile l'analogia dei tempi remoti, quelli di Stanislao e del re Boleslao, con gli attuali. Lo spostamento della data di maggio a giugno ed un programma meticolosamente centellinato, furono le condizioni indispensabili perché Papa Wojtyla ricevesse una lettera ufficiale del cardinale Wyszynski, a nome dell'episcopato, che gli esprimeva la gratitudine dei presuli e del popolo per il desiderio «di visitare la sua patria e la Chiesa della sua patria», nonché la comunicazione del presidente polacco Hanryk Jablonski di «soddisfazione per la prossima visita in Polonia».

VIAGGIO IN POLONIA

Varsavia non accolse Giovanni Paolo II con la clamorosa esultanza da tanti pronosticata, con le manifestazioni di entusiasmo che il ritorno a casa di un polacco divenuto un «grande compatriota», come avevano scritto i giornali del regime, avrebbe giustificato. Nessuno si aspettava l'esplosione di gioia di tipo messicano, se non altro perché in Polonia la religiosità non possiede le componenti irrazionali dell'America del Sud, ma era legittimo supporre che l'identificazione del carattere cattolico con il carattere polacco, l'incidenza storica del fattore religioso nella vita sociale del paese e l'acceso nazionalismo provocassero un caloroso benvenuto.
Al contrario niente grida ed evviva da parte dei varsaviesi e delle centinaia di migliaia di persone giunte da altre regioni, nonché dall'Ungheria, dalla Cecoslovacchia, dalla Germania della est, ordinatamente schierate in doppia, triplice fila ai lati del percorso fra l'aeroporto e la cattedrale. Una immensa folla in paziente attesa da ore, malgrado l'afa di una inaspettata, calda estate, obbediente agli ordini dei millecinquecento preti e frati di Varsavia, i quali, coadiuvati da circa dodicimila volontari - studenti, impiegati, gente di ogni estrazione sociale - avevano assunto la responsabilità dell'ordine pubblico.
Nel mettere a punto gli ultimi particolari della visita era stato stabilito che alle autorità civili spettasse di mantenere l'ordine pubblico mentre quelle ecclesiastiche avrebbero gestito in esclusiva la distribuzione dei biglietti di accesso ai riti sacri presieduti dal Papa. La soluzione era apparsa soddisfacente alle due parti: lo Statosi sarebbe messo al riparo da ogni critica, la Chiesa per la prima volta in un regime comunista, avrebbe avuto la piena disponibilità di terreno pubblico. Tuttavia su chi far ricadere la colpa nel caso in cui, fossero nati incidenti? Le autorità ecclesiastiche di Varsavia s'erano assunte anche il compito di curare l'ordine pubblico, ed avevano mobilitato preti, frati e membri delle comunità parrocchiali.
Del resto quali incidenti potevano verificarsi con un popolo cui era stato sufficiente far sapere dai parroci che il Papa andava ricevuto con compostezza, senza alcuna forma di trionfalismo, per adeguarsi alla richiesta? I parroci avevano persino vietato di lanciare fiori verso Giovanni Paolo II, e gli abitanti di Varsavia avevano obbedito deponendo con delicatezza garofani e gigli in fila continua sull'asfalto, da ambo i lati della strada. Così quando il Papa, lasciato l'aeroporto, dove era stato ricevuto dal presidente Jabloski, salito su un minibus, come in Messico, era passato per i grandi viali controllati dagli ecclesiastici, la folla aveva agitato bandierine vaticane ed applaudito con discrezione. Da qualche parte, più tardi, si sosterrà che l'atteggiamento dei varsaviesi, da loro stessi definito inconsueto, fosse determinato dal clima di tensione, dalla paura. Forse questo timore albergava in alcuni, ma non sembrò poi tanto diffuso: più valida era la testimonianza della forza di persuasione posseduta dalla Chiesa in Polonia.
L'incontro, puramente formale all'aeroporto, di Giovanni Paolo II con il presidente polacco ebbe un seguito e acquistò sostanza nel momento in cui il Papa, dopo il saluto rivolto ai fedeli nella cattedrale - durante il quale additò il cardinale Wyszynski come la «chiave di volta» della chiesa polacca - varcò la soglia del palazzo del Belvedere, chiamato anche «piccola Casa Bianca» per essere costruito nel medesimo stile e per svolgere lo stesso ruolo di quello di Washington nella vita del paese. Ad attendere il Pontefice v'erano le più alte autorità dello Stato, compreso Edward Gierek, il segretario del partito comunista polacco, colui che allora, in pratica, governava il paese. Gierek, al cui realismo politico si doveva il viaggio papale, assente all'aeroporto, si intrattenne in colloquio privato con Giovanni Paolo II. Nessuno seppe, anche in seguito, cosa fu detto nella sala Biedermeier del palazzo. La conversazione, alla quale presero parte anche Jablonski e Wyszynski, restò riservata. Pubblici, invece, lo scambio di discorsi che parvero essere come due parallele destinate a non incontrarsi. Gierek mise in evidenza «l'alleanza di amicizia e di cooperazione con l'Unione Sovietica» e si augurò che il Papa condividesse con lui la gioia per i trentacinque anni di socialismo in Polonia. Giovanni Paolo II evitò di accennare all'anniversario dell'instaurazione del socialismo, si congratulò con il segretario comunista per la completa ricostruzione del Castello reale di Varsavia - «simbolo della sovranità polacca», disse - parlò del diritto di ogni nazione alla autodeterminazione in politica denunciò il «neo colonialismo» sia economico, sia militare.
L'uno s'era limitato ad esaltare la Polonia di oggi e la sua appartenenza al mondo comunista, l'altro s'era riferito soltanto al passato tributario del cattolicesimo che non chiede vantaggi temporali. Il confronto proseguì nel pomeriggio, col discorso della prima messa di Papa Wojtyla in Polonia, del primo Pontefice che avesse oltrepassato la cortina di ferro.
Per celebrare il rito le autorità comuniste avevano concesso piazza della Vittoria, la più vasta di Varsavia, legata a molti ricordi storici, dove è situata la tomba del Milite Ignoto. Non a caso l'altare su cui si ergeva la croce alta sedici metri era stato posto proprio di fronte alla tomba, in modo da unire idealmente, come è sempre stato nella travagliata storia di questo paese, spada e croce. Non a caso Giovanni Paolo II, giunto sulla piazza, si era genuflesso innanzi alla tomba e ne aveva baciato il freddo marmo prima di recarsi sull'altare. Tutto s'era svolto in un profondo silenzio, quasi che nella piazza non vi fossero quattrocentomila persone, quanti erano riusciti a trovarvi posto. Una folla che poi seguì attentamente il rito liturgico, pregando, rispondendo, partecipando intensamente a quanto si svolgeva sull'altare.
Il groviglio d'emozioni che permaneva nei fedeli cominciò a sciogliersi non appena il Papa, nell'omelia, ricordò come già Paolo VI avesse desiderato andare in Polonia: glielo avevano vietato. Un primo applauso sottolineò la stoccata al regime che quella visita aveva impedito. Solo un anticipo di quanto accadde dopo aver udito dire da Giovanni Paolo II: «La Chiesa ha portato alla Polonia Cristo... l'uomo non è capace di comprendere se stesso fino in fondo senza il Cristo... e perciò non si può escludere Cristo dalla storia dell'uomo in qualsiasi parte del globo, sotto qualsiasi longitudine e latitudine. L'esclusione di Cristo dalla storia dell'uomo...». L'applauso spezzò il discorso, divenne scrosciante, ondate dietro ondate si susseguivano facendo trascorrere i minuti, cinque, dieci, quindici. Da un lato della piazza s'era alzato il canto «Noi vogliam Dio». Il Papa aveva smesso di leggere, con il capo chino aspettava senza fare un gesto, dire una parola. Restava assorto in un pensiero che rivelò l'indomani prima di lasciare Varsavia per intraprendere, il pellegrinaggio religioso nei luoghi sacrilegati all'origine della fede e della coscienza nazionale. Lo rivelò alle decine di migliaia di giovani che assistevano ad una messa loro riservata.
«Da ieri sera sto pensando al significato degli applausi che interrompono e concludono le mie parole», disse il Papa ai giovani che avevano accolto con una lunga, lunghissima ovazione l'invito a migliorare l'uomo con la «misura del cuore». «Dapprima mi sono detto che è meglio che cessino altrimenti non si finisce più. Ma stamattina mi è venuta una ispirazione, che mi diceva: tu devi parlare e dialogare con loro, fare la predica con loro. Gli applausi non sono importanti, importante è invece il momento, il punto in cui si fanno. Ieri per quasi quindici minuti la folla ha applaudito quando ho pronunciato le parole Dio, Cristo, uomo. Oggi quando ho pronunciato quelle di Spirito Santo, cuore, uomo. E stato un applauso durato un po' meno di quindici minuti, ma altrettanto insistente e significativo. Che cosa sta succedendo a questa nostra società? Mi sembra che stia diventando una società teologica».
L'ironica conclusione del Papa sottolineata dall'ilarità degli studenti, non toglieva nulla al valore degli applausi e al canto della folla «vogliam Dio», ripetuto pure dai giovani, né al significato politico della domanda religiosa. Era più che altro un abile modo per attenuare l'imbarazzo delle autorità comuniste che non si aspettavano un così vistoso segno di protesta popolare, immediatamente recepito anche fuori dai confini polacchi. Era accaduto, infatti, che governo ed episcopato avessero concordato la diffusione televisiva sul piano nazionale solo dei primi momenti della visita di Giovanni Paolo II, tra i quali appunto la cerimonia religiosa di piazza della Vittoria. Per il prosieguo del viaggio vi sarebbero stati soltanto trasmissioni regionali in ripresa diretta e brevi compendi serali della giornata. La messa sulla piazza aveva quindi raggiunto altri paesi dell'area socialista, provocando la reazione dei responsabili sovietici, i quali corsero immediatamente ai ripari facendo divulgare dalla loro rete televisiva, insieme con un breve filmato dell'arrivo del Papa a Varsavia, il duro commento: «Vi sono ambienti nella Chiesa polacca che tentano di sfruttare la visita per scopi antistatali».
Papa Wojtyla riceve il saluto del Presidente del Consiglio di Stato polacco Henryk Jablonski

GNIEZNO

Il brontolìo moscovita non impedì a Giovanni Paolo II, che aveva raggiunto Gniezno in elicottero da piazza della Vittoria - da cui durante la notte con incredibile, sospetta rapidità, era stata smontata la grande croce e l'altare - di dichiarare uno degli obiettivi del ritorno in patria. Sarebbe stato infatti ingenuo credere che l'esule dalla Polonia per la designazione dei cardinali avesse voluto rivedere i suoi luoghi per nostalgia. La nostalgia c'era, è evidente, e lo provarono le lacrime subito asciugate nella cattedrale di Gniezno. Così come c'era la commozione, talora nascosta da battute allegra: «A Roma fa molto caldo ed io credevo, venendo in Polonia, di trovarvi molto fresco. Non è così. Forse voi che lamentate d'aver freddo anche in luglio ed agosto, vi siete detti: facciamoci un Papa e verrà il caldo». Ma nostalgia e commozione non impedivano a Wojtyla di svolgere il progetto sottinteso all'itinerario nell'est.
La visita a Gniezno, antica città la cui storia si intreccia con quella dello Stato polacco fin dal suo inizio, aveva lo scopo di una preghiera sul sarcofago di Adalberto, il santo che evangelizzò gli slavi e dette inizio alla gerarchia ecclesiastica polacca, ad una Chiesa che svolgendo un ruolo decisivo nella storia del paese mantenne l'unità culturale del popolo malgrado gli smembramenti subiti. Dunque un richiamo al passato del «primo Papa slavo» - come Giovanni Paolo II si definì nella cattedrale di Gniezno - da rimeditare per collegarlo con il presente e proiettarlo nel futuro: significava porsi quale interlocutore privilegiato dei governanti di Varsavia e dell'area socialista dell'est per conto dei cattolici europei latini e slavi. Il Papa «viene per parlare davanti a tutta la Chiesa, l'Europa e il mondo di queste nazioni e di questi popoli sovente dimenticati. Egli viene per indicare le strade che, in diversi modi, conducono al Cenacolo della Pentecoste, alla Croce, alla Resurrezione». Un dialogo anche forte e duro, proseguito durante la sosta a Czestochowa, nel presiedere la conferenza annuale dell'episcopato polacco.
Proprio in quella sede Giovanni Paolo II aveva affrontato dapprima il tema della normalizzazione dei rapporti tra Stato e Chiesa in Polonia, chiedendo il rispetto dei credenti e della Chiesa quale comunità religiosa. «Ci rendiamo conto - disse - che questo dialogo non può essere facile, perché si svolge tra due generi di concezione del mondo diametralmente opposti, ma deve essere possibile ed efficace se lo esige il bene dell'uomo e della nazione». Successivamente, quello dell'Europa, esortata a superare le sue divisioni ideologiche, i disegni economici e politici rifacendosi al cristianesimo.
Man mano che si inoltrava in Polonia l'atteggiamento di Papa Wojtyla mutava. L'incontro con le moltitudini perdeva la patina di forzata compunzione portata da Roma per divenire allegro e affettuoso. I primi segni si erano avuti a Gniezno, con i giovani radunati sotto il balcone del palazzo arcivescovile. Terminato il discorso, il Papa non aveva voluto rientrare, cercando ogni possibile spunto per proseguire l'incontro. Per due ore aveva cantato, incitando i giovani a far coro, scherzato, ascoltato i canti che salivano fino a lui. E nessuno, né il segretario particolare, né il cardinale Wyszynski, di volta in volta avvicinatisi per rammentargli con un sussurro altri impegni, era riuscito a distaccarlo dai microfoni. Anzi il Papa aveva coinvolto nel gioco delle battute scambiate con la folla anche il cardinale. Ore che erano apparse una parentesi, attribuite all'euforia del particolare uditorio che gli ricordava i ragazzi con cui usava compiere le gite sui monti Tatra. «Montanaro, non sei triste allontanandoti dai tuoi posti?», gli avevano cantato i giovani, e lui s'era unito al canto dei montanari di Cracovia, riconoscendosi nell'abitante delle montagne trattenuto a Roma.

CZESTOCHOWA

Ma non si trattava della parentesi di un giorno. Anche a Czestochowa, nel grande monastero di Jasna Gora (la Montagna lucente) che conserva l'icona bizantina, la Madonna Nera, madre di tutti i polacchi come per i messicani quella di Guadalupe, Giovanni Paolo II non aveva esitato a discorrere direttamente con le immense folle richiamate dalla sua presenza. Nel corso della prima, grandiosa messa aveva interrotto la lettura dell'omelia per segnalare la presenza dei presuli stranieri, s'era rivolto ai vescovi polacchi dicendo loro: «Potrei chiamarvi uno ad uno con i vostri nomi di battesimo». Aveva parlato di Wyszynski, invitando la gente ad applaudirlo; aveva presentato il Segretario di Stato Casaroli e altri prelati che lo avevano accompagnato in Polonia, concludendo: «Ho detto cose che non erano scritte, prolungando la cerimonia. Voi direte: cosa ne dobbiamo fare di questo Papa?» E la gente aveva risposto con un tradizionale canto augurale polacco: «Cento anni devi vivere per noi». Inevitabile che Czestochowa divenisse in quei tre giorni di sosta papale la meta di interminabili pellegrinaggi, di grandiose udienze trasformate in feste religiose durante le quali la gente si inginocchiava, cantava, pregava, di un continuo assedio a stento trattenuto dalle alte mura del monastero fortezza. E non s'era giunti alla fine dell'itinerario pontificio, alla tappa più colma di significati rappresentata da Cracovia.

CRACOVIA

Dopo il conclave, il cardinale Wyszynski aveva commentato l'adesione di Wojtyla alla designazione dei cardinali dicendo: «È stato necessario un grande coraggio ed una grande rinuncia per stare lontano dalla amatissima patria, dai pinnacoli del Wawel». Parlava della collina di Cracovia sulla cui cima, contornata da bastioni e torri fortificate, si ergono la cattedrale e il castello reale, un monumentale complesso che sposa il gotico con il barocco; e già da solo, senza le altre decine di cupole intorno o la rinascimentale piazza del mercato, rivela la suggestione dell'antica fede dei sovrani polacchi. Fu naturale quindi che Papa Wojtyla dedicasse la prima visita, arrivato nella sua città, senza percorrere la strada che da Czestochowa porta a Cracovia, chilometri e chilometri inanellati da un nastro di vessilli biancogialli e biancorossi (i colori polacchi) per fargli festa, malgrado si sapesse che gli spostamenti avvenivano in elicottero, ai pinnacoli del Wawel. Però la visita alla cattedrale, la genuflessione e la preghiera dinanzi al sarcofago d'argento che conserva i resti di San Stanislao, non furono determinati soltanto dall'acuto desiderio di ritrovarsi tra le mura che lo avevano visto seminarista, vescovo, cardinale. L'altare principale della cattedrale è chiamato «l'altare della patria» per essere circondato dai ricordi più illustri e più sacri della storia polacca. Ancora una volta il Papa polacco si richiamava al passato nella speranza di persuadere a mutare il presente dei suoi connazionali.
Per la verità fino a quel momento la speranza che i rapporti tra Stato e Chiesa migliorassero non aveva ricevuto alcun incoraggiamento. Anzi i segnali giunti dall'altra parte indicavano che l'irritazione andava aumentando. Da una settimana l'intera Polonia non parlava e non pensava altro che al Papa. Nel fuoco dell'entusiasmo per il ritorno dell'uomo che riassumeva la profonda fede e il nazionalismo dei polacchi, tutto, regime e guai, sembrava annullato. Dal canto loro le autorità governative avevano seguito il peregrinare di Papa Wojtyla chiudendosi nel più assoluto riserbo, testimoniato dalle asettiche cronache dei giornali. Infine era giunta l'avvertenza. Al termine di una cronaca della visita papale, il settimanale ideologico del partito comunista Politjca aveva scritto: «I discorsi del Papa sono letti ed analizzati non solo dai credenti e non solo nel nostro paese». Poche, secche parole che, come minimo, ipotecavano il successo politico del viaggio sottinteso a quello religioso.
La pubblicazione avvenne alla vigilia di una giornata di forti contrasti per il Papa, la visita al paese natale, Wadowice, e il pomeriggio, all'infame luogo di morte voluto dai nazisti, Auschwitz. Nel primo l'accoglienza festosa dei concittadini, al suono degli ottoni della banda municipale, con il suo vecchio parroco, Edoardo Zacher, che accoglie il Papa all'ingresso della chiesa, e gli ex compagni di scuola. Nel secondo i fili spinati intorno alle costruzioni della vecchia fabbrica di tabacchi scelta da Himmler come uno dei centri per il genocidio, la cosiddetta «soluzione finale» del problema ebraico. Non era la prima volta che Wojtyla vi entrava. Da arcivescovo di Cracovia più volte aveva superato il cancello su cui si legge la frase scritta in ferro battuto Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi, il motto della fabbrica divenuto sardonico per la particolare utilizzazione del luogo da parte dei nazisti: Auschwitz, infatti, non è altro che la traduzione in tedesco di Oswiecim, il grosso paesotto a pochi chilometri da Cracovia. Il Papa vi si era recato in occasione della santificazione di Maximial Kolbe, il francescano che aveva preso il posto nella cella della morte di un padre di tre figli. E l'uomo per cui Kolbe aveva dato la vita era lì ad aspettare il Papa che aveva sostato nella cella della morte del francescano per deporvi un mazzo di garofani bianchi e rossi, inginocchiarsi, baciare il suolo.
Uscito dalla cella, in uno dei blocchi rimasti così come li lasciarono i nazisti in fuga (altri sono divenuti musei che custodiscono sconvolgenti documenti dello sterminio, tra cui gli oggetti personali dei prigionieri, i cappelli, le fotografie) Giovanni Paolo II aveva voluto percorrere la stradina che dall'ingresso del campo giunge al «muro della morte»: un alto muro di cemento dove venivano fucilati coloro i quali non venivano condotti nei crematori. Poi aveva preso l'elicottero per superare i pochi chilometri che separano Auschwitz da Birkenau, l'altro immenso lager sorto successivamente al fine di accelerare l'annientamento degli «elementi nocivi» con il gas, generalmente destinato alle donne. Erano occorsi molti altri forni crematori, in maggioranza fatti saltare prima della fuga, per far scomparire quattro-milioni di persone di 28 nazionalità.
A Birkenau, l'altare era stato eretto al centro del campo - una area di 170 ettari e di 5 chilometri di circonferenza - dinanzi al lungo binario su cui si fermavano i vagoni piombati. Sull'altare una grande croce incoronata di filo spinato. Intorno decine e decine di migliaia di persone che dalle prime ore del mattino avevano cominciato a riempire i settori. Il sole e il verde dei prati portavano a dimenticare l'aspetto lugubre, la geometria inquietante del filo spinato, le garitte, il lungo binario proiettato verso il nulla. Ma bastava posare gli occhi sui più vicini all'altare, su coloro, sacerdoti e laici, che avevano rimesso gli sdrucidi vestiti a strisce bianche e blu dei prigionieri, quei vestiti con cui erano usciti dai campi all'arrivo delle truppe sovietiche, per soffocare la voglia di dimenticare. Al momento della recita del Mea Culpa, la folla ripetè le parole pronunciate dal Papa: «Mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa...», con un suono cupo di dolore.
«Con quale spirito visiterà Auschwitz - aveva chiesto al Pontefice un giornalista sull'aereo che lo portava a Varsavia - per giustizia o misericordia?». «Sempre con misericordia», aveva risposto. Ma la misericordia non significa dimenticare «questo Golgota del mondo contemporaneo», come dirà Giovanni Paolo II nell'omelia, pronunciata a voce bassa, accorata, durante la quale, dopo aver ricordato in particolare il sacrificio degli ebrei («Questo popolo che ha ricevuto da Dio il comandamento 'non uccidere' e provato su se stesso in misura particolare cosa significa uccidere») e quello del popolo polacco («Ancora un alto grido per il diritto della Polonia ad un suo posto sulla carta dell'Europa. Ancora un doloroso conto per la coscienza dell'umanità»), disse: «Ancora davanti ad un'altra lapide scelgo di soffermarmi: quella in lingua russa. Non aggiungo alcun commento. Sappiamo di quale nazione si parla. Conosciamo la parte avuta da questa nazione nell'ultima terribile guerra per la libertà dei popoli. Davanti a questa lapide non si può passare indifferenti».
Il brano relativo ai russi non figurava nel discorso preparato in anticipo. Era una aggiunta dell'ultimo momento che incontrava la piena soddisfazione dei dirigenti politici polacchi e che attenuò o, addirittura, cancellò il loro malumore. L'indomani il quotidiano del partito comunista Trybuna Ludu, riportava una ampia cronaca della cerimonia e il discorso integrale del Pontefice. Nei giorni precedenti invece l'organo comunista aveva avaramente misurato lo spazio dedicato al «viaggio-pellegrinaggio» citando con scrupolo le città visitate e scrivendo che il «figlio della nazione polacca» era stato accolto «cordialmente sia dalle autorità sia dal popolo». Il mutamento d'atmosfera lo si sentì concretamente nelle ultime ore trascorse dal Papa in Polonia, tra i montanari del Trata, gli studenti, gli amici delle riviste cattoliche di Cracovia, il mare di folla - più di un milione di persone - presenti alla messa prima della partenza. Manifestazioni accettate senza più irritazione per un consenso popolare che partito e governo non avevano mai goduto nella forma espressa al Pontefice, senza ufficiose accuse di integralismo ai discorsi papali, senza timori dovuti all'eco presso gli altri regimi comunisti di un travolgente entusiasmo.
L'ultima notte la folla s'era radunata intorno all'arcivescovado, cantando «Stolat, stolat», l'augurio di campare cent'anni. Il coro aveva raggiunto il Papa che dormiva nella sua vecchia stanza, lo aveva svegliato, costretto ad apparire al balcone. «Volete veramente che campi cent'anni?», domandò il Pontefice una volta calmatisi gli applausi. «Sì», gli rispose un boato di voci. «Volete veramente che mi mantenga in buona salute?», domandò ancora il Papa. «Sì», tuonò la folla. «E allora andate a casa e lasciatemi dormire».
La valutazione positiva del discorso di Auschwitz, da parte delle autorità governative, che infine trovavano una pagina di storia su cui concordare regime e Chiesa, si riflesse sul commiato di Giovanni Paolo II da Cracovia e dalla Polonia, meno formale, più caloroso dell'arrivo. A rendergli il saluto militare all'aeroporto distaccarono una compagnia di alpini, significativo omaggio al «montanaro» che lasciava i suoi monti. E fu udito questo dialogo del presidente Jablonski con il Papa. «È stata una grande fatica?», domandò il capo dello Stato polacco. «Sì - disse il Papa - ma ne valeva la pena». «Ho saputo che è un poco raffreddato». «Ho parlato tanto». «Ha visto come è verde la nostra terra?». «Proprio a questo pensavo venendo qui, guardavo il panorama, guardavo i fiori. E proprio bella la nostra Polonia».
Papa Wojtyla a Jasna Gòra

CREAZIONE DEI NUOVI CARDINALI E ANNUNCIO DEL VIAGGIO IRLANDA-STATI UNITI

«I cardinali sono un ghiribizzo del Papa, li fa quando e come vuole lui», sogliono dire in Vaticano per spiegare come la creazione dei porporati sia un fatto esclusivo del Pontefice. L'espressione è vera fino ad un certo punto giacché anche i papi non possono dimenticare situazioni ed esigenze, ignorare le attese e, talvolta, persino le tradizioni. Una di queste vuole che il Papa appena eletto, nel mettersi lo zucchetto bianco, doni quello rosso al prelato che ha svolto le funzioni di segretario del conclave, anticipandogli la designazione a cardinale quale premio per il lavoro compiuto. Giovanni XXIII compì il gesto con tale rapidità che lo zucchetto finì sugli occhi del segretario del conclave, monsignor Alberto di Jorio, rimasto immobile, quasi fulminato dalla gioia. Paolo VI, invece, si infilò lesto lo zucchetto in tasca. Anche Giovanni Paolo II aveva evitato di attenersi all'antico gioco, forse per l'emozione del momento, forse perché gli era stato suggerito di meditare su ogni passo. Ma nel creare i cardinali il 30 giugno, egli rinnovò la tradizione: nella lista dei nuovi quindici cardinali figurava anche il nome di monsignor Antonio Civardi, segretario del conclave da cui era uscito eletto.
La nomina dei nuovi cardinali, in particolare modo la prima di un pontificato, è una decisione che gli studiosi del mondo ecclesiastico e la curia romana soppesano attentamente per trarne indicazioni e orientamenti sulle scelte del nuovo Papa. In questo caso appariva evidente che Giovanni Paolo II aveva proceduto secondo un abile dosaggio tra gli impegni presi chiamando a Segretario di Stato un non cardinale, coprendo le sedi cardinalizie vacanti di Torino, Venezia e Cracovia, ampliando l'internazionalità del collegio cardinalizio; infine c'era il rispetto della tradizione. Infatti sei dei quindici cardinali erano italiani, tutti con incarichi sempre connessi con la porpora, dal Segretario di Stato Casaroli agli arcivescovi di Torino e Venezia, Ballestrero e Cé, al nunzio apostolico a Parigi, Lambertini Righi, all'ex «sostituto» della Segreteria di Stato, Caprio; due rappresentavano la componente asiatica, un giapponese e un vietnamita, nell'assemblea cardinalizia; uno, l'arcivescovo Corripio di Città del Messico, significava il ringraziamento papale al paese che lo aveva accolto con tanto entusiasmo, mentre la Polonia veniva ricordata dando il cappello cardinalizio non solo al successore di Papa Wojtyla a Cracovia, che era scontato, ma anche ad un presule polacco da anni a Roma, Rubin.
Solo uno dei quindici cardinali rimase ignoto, perché in pectore, formula adoperata quando la persona scelta opera in una situazione che non consente di rivelarne l'identità. Si disse che era un lituano, ne circolò anche il nome, però la conferma si avrà solo quando il Papa riterrà opportuno sciogliere la riserva. Anche Paolo VI si riservò in pectore due cardinali: il nome di uno fu in seguito rivelato, l'attuale arcivescovo di Praga, Tomasek; l'altro, per la morte di Montini, non fu mai noto.
Per creare i suoi quindici cardinali Giovanni Paolo II aveva superato il numero massimo stabilito da Paolo VI, fissato a centoventi membri al di sotto degli ottanta anni, con diritto cioè a partecipare al conclave. Per gli ultraottantenni non esiste limite. Ma l'aver portato il numero degli inferiori agli ottanta anni, da 120 a , non destò alcuna emozione. Con un Papa ancora al di sotto della sessantina ed un pontificato prevedibilmente lungo, assai lungo, il collegio cardinalizio sarebbe stato rinnovato più volte. E poi quella distinzione fatta da Papa Montini tra cardinali cosiddetti vecchi e giovani per aver compiuto o no gli ottanta anni, non aveva mai incontrato la soddisfazione degli ambienti ecclesiastici. Anzi molti speravano che Giovanni Paolo Il abolisse la distinzione, tornasse «ai buoni tempi antichi». Il Papa non lo fece: tuttavia, nell'allocuzione pronunciata per la creazione cardinalizia sottolineò il ruolo dei porporati, più esattamente del loro organismo, chiamato con l'espressione caduta in disuso di Senato della Chiesa. I critici interpretarono la definizione come un dissenso nei confronti della linea seguita da Paolo VI, il quale aveva pensato, parlandone pubblicamente, di mutare le prerogative del collegio dei cardinali, attribuendo anche a una rappresentanza dei vescovi l'elezione del Pontefice. Era un giudizio affrettato, tanto più che nella medesima allocuzione Giovanni Paolo II aveva ricordato di aver scelto la fine del mese di giugno per la creazione cardinalizia perché in quella data avveniva l'usuale incontro di metà anno del suo predecessore con i porporati. E lui aveva voluto seguire l'esempio dell'uomo, «al quale ci legano moltissimi altri vincoli», anche facendo un rapporto, come era costume di Paolo Vi, di quanto era accaduto nella Chiesa nei primi sei mesi dell'anno. Ma cosa era accaduto salvo i suoi viaggi in Messico e in Polonia?
Il rapporto ai cardinali sui viaggi fu piuttosto sommario, in special modo quello relativo alla Polonia, le cui autorità furono nuovamente ringraziate per avere consentito al Papa di rivedere la patria, «manifesta la rilevanza che internazionalmente spettando ad una visita pontificia». Giovanni Paolo II non poteva aggiungere altro, i commenti e le interpretazioni erano apparsi sui giornali. «A Roma leggerò attentamente quanto scrivete», aveva detto a Cracovia ricevendo i circa settecento giornalisti, compresi quelli sovietici, che ne avevano seguito i passi. E di quella lettura doveva essere restato soddisfatto perché tutti gli osservatori avevano rilevato la sensazione che durante le giornate polacche una pagina era stata voltata, che lo scontro ideologico verificatosi durante il suo peregrinare aveva senza dubbi visto prevalere la Chiesa e non compromesso l'evoluzione positiva dei rapporti con lo Stato.
Il soggiorno del Papa aveva avuto soprattutto un effetto psicologico che impegnava il regime comunista a modificare la situazione per giungere ad una normalizzazione con la Chiesa, peraltro ancora vista dalle due parti in modo difforme. La Polonia in sostanza non sarebbe stata più come prima.
I cardinali avevano piena consapevolezza di quanto era accaduto, dell'accelerazione che Giovanni Paolo II aveva impresso alla vita internazionale della Chiesa. Né si stupirono della quasi giustificazione addotta dal Papa per i suoi viaggi: il richiamo a Paolo VI, al quale andava attribuito il merito di avere introdotto nell'ufficio pontificale il contatto con i fedeli recandosi presso di loro. L'accenno confermava le indiscrezioni sul prossimo volo fuori d'Italia di Giovanni Paolo II, l'avanzata fase di preparazione di un nuovo itinerario religioso-politico: sette giorni da trascorrere in Irlanda e negli Stati Uniti.
L'annunzio ufficiale fu dato un mese e mezzo più tardi con un comunicato de «L'Osservatore Romano» che però non specificava quali zone dell'Irlanda il Papa avrebbe visitato, se per Irlanda si intendeva solo quella parte che da mezzo secolo era divenuta repubblica dell'Eire oppure anche il nord, il martoriato Ulster, tuttora regione inglese. La genericità dell'indicazione era determinata dall'incertezza della presenza papale nelle province insanguinate dalla guerriglia tra cattolici e protestanti, dallo stillicidio di attentati terroristici che regolarmente coinvolgevano l'esercito inglese. Il Papa desiderava recarsi anche nell'Ulster, e probabilmente avrebbe superato tutte le obbiezioni che si muovevano al progetto se lunedì 27 agosto, il «lunedì nero», non si fosse verificato l'assassinio dell'ex viceré dell'India, Lord Mountabatten, e di diciotto militari inglesi ad opera degli oltranzisti cattolici irlandesi del nord. Quel giorno il Papa era appena rientrato dalle montagne del Bellunese, dove aveva trascorso l'anniversario dell'elezione di Luciani visitandone il paese natale, Canale d'Agordo, e Belluno, spingendosi sulla vetta della Marmolada per benedire la statua in bronzo della Madonna «Regina delle Dolomiti» e recitare l'«Angelus» a più di tremila metri. Una sosta svoltasi sotto una bufera di neve, che non era dispiaciuta all'uomo abituato a sciare nelle vallate dei monti Tatra. Una vera avventura per i prelati del seguito, intirizziti dal freddo, mentre il Papa - cui avevano fatto indossare una giacca a vento bianca - si muoveva completamente a suo agio tra villeggianti e guide alpine che gli avevano donato un paio di sci. «Mi piacerebbe molto usarli aveva commentato il Pontefice - ma prego ogni giorno Dio di non essere indotto nella tentazione di tornare a sciare. Dio benedica gli sciatori e... le loro gambe».
Il nuovo vescovo di Cracovia Monsignor Francesco Macharski

UNA SITUAZIONE DELICATA

Avuta la notizia dell'attentato Giovanni Paolo II aveva inviato un personale messaggio di condoglianze alla regina Elisabetta, parente dell'assassinato Lord Mountbatten, per «un atto di violenza che è un insulto alla dignità umana». «Io lo condanno fermamente - vera scritto nel messaggio - insieme con tutti gli altri atti di violenza che hanno ieri provocato lutto e profonda sofferenza di numerose famiglie». A tutti appariva ora evidente che il riacutizzarsi della vertenza irlandese avrebbe fatto correre pericoli al Pontefice. Ma Papa Wojtyla non voleva desistere dal progetto, sembrandogli ancor più necessario superare il confine. A dissuaderlo fu l'arcivescovo di Armagh, Tommaso Ò Flaich, uno dei cardinali creati in giugno.
Ò Flaich si trovava a Roma appunto per definire l'itinerario del viaggio in Irlanda. Parlò a lungo con Giovanni Paolo II. Disse che il clero nord irlandese sarebbe rimasto molto deluso di non ospitare il Pontefice, lui stesso ne era profondamente addolorato, ma vivendo in una diocesi attraversata dal confine valutava esattamente il rischio che il Papa avrebbe corso attuando il proposito di recarsi nel «cuore caldo» del paese, dove più sanguinosi e violenti si accendevano i conflitti. Certo - proseguì il cardinale - gli Irlandesi rispettano il coraggio, e il superamento del confine da parte del Pontefice per una sosta di poche ore ad Armagh e magari in un borgo a pochi chilometri di distanza, Crossmaglen (nel quale le truppe inglesi possono entrare solo con i carri armati) sarebbe stato atto di coraggio, ma cosa poteva egli offrire come garanzia del rispetto degli Irlandesi, oltre alla sua personale testimonianza? Troppo poco, quando la posta del gioco era rappresentata dalla vita stessa del Papa.
L'appassionato intervento del cardinale, il quale in un primo tempo aveva insistito a nome di gruppi di cattolici e protestanti perché l'Ulster non fosse scartato dal programma, convinse Giovanni Paolo II.
Nel lasciare Roma il cardinale irlandese consegnò ai giornalisti una dichiarazione scritta: «Abbiamo avuto una udienza di due giorni con il Santo Padre a Castel Gandolfo. Abbiamo anche avuto degli incontri con il cardinale Casaroli e i funzionari della Segreteria di Stato. I terribili fatti di quest'ultimi giorni in Irlanda hanno portato un'ombra pesante su tutti i nostri incontri e discussioni». Egli attribuiva così la rinuncia alla progettata visita papale ad Armagh alla virulenta ripresa del terrorismo in Irlanda.
Più facile, al contrario, si presentava l'organizzazione del viaggio negli Stati Uniti, anche se non mancavano gli ostacoli da superare. Il Papa aveva ricevuto un triplice invito, da parte di Kurt Waldheim, segretario generale dell'ONU; dall'episcopato nordamericano e dal presidente Jimmy Carter. L'internazionalità dell'ONU avrebbe dovuto avere la precedenza nel programma, come era accaduto con Paolo VI quando nel 1965 s'era recato al Palazzo di vetro. Però fu obiettato che il precedente non era valido: Montini s'era trattenuto una sola giornata sul suolo americano e aveva quale scopo principale di parlare ai rappresentanti dei governi. Il viaggio di più giorni di Giovanni Paolo Il consentiva la messa a punto di un altro itinerario che privilegiasse l'episcopato. Il dibattito fu placato da un compromesso: il Papa sarebbe sceso a Boston per raggiungere subito dopo l'ONU, nella cui sede si sarebbe trattenuto anche oltre il discorso all'assemblea, visitando poi sei città, compresa Washington, ultima tappa destinata all'incontro con Carter nella Casa Bianca. Sei città in sette giorni, un percorso complessivo, tra Irlanda e Stati Uniti, di oltre 17 mila chilometri.
Giovanni Paolo II in preghiera davanti alla Madonna di Loreto

NELL'ISOLA DEI SANTI

«Santo Padre e distinti visitatori, ora potete fumare se lo desiderate»: l'avvertenza diffusa mediante i microfoni all'interno dell'aereo che il mattino del 29 settembre 1979 portava il Papa a Dublino, accolta con ilarità dai passeggeri, anticipò in un certo senso l'atmosfera di semplicità e di cordialità in cui si trovò avvolto il Papa durante i tre giorni trascorsi nell'«isola dei Santi». A chiamare così l'Irlanda era stato Giovanni Paolo II nell'accomiatarsi dalle autorità civili ed ecclesiastiche che assistevano alla partenza. Una definizione più che giustificata per un popolo dalle caratteristiche cattoliche non molto dissimili da quelle messicane o polacche, cioè ancorato alla pratica religiosa quotidiana, e con un passato di lotte sostenute per difendere la fede.
Era logico, quindi, che l'attesa per il Papa fosse vivissima, che ai tre milioni di abitanti della repubblica d'Irlanda se ne aggiungessero migliaia e migliaia provenienti dal nord soggetto all'Inghilterra; che le strade di Dublino fossero invase da ritratti del Pontefice, striscioni, manifesti murali, bandiere bianco-gialle. Ma non si verificarono scene di fanatismo religioso o di devozione portata al parossismo. Qualcuno in seguito dirà che ciò fu dovuto all'apprensione che trapelava dietro la gioia, al timore che le organizzazioni paramilitari degli oltranzisti protestanti del nord - i quali avevano giurato di vendicare la strage del «lunedì nero» - compissero qualche gesto di rivalsa nei confronti di Giovanni Paolo II. Non era da escludere.
L'aeroporto e Dublino erano stati posti quasi in stato d'assedio: vietato il sorvolo della città, proibito il traffico automobilistico per chilometri e chilometri, strettissimo controllo sulle persone. Nessuno che avesse un pacco o una valigetta poté accostarsi al Papa durante il tempo che rimase all'aeroporto per rispondere al benvenuto del presidente Patrick Hillary, il quale, salutandolo, aveva detto: «Finché l'Irlanda esisterà, questa visita sarà ricordata». Persino le macchine da scrivere dei giornalisti vennero «saggiate», battendone i tasti al fine di accertare che non nascondessero ordigni pericolosi. Tuttavia è difficile credere che il comportamento di un popolo possa venire tanto immediatamente condizionato da timori peraltro nutriti a ben altro livello. Più semplice e più giusto credere che nella reazione dei fedeli irlandesi ebbe un ruolo preponderante la partecipazione emotiva. Almeno questo è ciò che maggiormente emerse fin dal primo incontro della massa con il Papa a Phoenix Park.

PHOENIX PARK E DROGHEDA

Almeno un milione di persone s'era radunato nell'immensa area verde, in cui i boschi di querce e di pini si alternano a vaste radure erbose, per assistere alla messa concelebrata dal Papa con cento vescovi e cento preti sotto una gigantesca croce di ferro. Un atto liturgico che valeva quale premio per una cattolicità che da secoli guarda a Roma con fedeltà e dedizione al punto di aver corrisposto senza tentennamenti o dubbi alla richiesta dei vescovi di tassarsi per far fronte alle eccezionali spese necessarie per accogliere il Pontefice. Un rito seguito con assorta attenzione che, al termine, mentre Giovanni Paolo II percorreva i viali in una automobile scoperta, si è stemperata in migliaia di episodi colmi di calore umano. C'è stata gente che piangeva di commozione per aver visto il Papa da vicino, altri che lo accoglievano cantando l'inno della gioia. Un ragazzo, riuscito a superare gli stretti cordoni di vigilanza che accompagnavano il lento procedere dell'auto, ha offerto a Giovanni Paolo II una rosa. Il Papa ha sussurrato commosso: «Che pensiero toccante», ed ha tenuto il fiore nelle mani per diversi minuti.
Però, sebbene spettacolare, non fu la cerimonia di Phoenix Park il momento culminante della giornata. L'attenzione degli Irlandesi, e non solo la loro, doveva restare più attratta dal raduno di Drogheda, la città dove nel 600 sbarcò Cromwell per sconfiggere gli Inglesi, distante cinquanta chilometri dal confine con l'altra Irlanda, quella del nord, in cui il Papa non aveva potuto mettere piede. A Drogheda, infatti, attorno ad una collina su cui avevano eretto l'altare, Giovanni Paolo II precisò il messaggio che era venuto a portare in Irlanda.
Intorno a lui v'erano trecentomila persone, quasi tutte giunte a piedi se non altro perché le strade erano vietate al transito per un raggio di parecchi chilometri. Molti erano arrivati nel corso della notte con i materassini di gomma e le provviste, sistemandosi entro l'enorme perimetro circondato di filo spinato e sorvegliato da militari armati distanti l'uno dall'altro dieci metri.
Una sorta di campo di concentramento che documentava visivamente la situazione in cui vivono gli Irlandesi del nord e l'urgenza del messaggio evangelico di pace riproposto dal Papa. «Fin tanto che esistono ingiustizie in qualsivoglia dei settori che toccano la dignità della persona umana disse Giovanni Paolo II - sia nel campo politico, sociale, economico, sia nella sfera culturale e religiosa non esisterà vera pace». Premessa indispensabile per chi, come il Pontefice, intendeva smentire che il conflitto irlandese sia di natura religiosa e invitare tutti a far cessare la violenza: gli uomini politici che debbono affrontare le loro responsabilità e decidersi ad agire «per un giusto cambiamento»; «coloro che sono scoraggiati dopo i molti anni di violenze e di alienazioni perché tentino ciò che sembra impossibile»; «i giovani che rischiano di rimanere irretiti dalle organizzazioni terroristiche»; «gli uomini e le donne impegnate nella violenza». L'appello a costoro fu il momento più appassionato del discorso di Drogheda: «Faccio appello a voi, nel linguaggio di una perorazione appassionata. In ginocchio vi imploro di allontanarvi dai sentieri della violenza e di tornare alle vie della pace. Voi potreste reclamare di essere in cerca di giustizia. Ma anch'io credo nella giustizia e cerco giustizia. La violenza dilaziona soltanto il giorno della giustizia e ne distrugge l'opera».

L'INCONTRO CON I VESCOVI

I temi del discorso di Drogheda furono in parte approfonditi l'indomani nel piccolo porto di Galway durante la messa celebrata per i giovani, e ancora a Dublino, nell'incontro con i presuli. Anzi fu proprio con i vescovi che la requisitoria papale contro il terrorismo, coniugata insieme con l'esortazione alla riconciliazione, ebbe un ulteriore sviluppo nel senso che l'episcopato fu duramente richiamato ad uscire dalla passività, a dare più incisività all'azione pastorale. «Durante gli ultimi due secoli ricordò il Papa ai vescovi - la Chiesa in Polonia ha affondato in modo specialissimo le sue radici entro l'anima della nazione. In parte la ragione di ciò va ricercata nel fatto che i suoi pastori, vescovi e preti, non hanno esitato a condividere drammi e sofferenze dei loro concittadini». Più oltre: «I pastori, e specialmente i vescovi devono riflettere con lungimiranza sul come prevenire le stragi, gli odi e il terrore, sul come lavorare per la pace e preservare il popolo da quelle terribili sofferenze». Ad aumentare il richiamo si aggiunse la rivelazione che anche da parte di membri della gerarchia ecclesiastica irlandese era stato sconsigliato il viaggio e che l'invito dei quattro arcivescovi cattolici era stato seguito dai capi di Chiese non cattoliche, particolarmente dagli anglicani, «segno di speranza molto promettente».

PARTENZA DALL'IRLANDA

Il week-end irlandese di Papa Wojtyla, da sabato a lunedì, colmo di appuntamenti con le componenti della Chiesa, e con la visita al santuario mariano di Knock, terminò a mezzogiorno inoltrato, quando le campane di tutta Dublino suonarono a stormo e gruppi di ragazzi ballarono e cantarono «alleluja» a ritmo di spiritual intorno all'ospite sul piede della partenza. Quanti in Vaticano, alla vigilia, s'erano chiesti con perplessità se fosse stata opportuna la sosta in Irlanda per il prestigio del Pontefice potevano già concludere positivamente: almeno uno su tre irlandesi aveva visto Giovanni Paolo II da vicino, partecipato a celebrazioni che erano state al tempo stesso grandi feste popolari, ascoltato parole che sarebbero rimaste impresse nei loro cuori. Il Papa s'era mosso con indubbio equilibrio tra le esacerbate avversioni e l'appello agli eserciti clandestini avrebbe avuto, forse, con il tempo qualche effetto sugli animi, malgrado fosse stato discusso e respinto dai loro leaders. Del resto Giovanni Paolo II lo aveva previsto, dicendo a Drogheda: «E anche se la mia voce non fosse ascoltata, testimoni la storia che in un momento difficile nell'esperienza del popolo d'Irlanda il Papa ha posto piede sulla vostra terra, ed è stato con voi, ha pregato con voi per la pace e la riconciliazione».
Papa Giovanni Paolo II con il Cardinale Ò Fiaich

L'ARRIVO NEGLI STATI UNITI

«Vengo a te, America, con sentimenti di amicizia, reverenza, stima. Vengo come uno che già ti conosce e ti ama, come uno che desidera che tu possa compiere il tuo destino di servizio al mondo». Il saluto di Giovanni Paolo II nell'aeroporto di Boston, diffuso dai giornali, trasmesso dalle reti televisive e radiofoniche non poteva non elettrizzare un paese che, nelle preannunciate soste, s'era preparato da tempo ad accogliere grandiosamente il visitatore. Lo si vide subito, fin da Boston, inorgoglita d'essere stata scelta come città dell'atterraggio, anche se doveva ospitarlo per neppure ventiquattrore. Lo si vide lungo il percorso dalla periferia al cuore della città, delimitato da cinquemila barili vuoti di ferro che sostenevano centotrenta chilometri di corda: un tragitto che ripercorreva, simbolicamente, il cammino dei primi cattolici che sbarcarono nel Massachsettes. Il seme di una Chiesa cresciuta rapidamente, divenuta forte, pure sotto il profilo finanziario. Lo si vide passando per le strade di una città, un tempo dominata dai protestanti ed oggi dai cattolici, campione tipico di quella pentola di fusione che è il marchio di fabbrica dell'America. In quell'enorme condominio che è Boston, non sempre armonico, tra italiani, irlandesi, polacchi e un'altra dozzina di gruppi etnici, Giovanni Paolo II ricevette le prime acclamazioni da circa due milioni di persone schierate fino alla cattedrale di Santa Croce, una fortezza di pietra che un tempo alzava le sue mura massicce nel cuore di un ghetto assediato da forze diverse ed ostili.
Passando dinanzi a Little Italy, Papa Wojtyla poté vedere le case ammantate dal tricolore (alcune ancora con lo stemma sabaudo) e la statua di Santa Agrippina portata sul marciapiede per ricevere la benedizione. A Kosciusko Circle gli striscioni parlavano polacco mentre a Kelly gli evviva furono urlati in irlandese e a Robury in spagnolo. Un preambolo al trionfo che doveva decretargli New York dopo il discorso all'ONU.

IL DISCORSO ALL'ONU

Nel 1965 il volo sull'oceano Atlantico di Papa Montini per atterrare a New York, in un paese dove l'elezione di Kennedy era stata salutata come fine dell'antico ostracismo ai cattolici, aveva destato molto clamore: era trascorso meno di un secolo da quando Abramo Lincoln aveva spedito un inviato a Pio IX per chiedergli di fare cardinale qualche presule americano e l'inviato era stato accolto in Vaticano quasi fosse il rappresentante dei pellirosse. Lo scopo del viaggio di Montini era di parlare all'assemblea generale dell'ONU, peraltro minata da così profondi dissidi che sostenerla poteva rappresentare un rischio. Paolo VI lasciò Roma per una sola giornata, il breve tempo che potè sottrarre ai lavori del concilio Vaticano Secondo; salì sul podio della grande aula e mise in gioco due millenni di storia, il peso e il prestigio della Chiesa, per sostenere un organismo di appena vent'anni.
Giovanni Paolo II non ebbe alcuna esitazione nell'accettare l'invito di Waldheim né fece informare i diplomatici accreditati presso la Santa Sede - come nel 1965 il suo predecessore - che recandosi all'ONU intendeva dare «una nuova incontestabile prova dell'immenso prezzo che la Chiesa cattolica e lui stesso attribuiscono alla pace nel mondo». Gli era stata offerta una occasione di insistere sul tema dell'uomo, al centro del suo pensiero e della sua azione di Pontefice, e lui l'aveva accolta.
Ora, seduto su un'ampia poltrona sotto la cupola del palazzo delle Nazioni Unite, una cupola che è il centro focale di una architettura grandiosa e singolare insieme, fra l'assorta attenzione di duemila delegati e di quattromila invitati, egli parla: con un discorso asciutto, vigoroso, senza enfasi, scava nelle profonde motivazioni dei conflitti, dello «spirito di guerra», che minacciano l'umanità. Parte dall'appassionato appello di Montini per la pace e la riduzione degli armamenti per andare oltre, denunciare coloro che ostacolano sotto vari pretesti il processo di disarmo. Può la nostra epoca ancora credere che la vertiginosa corsa agli armamenti serva alla pace? o non è piuttosto vero che adducendo la minaccia di un nemico potenziale ci si riserva «a propria volta un mezzo di minaccia per ottenere, con l'aiuto del proprio arsenale, il sopravvento?». Punto centrale del discorso, l'affermazione che la minaccia sistematica ai diritti dell'uomo è causata dalla maniera con cui i beni materiali sono distribuiti nella società e sulla scena internazionale. Di qui la condanna di atteggiamenti egemonico-imperialistici e la sollecitazione a operare per dare vita a sistemi sociali, economici politici nei quali si tenda a superare lo sfruttamento dell'uomo e si dia all'uomo non soltanto una parte equa dei beni ma la capacità di essere protagonista del processo produttivo e delle sue correlazioni sociali.
Giovanni Paolo II termina di parlare. L'assemblea si scuote dal suo religioso silenzio con un prolungato applauso. Nessuno può prevedere quale influenza avrà l'appello per il disarmo, il rimprovero alle superpotenze che rischiano, dimenticando la strada della ragione, di portare il mondo alla guerra. Ma certo a rafforzare le parole di Papa Wojtyla, a sottolinearle, contribuì la realtà fisica di una città come New York.
2 ottobre 1979: Papa Wojtyla parla dalla tribuna delle Nazioni Unite

NEW YORK, LA «GRANDE MELA» ANCHE PER WOJTYLA

Quel giorno a New York pioveva, e la pioggia di solito attenua se non spegne gli entusiasmi. Non per New York. New York ebrea, cattolica, protestante, agonistica era scesa nelle strade per fare ala al corteo papale, dal Palazzo di vetro a Saint Patrick, e poi dalla cattedrale allo Yankee Stadium per celebrare la messa. Tredici miglia di applausi, di sventolio di bandiere, acclamazioni. Su un cartello, grande quanto la facciata di un grattacielo, era scritto: «Ringraziamo il Signore per averci mandato un uomo come questo». Così dallo splendente centro di Manhattan ad Harlem, al South Bronx. Già, perché anche Harlem, sinonimo di povertà, di ingiustizia, di violenza, ghetto dei neri di New York, abitato da una folla che non si scuote per nessuna cosa al mondo e che non era mai scesa ad applaudire nessuno, soprattutto un «uomo bianco», anche Harlem, per la prima volta nella storia, s'era lasciata coinvolgere. Agli angoli delle sue strade numerose orchestrine suonavano «alleluja» o spirituals. La folla ne scandiva il tempo con il battere delle mani. Sui muri di molte case, l'invito in vernice bianca: «fatti cattolico».
Il giorno successivo i giornali di New York, e di molte altre città americane, cominciavano a chiedersi cosa aveva attirato l'attenzione di milioni di gelidi, distanti newyorchesi. Ma ancora non s'era assistito alla famosa «ticker tape parade», il lancio di coriandoli che la città accorda raramente a uno straniero, e neppure s'era assistito all'incontro del Papa con ventimila teenagers al Madison Square Garden. Ventimila ragazzi che dopo aver consegnato al Pontefice i loro doni - un paio di blue jeans, una chitarra, una maglietta a mezze maniche con al centro stampata una grossa mela, il simbolo di New York - si scatenavano dando vita ad un happening di canti, cori, di discorsetti improvvisati, di battute scherzose alimentate da Giovanni Paolo II.

FILADELFIA

«Good bye New York» aveva detto il Papa prendendo l'aereo per Filadelfia, ringraziando la città che con il suo entusiasmo, talora persino eccessivo, testimoniava il bisogno di una spiritualità e di un messaggio, anche di una guida, ritrovate nell'uomo venuto dalla Polonia. «Mancava una leadership morale», scrivevano i giornali tentan di di analizzare cosa stava succedendo agli Americani. «Tutto questo è dovuto», diceva il New York Times, «alla delusione che un crescente numero di persone prova per questo mondo secolarizzato, e all'abilità di Giovanni Paolo di raggiungere e toccare la solitudine spirituale della folla». Ma fosse religione, curiosità o crisi di civiltà, la gente di Filadelfia accorse ancora più numerosa che a New York per ascoltare il Papa, il quale, giorno dietro giorno, contestava e demoliva i capisaldi della morale corrente, occidentale e americana in particolare, richiamando i valori della tradizione cattolica.
A Filadelfia, sotto «Liberty Bell», la storica campana dell'indipendenza, il Papa riprese ed ampliò il tema della libertà, ripetendo che la libertà morale non è senza confini, che non c'è vera libertà se si intaccano e danneggiano i diritti degli altri. Ogni città riceveva Giovanni Paolo II mettendo in evidenza i suoi aspetti più peculiari. Se New York aveva festeggiato l'ospite coprendone l'automobile di coriandoli, Filadelfia lo accolse con mille ragazze vestite da majorettes, abito dorato e cappello bianco, nonché ragazzi nell'uniforme dei soldati della rivoluzione americana. Nello Iowa, invece, nel cuore dell'America rurale, gli agricoltori di Des Moines - la città del West, inserita nel turbinoso itinerario papale per una sosta di alcune ore, prima della tappa di Chicago - gli agricoltori avevano lavorato parecchie settimane al fine di preparare uno spiazzo capace di contenere mezzo milione di persone. Se ne presentarono più di un milione, malgrado il Middle West fosse a maggioranza protestante.

CHICAGO

«Da Filadelfia a Des Moines, da Des Moines a Chicago. In un giorno ho visto gran parte del vostro spazioso paese e ho ringraziato Dio per la fede e i nobili intenti della popolazione», esclamò il Papa mettendo piede a Chicago, dove lo attendevano trecentoquarantacinque vescovi nordamericani. Un raduno che doveva essere un confronto, se non altro per le inquietudini di una Chiesa percorsa da dubbi sulla dottrina tradizionale, sollecitata da fermenti e tensioni. All'assemblea dell'episcopato Papa Wojtyla dichiarò che non esistono vie di mezzo, che la tradizione non si cambia, che il cattolico o è com'è sempre stato o non è cattolico. Parole dirette ad affermare l'indissolubilità del matrimonio, ratificare il divieto dell'uso dei contraccettivi, negare giustificazioni all'omosessualità. Prese di posizione dure che non influirono tuttavia sul successo popolare del viaggio, né sull'entusiasmo della folla che, a qualunque credo o religione appartenesse, si riconosceva nel «pellegrino polacco». Chicago, infatti, non fu da meno con i suoi crisantemi - non considerati fiori dei morti, negli Stati Uniti - che adornavano il pendio della collinetta nel Grant Park, il parco centrale della città su cui si elevava l'altare per la messa, concelebrata dal Papa e dai trecentoquarantacinque vescovi; con la marea umana che cantava, come in Polonia, «noi vogliam Dio» e seicento preti che distribuivano le comunioni.
Lo storico incontro tra Papa Wojtyla e Jimmy Carter

WASHINGTON

Un'eco pubblica dell'inquietudine della Chiesa nordamericana si ebbe il giorno successivo a Washington, quando una suora, Therese Kane, esponente delle religiose statunitensi, introdusse nel discorso di benvenuto la richiesta di ammettere le donne «a tutti i ministeri della nostra Chiesa», compreso il sacerdozio. Giovanni Paolo II non si aspettava che venisse sollevata la questione della parità totale dei due sessi in ogni ruolo all'interno della Chiesa, e soprattutto in modo tanto diretto. Il Papa, che sedeva all'interno del santuario nazionale dell'Immacolata Concezione, dove erano riunite cinquemila religiose, ascoltò l'appello senza battere ciglio. Non rispose, però direttamente, ma nel leggere il discorso, preparato da tempo, sottolineò come la Vergine sia onorata quale regina degli apostoli pur senza essere inserita nella gerarchia della Chiesa, e non fosse presente all'ultima cena, mentre si trovava ai piedi della croce, come a prefigurare il silenzioso coraggio delle donne di ogni tempo. Un episodio isolato di contestazione (una congregazione religiosa, poi, comprò una intera pagina di un quotidiano per chiedere scusa al Papa), durante un soggiorno che con la visita alla Casa Bianca raggiunse la vetta dell'apoteosi.
Per la prima volta il capo della Chiesa cattolica romana veniva accettato come interlocutore dal presidente di una repubblica nata affermando la più assoluta libertà di culto e la più rigorosa separazione tra Chiesa e Stato. «Questo è un giorno in cui dobbiamo ringraziare il Signore», disse Carter in polacco nel discorso di benvenuto. A sua volta Giovanni Paolo II: «È una grande gioia per me essere il primo Papa nella storia a giungere nella capitale di questa nazione». Attorno a loro sul prato, davanti all'elegante porticato della Casa Bianca, a rendere omaggio all'uomo che aveva mobilitato le folle americane, v'erano ministri, senatori, magistrati, generali, gli uomini più potenti di una delle più potenti nazioni della terra. «Giovanni Paolo è il leader spirituale del mondo», scrivevano i giornali, ripetevano i telecronisti e le radio di tutti i continenti.

RITORNO A ROMA E ANNUNCIO DEL VIAGGIO IN TURCHIA

«Siete venuti per constatare se il Papa è tornato. E tornato ed è molto grato alla Provvidenza che lo ha condotto durante queste giornate e lo ha riportato a Roma. Delle altre cose parleremo alla prossima occasione. Devo dire che fa caldo a Roma, arrivederci». I romani che, eccitati dal trionfo americano, erano corsi in piazza San Pietro, trovarono un Pontefice soddisfatto ma stanco. I nove giorni trascorsi lontano dal Vaticano, seguendo un programma che non concedeva pause, avevano fiaccato Papa Wojtyla. Durante il volo di ritorno, dalla base militare Andrews di Washington a Fiumicino, il Papa era crollato in un sonno profondo. Aveva un intenso bisogno di riposo e, al solito, accompagnato dal segretario, si trasferì subito a Castel Gandolfo.
Il viaggio negli Stati Uniti era quasi coinciso con il compimento del primo anno di pontificato, dodici mesi che lasciavano sbalorditi per la rapidità con cui i popoli più diversi avevano osannato il Papa polacco. In breve lasso di tempo, di solito dedicato dai predecessori a guardarsi intorno, Papa Wojtyla aveva conquistato un patrimonio di popolarità che Montini non era riuscito ad ottenere in un quindicennio di attività. Sotto il profilo del successo personale il consuntivo era eccezionalmente positivo: la sua spontaneità e il distacco dagli usuali comportamenti avevano creato quello che negli Stati Uniti era detto ormai il «fenomeno Wojtyla» e cioè una forte carica di attrazione che si riversava sul papato e sulla Chiesa. Peraltro una Chiesa di cui egli aveva dato una immagine forte, legata alla tradizione e alla disciplina all'interno, capace di denunciare senza paura i mali della società all'esterno.
A questo punto tutti credevano che Giovanni Paolo II avrebbe concluso il 1979 dedicandosi alla normale attività, nel tran tran giornaliero delle udienze e dello studio degli affari della Chiesa. Lui però aveva tutti altri progetti, sopra ogni cosa non amava restare chiuso nei suoi appartamenti. Così un poco oltre metà dicembre, una domenica, prima di recitare l'«Angelus», alla gente radunata sotto la finestra disse: «Oggi vorrei darvi la primizia di una grande notizia: alla fine di questo mese andrò in Turchia. Mi recherò prima di tutto ad Ankara, capitale di quel grande paese, dove incontrerò le autorità di quella nazione e porgerò loro il mio omaggio. Poi ad Istanbul, per rendere visita a Sua Santità il Patriarca Dimitrios I, e per partecipare alle celebrazioni della festa di Sant'Andrea apostolo, il fratello di Pietro. In questo modo il Fratello risponde all'invito del Fratello». Per rendere più esplicito l'obiettivo del nuovo viaggio soggiunse: «Questa visita è importante. Mostra la decisione del Papa, più volte affermata, di portare avanti lo sforzo verso l'unità di tutti i cristiani. Grandi progressi sono stati fatti, ma non possiamo accontentarci. Dobbiamo realizzare pienamente la volontà di Cristo. Con le venerabili Chiese ortodosse siamo alla vigilia di iniziare un dialogo teologico, in vista di superare insieme le divergenze che esistono tra noi. Con questa visita voglio mostrare l'importanza che la Chiesa cattolica dà a questo dialogo».
Infatti in giugno una delegazione del patriarcato di Costantinopoli, secondo l'antica denominazione di Istanbul, aveva portato al Pontefice un messaggio di Dimitros, il successore del patriarca Atenagora più volte incontrato da Montini, che informava come tutte le Chiese ortodosse si fossero accordate per avviare un dialogo teologico con Roma al fine di chiarire i motivi della divisione tra cattolici e ortodossi. Un dialogo giudicato, non a torto, di capitale importanza poiché se l'esito dell'incontro dovesse risultare positivo sarebbe superato l'ostacolo principale all'unione.
Dunque un viaggio di natura squisitamente religiosa che poteva suscitare grande interesse negli ambienti ecclesiastici ortodossi, i quali non avevano dimenticato l'abbraccio scambiato tra Montini ed Atenagora una sera del a Gerusalemme, sul monte degli olivi, ripetuto ad Istanbul quando Paolo VI vi si era recato nel luglio del 1967, né la grandiosa accoglienza del Vaticano al patriarca che restituiva la visita. Giovanni Paolo II continuava il cammino intrapreso da Paolo IV, andava a rendere omaggio al mondo ortodosso.

TURCHIA: GELIDO RITUALE

A differenza di Montini, che dodici anni prima aveva potuto atterrare direttamente ad Istanbul, meta del viaggio, Giovanni Paolo II fu costretto a scendere ad Ankara. Il governo turco non aveva voluto sentire ragioni: doveva essere innanzi tutto una visita di Stato, poi, terminata la parte ufficiale, l'ospite avrebbe potuto recarsi ad Istanbul, visitare Efeso, vedere chi voleva. Dunque il Papa arrivò ad Ankara la mattina del 29 novembre, e si trovò innanzi ad un aeroporto deserto, salvo una piccola schiera di autorità e il folto gruppo dl giornalisti e fotografi.
La comunità cattolica di Ankara, assai modesta essendo il paese al novantanove per cento mussulmano, sarebbe stata certamente presente se il governo turco non avesse avuto una situazione pesante. Pur essendo ufficialmente laica, la Turchia avvertiva l'influenza dell'islamismo predicato da Komeini e per di più la lotta politica interna era contraddistinta da continui atti terroristici. Gli stessi giornalisti ammessi nell'aeroporto, tenuto sgombro da una fitta rete di soldati, avevano dovuto lasciarsi frugare ben quattro volte prima di raggiungere la pista. Sicché Giovanni Paolo II non ricevette alcun applauso o evviva: solo il gelido, rituale silenzio delle accoglienze ai capi di Stato. Anche se poi il Papa, sceso dalla scaletta, appena stretta la mano del presidente della Repubblica, Koruterk, ruppe il rigido protocollo con un rapido prostrarsi in terra per baciare il suolo, dicendo «Per la salute di vostra eccellenza e la prosperità della Turchia». Un gesto ormai comune all'inizio dei viaggi papali, ma che colse di sorpresa le autorità, le quali avevano concordato solo uno strappo all'etichetta: un evviva ai soldati pronunciato in turco dal Papa.
In sostanza ad Ankara, per tutto il resto del giorno, Giovanni Paolo II non poté far altro che il capo di Stato, rendere visita al presidente della Repubblica, visitare il mausoleo di Ataturk - il fondatore della Turchia moderna, ateo e anticlericale - ricevere il corpo diplomatico, come se realmente egli fosse soltanto il sovrano della Città del Vaticano e avesse quale scopo di rafforzare i rapporti tra il suo Stato di quarantaquattro ettari e la Turchia. Non gli fu dato di pronunciare alcun discorso, che del resto sarebbe stato vano dato il grande disinteresse dei Turchi nei suoi confronti, né di muoversi liberamente nella città. Solo l'indomani mattina, prima di salire sull'aereo per Istanbul, poté avere un incontro con i pochi cattolici - cinquecento fra italiani, francesi, tedeschi, spagnoli, polacchi - usufruendo della chiesetta all'interno della ambasciata d'Italia. Un incontro di preghiera, svoltosi all'interno di una sede extraterritoriale, che di conseguenza metteva al riparo il governo da ogni polemica con i nazionalisti musulmani, i quali avevano attuato una dimostrazione contro la presenza del Pontefice. Un gesto subito bloccato dalla polizia ma che comunque aveva fatto rinforzare le precauzioni prese per la salvaguardia dell'ospite: bisognava stare distanti dal Papa cento metri, sessanta dei mille tiratori scelti mobilitati per l'occasione precedevano, accompagnavano, seguivano Giovanni Paolo II.
Pellegrinaggio ecumenico di Papa Wojtyla a Istanbul

ISTANBUL

Lo stato di allarme di interi reparti di soldati proseguì ad Istanbul, anzi divenne più massiccio o, almeno, più evidente dato che nella città sul Bosforo il programma era molto più folto di impegni. Innanzi tutto una visita nel modesto complesso in cui vivono i patriarchi ortodossi, una messa celebrata nella cattedrale latina e incontri con i capi spirituali di diverse comunità religiose, un giro nella città con soste al famoso museo di Topkapi e a Santa Sofia, la celebre basilica di Bisanzio trasformata in moschea quando la capitale romana d'Oriente fu conquistata dai musulmani, e infine ridotta a museo da Ataturk.
Era stato proprio a Santa Sofia che nel 1967 Montini aveva compiuto un gesto accolto con ira dai Turchi. Guidato all'interno della Basilica, Paolo VI s'era genuflesso, annullando tutte le trasformazioni del monumento. Papa Wojtyla non poté farlo, si limitò a guardare i celebri mosaici e ad una preghiera detta mentalmente. Tutto il viaggio fu racchiuso nella lunga cerimonia ecumenica durante la quale Pontefice e Patriarca annunciarono un «fatto concreto»: la designazione ufficiale delle rispettive commissioni teologiche, le quali «sulla base di un ordine del giorno preparato ed approvato dalle due Chiese» avrebbero iniziato quanto prima il dialogo. Il soggiorno in Turchia si concluse ad Izmir, più esattamente presso l'antica Efeso, tra le imponenti rovine che ricordano il tempio di Artemide e i «misteri» che vi venivano celebrati in nome della dea, i resti della basilica nella quale ebbe sede il terzo concilio ecumenico della Chiesa, e, poco distante, la «casa della Vergine» dove la tradizione vuole abbia abitato Maria, ospite dell'apostolo Giovanni. Una sosta questa in piena consonanza con la devozione mariana di Papa Wojtyla.

IL PAPA CONFESSA IN SAN PIETRO!

La mattina del 4 aprile 1980 Papa Wojtyla lasciava i suoi appartamenti con un mantello nero indosso e, salito sull'automobile in compagnia del segretario personale, si faceva condurre ad un lato della scalinata che immette nella Basilica di San Pietro. Poi, con passo svelto, entrava in chiesa, si dirigeva verso la crociera di destra, assumeva la stola violacea, si infilava in un confessionale. In un primo momento nessuno capì chi fosse quel sacerdote che, in pieno sole primaverile, se ne andava coperto con un mantello e che aveva occupato un confessionale entro il quale di solito siede un canonico polacco, cappellano nel corso della seconda guerra mondiale delle forze del generale Anders. Ma le precauzioni prese per mascherare la propria identità, come l'entrata nella Basilica a piedi, non già mediante l'ascensore che collega il tempio con il palazzo apostolico, furono ben presto rese vane.
Le prime a scoprire che nel confessionale in noce, vecchio di duecento e più anni, vi era Giovanni Paolo II furono alcune suore. Eccitate dalla novità, le religiose si addensarono intorno al confessionale, pronte a genuflettersi dinanzi alla grata del penitente. I loro gesti furono notati dal Papa, il quale mise fuori la testa dal confessionale, dicendo: «Via voi, sono qui per i laici». E rimase a confessare quanti s'erano ordinatamente messi in fila per un'ora e un quarto.
Naturalmente la notizia del gesto compiuto dal Pontefice venne presto conosciuta, però non destò soverchio interesse, anche se era la prima volta che un Papa scendeva in San Pietro per confessare (Pio XII e Paolo VI lo avevano fatto in circostanze eccezionali nel loro appartamento) i comuni fedeli. Infatti fin dai mesi successivi all'elezione, Giovanni Paolo II aveva dato dimostrazione che l'esercizio del pontificato non impedisce l'amministrazione diretta dei sacramenti, battezzando, cresimando, impartendo la comunione, ordinando sacerdoti, persino unendo in matrimonio.
Era accaduto nel febbraio del 1979 quando una commessa di ventidue anni, Vittoria Janni, ed un operaio elettronico di ventiquattro anni, Mario Maltese, avevano visto il loro matrimonio benedetto dal Papa nella Cappella Paolina. Giovanni Paolo II manteneva così la promessa fatta alla ragazza pochi mesi prima, quando presente mentre il Papa visitava il presepe costruito dai netturbini di Roma, e in particolare modo dal padre della giovane, s'era fatta avanti per esprimergli il desiderio. Così quel giorno parenti e amici degli sposi, emozionati ed anche un poco intimiditi dagli ambienti, avevano assistito al rito concluso con una udienza particolare agli sposi, ai loro genitori e ai testimoni. «Posso darle un bacio?», aveva chiesto la ragazza al Papa. «Perché no?», era stata la risposta di Giovanni Paolo II, il quale aveva abbracciato successivamente anche lo sposo.
Oramai nulla più stupiva del Pontefice, la cui giovanile opera teatrale era stata messa in scena, le poesie pubblicate in diverse lingue, i cori cantati insieme con le moltitudini polacche registrati e raccolti in disco. Tutto, o quasi, il protocollo dell'etichetta vaticana, subiva strappi e innovazioni. Il presidente della Repubblica, Sandro Pertini, s'era sentito un giorno chiamare al telefono: era il Papa che, in occasione dell'anniversario dell'incontro avuto nell'ottobre del , lo invitava a pranzo. Logico, quindi, che rientrasse nella normalità il viaggio in Africa, nonostante che le motivazioni non apparissero evidenti come nei precedenti «pellegrinaggi».

TENEO TE, AFRICA!

Anche Paolo VI s'era recato in terra africana, in Uganda, ma perseguiva un duplice scopo: consacrare l'altare dell'allora erigendo santuario dei martiri ugandesi, partecipare ad una riunione dei vescovi del continente. Papa Wojtyla, invece, sembrava non avesse obiettivi caratteristici da raggiungere. Nell'annunziare la data e l'itinerario del viaggio - dal 2 al 12 maggio -, dieci giorni in sei paesi della fascia equatoriale, di cui quattro appartenenti all'Africa francofona (Zaire, Congo, Alto Volta e Costa d'Avorio) e due a quella anglofona (Kenya e Ghana), Giovanni Paolo II s'era limitato a ricordare i molti legami, anche recenti, della Chiesa con il continente nero. Tra l'altro la ricorrenza del centenario dell'inizio dell'evangelizzazione dello Zaire. Particolare, tuttavia, che nessuno giudicava determinante, attribuendovi semmai un valore complementare. Più soddisfacente era la spiegazione che il Papa, avendo ricevuto innumerevoli inviti dagli episcopati africani, subito avallati dai rispettivi governi, al punto di indurlo a compiere una sorta di girotondo aereo per accontentarne alcuni, avesse sentito la necessità di non trascurare un continente, di esaudire subito una attesa che avrebbe potuto essere mortificata dalle previste innumerevoli visite in altre zone del mondo. Dunque «un pellegrinaggio al cuore di quegli uomini e di quei popoli» ed anche «quasi un prosecuzione degli Atti degli Apostoli» tra genti che già «in notevole misura accettano il Vangelo», per usare le sue parole alla vigilia della partenza.

ZAIRE: PRIMA TAPPA

La prima tappa fu Kinshasa, capitale dello Zaire, il paese africano con la più numerosa comunità cattolica, dodici milioni di battezzati, il 45 per cento della popolazione; e al medesimo tempo uno dei paesi in cui le tensioni fra il governo postcoloniale e la Chiesa avevano avuto fasi drammatiche. Dal 1972 al 1977 la cattolicità zairese era stata provata da una serie di provvedimenti che avevano nazionalizzato scuole ed ospedali, soppresso le festività religiose, proibito d'imporre nomi del calendario cristiano ai bambini. Poi era sopravvenuta una fase meno aspra, determinata dal fatto che il governo non riuscendo a gestire le scuole le aveva restituite alla Chiesa, e i rapporti tra l'onnipotente presidente zairese Mobutu con la gerarchia ecclesiastica, in particolare con il cardinale Malula, avevano finito con normalizzarsi. Non solo: Mobutu, definito «presidente-fondatore», forse per aver chiamato Zaire un paese via via denominato Congo Belga, Repubblica Democratica del Congo, Congo-Kinshasa, da quindici anni al potere, per rendere omaggio al Pontefice si fece trovare all'aeroporto sposato di fresco. Appena ventiquattro ore prima aveva regolarizzato la sua posizione prendendo in moglie la donna con cui conviveva, madre di quattro figli ed in attesa del quinto.
«Saluto ciascuna delle nazioni africane e mi congratulo con esse per aver preso nelle loro mani il proprio destino», disse il Papa dopo essersi gettato in terra per baciare l'asfalto. Le sue parole e quelle di Mobutu si persero nella confusione scoppiata al suo apparire, tra il rullare dei tamburi che accompagnavano piroette e salti, tanto progressivamente veloci da mozzare il fiato, dei danzatori africani.
Accade sempre all'inizio dei viaggi pontifici che ci si domandi quale consonanza potrà avere la visita presso la folla. L'interrogativo era più che mai presente nel giungere a Kinshasa, sia per il ricordo dell'atterraggio in Turchia, senza folle e senza fanfare, umile e povero (ma forse più valido dei precedenti per i suoi risultati), sia perché Giovanni Paolo II sbarcava in uno spicchio di mondo in cui cristianesimo e colonialismo avevano avuto per secoli una comune identità prima di lasciare il passo ad un esacerbato nazionalismo che aveva fatto rifiorire i riti ancestrali e che sollecitava il cattolicesimo ad inserirsi più profondamente nella cultura africana. La risposta cominciò ad emergere con il calore e la voglia di comunicare degli Zairesi all'areoporto - alcuni in maschere bianche su lunghi trampoli - e proseguì con la muraglia umana lungo i trenta chilometri fino alla capitale; una popolazione festosa che agitava fiori, frasche e bandierine; un nereggiare di teste e di volti: cattolici, cristiani di altre confessioni, animisti. Fu confermata il giorno successivo quando il Papa si addentrò nelle contraddizioni e nei particolarismi zairesi ed africani.
Giovanni Paolo II somministra l'Eucarestia a una giovane africana

IL DISCORSO DI KINSHASA

La chiesa nella quale Giovanni Paolo II aprì la seconda delle tre giornate dedicate allo Zaire, pur essendo una delle principali di Kinshasa, non aveva alcuna pretesa architettonica. Un edificio semplice, in mattoni rossi, costruito tra alberi rigogliosi che in parte lo ricoprono. All'interno quadri di santi, di apostoli, di evangelisti regolarmente neri, dipinti con ingenuità. Persino lo Spirito Santo è rappresentato da una colomba nera, entro un festone di angeli anch'essi neri. Cornice più che adatta alla celebrazione di una messa assai singolare per un bianco, ritmata dal battere delle mani, da canti e, talvolta, da un lungo grido gutturale per esprimere approvazione ed entusiasmo. Un esempio della «africanizzazione della Chiesa», come dirà poi il Pontefice ai vescovi, ponendo limiti al trapianto della dottrina cattolica nella cultura. Giacché se da un lato la Chiesa in Africa deve certificare che il cristianesimo portato dai missionari rappresentava soltanto una attuazione storica ormai superata, dall'altro esiste il pericolo che la stessa fede sia resa prigioniera della cultura locale.
Discorso proiettato verso il futuro, rivolto alla gerarchia ecclesiastica, non per la folla, accampata pure intorno all'edificio della nunziatura apostolica per vedere il Papa entrare ed uscire, magari per «toccare questo santo uomo», come scrisse «Elima», il quotidiano della capitale. Più facili ad afferrarsi le parole dirette dal Papa agli sposi cristiani al fine di combattere la diffusa poligamia, o quelle ai lebbrosi, l'accenno alla corruzione, una della cause che rende lo Zaire (pur ricco di rame, manganese, uranio, diamanti, oro) povero e dissestato economicamente.
Il richiamo alla corruzione divenne incisivo nel discorso pronunciato da Giovanni Paolo II durante l'ordinazione di otto nuovi vescovi di varie nazionalità africane. Una cerimonia imponente, officiata dinanzi a centinaia di migliaia di persone, la cui esultanza si trasformò in tragedia. Papa Wojtyla seppe soltanto nel pomeriggio che, all'alba, quando i soldati avevano aperto un cancello che immetteva nella vasta spianata dinanzi al palazzo sede del Parlamento, per l'ansia di conquistare i posti vicini all'altare, eretto in cima alla scalinata, la folla aveva travolto e calpestato più file di persone: nove morti e ottantasei feriti erano stati portati via di nascosto prima dell'arrivo del Pontefice. Giovanni Paolo II avrebbe desiderato visitare i parenti dei defunti e recarsi in ospedale. Gli fu detto da Mobutu che era impossibile perché i costumi locali imponevano alle famiglie di portarsi immediatamente a casa i morti per le onoranze funebri ed i feriti erano stati quasi tutti dimessi. L'orgoglio di un governo presidenziale non consentiva visite non programmate che avrebbero dato all'ospite una visione assai più drammatica della povertà del paese.

REPUBBLICA POPOLARE DEL CONGO

«È stata una fatalità, poteva accadere in qualsiasi altra parte del globo», si giustificò Mobutu con i giornalisti, sul piccolo molo di Kinshasa dove aveva attraccato il battello che doveva trasferire il Pontefice nel secondo dei paesi del periplo africano: l'ex Congo francese, oggi sotto regime socialista. Tre chilometri d'acqua che separano le due sponde e le due capitali, una navigazione di un quarto d'ora che pure trasferisce in un altro mondo. Al di là del fiume il Papa aveva lasciato una guardia d'onore in variopinte divise ottocentesche per essere salutato a Brazzaville da soldati in tute a macchie di leopardo, tutti egualmente armati con mitra di fabbricazione sovietica; e trovava un popolo assai più vivace di quello zairese... Centinaia e centinaia di persone che lo accompagnavano correndo a fianco della vettura papale mentre altre migliaia, al suono di orchestrine, gli davano il benvenuto.
Una sosta di poche ore, per dire messa sotto un sole rovente che bruciava i corpi, tra una moltitudine a stento trattenuta da un fitto cordone di soldati. Un breve tempo che permise al Pontefice di osservare una realtà meno sfasciata e degradata di quella zairese. Poi di nuovo l'aereo per trascorrere la notte al nord dello Zaire, in una delle più antiche missioni, quasi sul confine con il Kenia.

NAIROBI: APPELLO DI PACE

Dalla cattedrale di Nairobi Giovanni Paolo II rivolse un appello di pace a tutta l'Africa. Un invito che doveva necessariamente precedere il discorso in cui affrontava organicamente i problemi del continente. Punto centrale la dignità della persona che deve essere difesa da ogni minaccia, dal neo colonialismo come dalla degenerazione delle classi dirigenti, dalla discriminazione razziale (resa evidente dal saluto alla recente indipendenza raggiunta dallo Zimbabwe, l'ex Rhodesia), come da ogni forma di razzismo esercitata nei confronti degli immigrati dalle campagne nei centri urbani, da uno Stato all'altro. Un discorso in cui parlò di «nuova era» dell'Africa, necessariamente svolto nella capitale di uno Stato, la cui evoluzione politica ed economica, la dimensione tribale convivente con una società industriale avanzata, erano troppo evidenti per chi proveniva dalle regioni intorno al fiume Congo. Facile notare l'efficenza e l'organizzazione della visita, che certo non andava a scapito dell'entusiasmo delle folle, e la libertà religiosa dei Kenioti che, se ha fatto proliferare sette e «chiese libere», ha pure favorito lo sviluppo della Chiesa cattolica e del cristianesimo.
Ma il trascorrere del Papa intorno alla fascia equatoriale, l'entrare e uscire dai paesi, per certi versi irridendo ai timbri sul passaporto, tabù della sovranità nazionale, era troppo rapido per approfondire una situazione. Nairobi ospitò Giovanni Paolo II solo trentasei ore, fitte di incontri spossanti, di cerimonie e di riti che, a differenza del seguito, non sembravano piegare il suo robustissimo fisico. Nel salire sull'aereo che doveva portarlo ad Accra chiese con una punta di ironia ai prelati che lo accompagnavano, se almeno si fossero un poco africanizzati...

ACCRA

Nella capitale del Ghana il vorticoso viaggio papale assunse maggior spessore, se non altro per il visitatore che lo attendeva, l'arcivescovo di Canterbury, Robert Runcie. Già a Nairobi Papa Wojtyla s'era rivolto ai leaders delle religioni cristiane per sottolineare l'urgenza di una «organica unità» giacché «la divisione è uno scandalo per il mondo e specialmente per le giovani Chiese in terra di missione». Ora il tema poteva essere affrontato con il capo degli anglicani - «il papa rosso», come lo chiamavano i giornali inglesi - che doveva inaugurare una nuova «provincia» della sua Chiesa. Un colloquio privato assai positivo per la ricerca dell'unità tra cattolici e anglicani. Un colloquio che si verificò dopo la più folcloristica delle accoglienze ricevute dal Pontefice in Africa, quella di una etnia, gli «Ashanti», che in forza della sua ricchezza e dell'abilità commerciale di cui è dotata non ha serbato alcuna traccia della colonizzazione inglese, salvaguardando tradizioni e strutture sociali. Fu il re degli «Ashanti» con corona e innumerevoli bracciali d'oro, seguito da un corteo di capi e sottocapi riparati da enormi ombrelli variopinti - segno di grande dignità - ad attendere il Papa nello stadio di Kumasi, cittadina nel cuore del Ghana, dove s'erano riuniti i vescovi del Ghana e quelli provenienti dai paesi confinanti, Togo e Benin. Il re, Opoku Ware II, aspettava Giovanni Paolo II seduto su un trono completamente d'oro, accanto ai suoi dignitari, alcuni con elmi d'oro sovrastati da creste di penne. Poi, al termine della messa, alla quale avevano assistito «ashanti», cattolici, protestanti e animisti, il lento muoversi del re sotto l'enorme ombrellone, l'omaggio reso al Papa che lo attendeva sull'altare. Un pittoresco spettacolo, una scena emersa dal profondo della storia, che non poteva essere offerta né dagli abitanti del poverissimo Alto Volta, né da quelli della evoluta Costa d'Avorio.

ABIDJAN

Lo squallore dell'Alto Volta era apparso anche dall'aereo, nel sorvolare l'immensa distesa del Sahel, l'anticamera del deserto, il regno della steppa assoluta. Ma si poteva leggere pure nei volti della gente assiepata intorno al Papa, il quale aveva voluto quella sosta prima della Costa d'Avorio per un unico scopo: «lo lancio d'un appello solenne al mondo intero dando voce a chi non ha voce per chiedere di salvare le popolazioni della regione del Sahel dal dramma della siccità». Un invito ad alleviare le sventure di un popolo troppo misero ed affamato, la cui mortalità infantile ha un tasso altissimo e la media della vita si aggira sui 38 anni. Una realtà resa ancor più agghiacciante dai grattacieli e dal benessere di Abidjan, la capitale della confinante ex colonia francese, Costa d'Avorio. Era inevitabile che il Pontefice, calato in una città cosmopolita di due milioni e mezzo di abitanti, in piena espansione industriale, su un pezzetto di terra che del continente africano conserva poco più della pelle nera degli abitanti, la foggia dei vestiti di una parte della popolazione e la lussureggiante vegetazione, ammonisse a non lasciarsi suggestionare dalle «visioni dell'uomo e della società che sono parziali o materialiste e che minacciano di distogliere l'Africa da uno sviluppo veramente umano ed africano». Una esortazione ripetuta ai giovani, più di duecentomila, invitati a raggiungere un equilibrio tra le spinte per un ritorno alle tradizioni e l'adozione delle forme occidentali di vita: «Custodite le vostre origini africane. Salvaguardate i valori della vostra cultura, edificate un modello originale tipicamente africano di armonia tra i valori del passato culturale e i doni più accettabili della moderna civilizzazione».

VIAGGIO IN FRANCIA

Insieme con i bagagli e gli innumerevoli doni, zanne d'elefante, dipinti, oggetti tipici, il Papa portava con sé, la sera del 12 maggio, rientrando in Vaticano, una ricca esperienza sul ruolo della Chiesa cattolica in Africa, in un continente in via di trasformazione. I canti, i ritmi, le maschere e gli altri attributi tradizionali africani, gli aspetti esterni cioè dei dieci giorni del grande spettacolo erano oramai da passare all'archivio, ma restava la sostanza, la realtà di un mondo che Giovanni Paolo II aveva cercato di studiare osservando - anche durante le lunghe cerimonie religiose - i volti della gente, le molte sfumature delle varie accoglienze. Lo aveva confessato lui stesso, lasciando Abidjan: «Ho imparato molte cose durante questo viaggio, non potete sapere quanto questo periplo sia stato istruttivo». E durante il volo di ritorno, conversando con i giornalisti, aveva detto: «L'Africa mi è parsa un grande cantiere, da tutti i punti di vista. Con le sue promesse e anche, probabilmente, con i suoi rischi. I metodi possono essere differenti e rivelarsi più o meno adatti. Ma il desiderio di progredire è innegabile. Già risultati sensibili sono stati ottenuti: l'istruzione si diffonde, malattie in passato mortali sono state debellate, tecniche nuove sono state avviate, si comincia a saper lottare contro certi ostacoli naturali.
Un rapido consuntivo su cui si diffuse durante l'udienza generale. Tuttavia Giovanni Paolo II non ebbe nei giorni successivi molto tempo per ripercorrere con la meditazione le tappe compiute e i settanta discorsi pronunciati. In Vaticano, infatti, aveva trovato una torta di trentacinque chilogrammi, offerta da un pasticcere romano perché il 18 maggio festeggiasse il sessantesimo compleanno, e il dettagliato programma dei quattro giorni da trascorrere a Parigi e Lisieux.
Il desiderio di recarsi in Francia, più esattamente nella capitale dove era stato nell'estate del 1947 - quando, ordinato sacerdote, studiava all'Angelicum di Roma - e successivamente da cardinale nel 1965, Papa Wojtyla lo aveva esternato all'arcivescovo di Parigi cardinale Marty il giorno dell'inaugurazione del pontificato. Naturalmente il cardinale s'era subito affrettato ad invitarlo, così come aveva fatto il presidente della conferenza episcopale francese, il cardinale Etchegaray, ma si pensava di dover aspettare fino al 1981, che il Pontefice cogliesse cioé l'occasione del congresso eucaristico internazionale di Lourdes. Poi il Papa stesso, in aprile, aveva dato notizia di aver accolto gli inviti ricevuti sia dall'episcopato, sia dall'Unesco a recarsi in Francia «per una breve visita pastorale, soffermandomi soprattutto a Parigi». Restava da concordare il programma, raggiungere una intesa con i tre interlocutori, episcopato, governo francese, Unesco. Un negoziato non facile, perché occorreva soddisfare diverse esigenze, portato a termine mentre il Pontefice si trovava in Africa. Dunque ora toccava al Papa preparare i discorsi tenendo ben presente che egli avrebbe dovuto parlare non già ad una Chiesa «giovane» come quella messicana o africana ma ad una Chiesa «anziana», turbata da una crisi che egli stesso, nel messaggio ai Francesi prima della partenza, chiamerà di «sviluppo», e muoversi ed agire dinanzi ad una nazione più rivolta verso il vangelo laico dei diritti dell'uomo e della giustizia che verso la religiosità.
Nessuno negava in quei giorni che l'attesa era venata di diffidenza e di timori se non proprio di ostilità. Soprattutto da parte degli ambienti cattolici progressisti, i quali ritenevano che le posizioni riaffermate dal Papa in Messico, in Polonia, negli Stati Uniti, la sua restaurazione della disciplina all'interno della Chiesa e la sua inflessibilità dottrinale avrebbero favorito l'ala tradizionalista. Altri invece opponevano Paolo VI al suo successore, il Pontefice che un giorno aveva dichiarato di considerare la Francia come la sua «patria spirituale» a Giovanni Paolo II, il quale non aveva ancora compiuto alcun gesto nei confronti di un cattolicesimo che un tempo amava sentirsi chiamare «il figlio primogenito della Chiesa». Timori, perplessità, dubbi, ed anche una dose di indifferenza accompagnarono, dunque, l'arrivo del Papa a Parigi nel pomeriggio di venerdì 30 maggio.
Giovanni Paolo II con Giscard d'Estaing

PARIGI È SEMPRE PARIGI

L'atterraggio dell'elicottero bianco-azzurro che aveva prelevato Giovanni Paolo II all'aeroporto di Orly per depositarlo sulla larga avenue degli Champs-Elysées, l'ingresso in Place de la Concorde insieme con il presidente Giscard d'Estaing su un'automobile militare scoperta, non suscitò le scene di travolgente entusiasmo viste in altre città. La folla era enorme sia sugli Champs-Elysées, sia nella piazza e molti applaudivano o sventolavano bandierine, tuttavia la riservatezza e il controllo avevano la meglio. Forse fu colpa dell'ufficialità dell'accoglienza da capo di Stato, della adozione di un protocollo che non poteva non deludere quanti si aspettavano dal Pontefice quei gesti di spontaneità che in altri luoghi gli avevano immediatamente conquistato simpatia. Eppure il Papa, nel rispondere al saluto del presidente, aveva ricordato il ruolo della Francia nel mondo e nella Chiesa. Ma anche quando l'etichetta era stata messa un poco in disparte, nel senso che per recarsi da Place de la Concorde a Notre Dame Giovanni Paolo II aveva preso posto sull'automobile con a fianco solo il cardinale Marty, i «viva il Papa» o «viva Jean Paul» erano apparsi fiochi rispetto all'imponente folla assiepata dietro le transenne.
La prima giornata comunque s'era dipanata senza toni falsi. Dopo il Te Deum nella cattedrale di Notre Dame la cui soglia da centossettantasei anni non veniva più superata da un Pontefice e dove avevano steso il medesimo tappeto adoperato per consacrare imperatore Napoleone; dopo il rito a cui avevano partecipato il presidente della Repubblica, governo al completo e delegazioni di tutti i partiti, compreso quello comunista, Papa Wojtyla aveva celebrato una messa e parlato al clero parigino. Anzi, era stato proprio nell'intrattenersi con i preti di Parigi che Giovanni Paolo II aveva cominciato a dare prova di disinvoltura e di comunicatività.
L'aereo papale era decollato da Roma con un'ora di ritardo a causa di un incidente tecnico verificatosi sulla pista; sicché il Pontefice, terminata la messa sul sagrato della cattedrale, avvertì i sacerdoti in attesa da molto tempo all'interno del tempio che non avrebbe letto l'intero discorso, rendendosi conto della loro stanchezza. Fu il segnale dell'applauso, cui ne seguiranno molti altri sempre più convinti e calorosi quando il Papa dichiarò di non trovarsi a Parigi per richiamare all'ordine o rampognare, ma al fine di dire al clero di aver fede nel sacerdozio, conservare lo spirito missionario, testimoniare l'unità ed invitarlo alla speranza.
L'entusiasmo popolare non si accese neppure il secondo giorno. Una pioggia fitta, tenace, accompagnata da una temperatura eccezionalmente bassa per la stagione, avevano impedito all'ospite di percorrere le strade della capitale francese sulla vettura scoperta. La gente aveva preferito restare in casa, vedere gli spostamenti del Pontefice sugli schermi della televisione: l'ingresso di Giovanni Paolo II all'Eliseo dove l'attendeva Giscard d'Estaing per un colloquio privato ed un ricevimento, conclusione della parte ufficiale della visita; il ritorno alla nunziatura per la colazione alla quale parteciparono venti intellettuali, la messa nella Basilica di Saint Denis per i lavoratori e gli immigrati.
Naturalmente gli schermi televisivi non poterono mostrare la ressa scatenatasi nei saloni del palazzo presidenziale troppo esigui per contenere i cinquemila invitati - uomini politici, corpo diplomatico, autorità civili, militari, religiose, personalità dell'arte, della cultura e della scienza - che il maltempo aveva scacciato dai giardini. Qualcuno era svenuto, altri erano usciti dalle finestre.
Comunque né la pioggia, né il freddo impedirono la domenica mattina a circa mezzo milione di persone di recarsi sul campo d'aviazione del Bourget, a nord di Parigi, per assistere alla messa all'aperto. In verità l'episcopato francese, che aveva chiesto e ottenuto da tutti i quotidiani a tiratura nazionale la pubblicazione gratuita dell'invito ai fedeli di partecipare al rito, contava su una assemblea assai superiore. Tuttavia fu sufficiente lo spettacolo di gente che, intirizzita dal freddo, sotto la pioggia battente, assisteva impavida al rito celebrato dal Pontefice - tenuemente riparato da un ombrello bianco - per constatare come la folla avesse cominciato a reagire positivamente alla presenza di Papa Wojtyla. La conferma si ebbe la sera al Parc des Princes, nel centro polisportivo dove cinquantamila giovani, dai 15 ai 25 anni, si ritrovarono intorno a Giovanni Paolo II.
Per l'incontro con i giovani, il Papa aveva già preparato un discorso quando giunse in Vaticano una proposta: i ragazzi avrebbero preferito un dialogo e inviavano una serie di domande, complessivamente ventuno, entro le quali il Pontefice poteva scegliere quelle a cui rispondere. Papa Wojtyla che, a Roma, a Castel Gandolfo e nei viaggi, ha sempre privilegiato il contratto con i giovani («Coi giovani - dirà più tardi - bisogna scherzare. Ma bisogna anche essere molto seri e molto esigenti. Essi stessi vogliono che si sia esigenti con loro») aveva accettato il dialogo puntando sulle domande più importanti: la persona di Gesù Cristo, i temi delle sue conversazioni con i capi di Stato, i mezzi per evitare la terza guerra mondiale, la Polonia, la morale sessuale, l'unità dei cristiani, se la Chiesa che è «occidentale» può essere veramente africana o asiatica. E ancora domande sulla preghiera, sull'esercizio del pontificato, sulla realizzazione del concilio Vaticano Secondo.
Era previsto che la conversazione durasse un'ora, senonché, una volta entrato il Papa nel grande stadio, mentre i giovani esplodevano in un tuonante «alleluia», tutti persero la cognizione del tempo: la kermesse andò avanti per due ore e mezzo. Ogni gruppo, studenti liceali e universitari, membri delle varie organizzazioni cattoliche - sui cui striscioni si leggeva «Papa, tutti ti amano» - ebbe a disposizione il microfono per rivolgersi direttamente a Giovanni Paolo II. Ci fu anche chi sfidò la platea - che commentava, approvava, urlava agli improvvisati oratori - dichiarando di essere ateo e chiedendo al Papa cos'era la fede. La richiesta del giovane ateo si prese nella confusione ma non fu dimenticata. «Avreste dovuto tirarmi per la sottana» disse poi Giovanni Paolo II al cardinale Marty «e ricordarmi di dare una risposta a quel ragazzo. Cercatelo e ditegli di scrivermi».
La festa giovanile terminò a mezzanotte ma il Papa non volle rientrare subito nella sede della nunziatura. La giornata era stata pesante e colma di emozioni: tra la messa sotto la pioggia del Bourget (nel corso della quale tra l'altro Wojtyla aveva affermato che il motto della Rivoluzione francese, libertà, eguaglianza, fratellanza, esprime sostanzialmente concetti cristiani) e il tonificante dialogo con i giovani v'era stata pure una riunione con i vescovi. Nel seminario di Issy-les-Moulineaux il cardinale Etchegaray, un arcivescovo e un vescovo avevano illustrato al Pontefice le difficoltà della Chiesa di Francia. Difficoltà non ignorate da Papa Wojtyla, che aveva incentrato il discorso sul netto rifiuto sia del progressismo, sia dell'integrismo; di coloro i quali «sono sempre impazienti di adattare perfino il contenuto della fede, l'etica cristiana, la liturgia, l'organizzazione ecclesiale, ai cambiamenti di mentalità e alle esigenze del mondo» e, sull'altro versante, di quanti «rilevando taluni abusi che noi siamo evidentemente i primi a riprovare e a correggere, si irrigidiscono fissandosi ad un dato periodo della Chiesa». A mezzanotte il Papa aveva voluto essere condotto a Montmartre, nella bianca chiesetta del Sacro Cuore, per benedire dall'alto Parigi, quella città che l'indomani - concluso l'incontro ufficiale con i delegati dell'Unesco - avrebbe lasciato per una breve sosta a Lisieux prima di riprendere l'aereo per Roma.
Nessuno può sapere quali pensieri passarono nella mente del Papa nell'osservare dall'alto Parigi, le luci sfolgoranti di quei celebri locali notturni di Pigalle che, in segno di rispetto, s'erano abbassate al suo passaggio verso Montmartre. Parigi, laica ed ipercritica, non gli aveva dato il trionfo riscosso in altri paesi. La crisi religiosa della vecchia Europa, i contrasti interni del mondo cattolico avevano indebolito l'impatto del Pontefice e reso meno squillante la sua voce. L'ascolto però, non era mancato. I giovani lo avevano acclamato chiamandolo «atleta di Dio», i vescovi erano soddisfatti di non aver trovato in lui il maestro di scuola che punisce ma un Papa che, pur dando rigorose direttive religiose e disciplinari, s'era detto pronto a cercare insieme le soluzioni ai loro problemi. Agli operai e agli immigrati aveva parlato del lavoro e della giustizia, contro il capitalismo e il marxismo, e gli applausi non erano mancati, soprattutto ogni qualvolta aveva reso omaggio ai lavoratori. Dunque tutto sommato un viaggio positivo, che si arricchì poi dell'appassionata supplica agli uomini di scienza raccolti nella sede dell'Unesco perché lo aiutassero «a salvare l'umanità dalla distruzione» e a «construire la pace nel rispetto dei diritti dell'uomo». Mentre Lisieux, la sosta mistica dei quattro giorni in Francia, rappresentò un invito a recuperare i valori dello spirito, la dimensione interiore dell'uomo. «Francia, figlia primogenita della Chiesa, sei tu fedele alle promesse del battesimo?», era stato l'interrogativo lasciato dal Papa.

RAPPORTO ALLA CURIA

Ventiquattro ore prima di partire per il Brasile, il giorno della festa di San Pietro e Paolo, Papa Wojtyla radunava intorno a sé i cardinali e i membri della curia romana, sia ecclesiastici, sia laici, per dare loro un quadro dell'attività svolta in venti mesi di pontificato.
Nel passare in rassegna i fatti e le motivazioni che a quei fatti avevano dato vita Giovanni Paolo II non dimenticava di puntualizzare che i viaggi «sono visite compiute alle singole Chiese locali e servono a dimostrare il posto che queste hanno nella dimensione universale della Chiesa». Aggiungeva: «Sono viaggi di fede, di preghiera, che hanno sempre a cuore la meditazione e la proclamazione della parola di Dio, la celebrazione eucaristica, l'invocazione a Maria. Sono altrettante occasioni di catechesi intinerante, di annuncio evangelico nel prolungamento, a tutte le latitudini, del Vangelo e del magistero apostolico dilatato alle odierne dimensioni planetarie». E proseguiva: «Tale, e soltanto tale, è il fine del Papa pellegrino, sebbene taluni possono attribuirgli altre motivazioni».
La spiegazione si rendeva necessaria. Il continuo andare per il mondo del Pontefice - con quello in Brasile sarebbero stati sette i viaggi in meno di due anni, mentre Paolo Vi ne aveva compiuti dieci in quindici anni di pontificato - suscitava domande e perplessità. Cosa lo spingeva ad abbandonare sempre più spesso il Vaticano, la cui struttura verticistica richiedeva la sua presenza? Ad un intimo aveva detto: «Una visita anche breve ad una Chiesa mi insegna su di esse più della lettura di dieci relazioni». Ma altri supponevano che in Papa Wojtyla vi fosse, almeno in parte il desiderio di essere conosciuto, di tenere sempre viva la popolarità, anche se ciò comportava una fatica fisica che soltanto la sua vitalità gli consentiva di sopportare. Una ulteriore prova era data dal programma messo a punto per il Brasile: la visita a tredici città dei ventidue Stati che compongono quella Repubblica, dodici giorni spesi per percorrere il paese dal sud al nord, dormendo ogni sera in una città diversa.
Ciò che rendeva perplessi, e faceva parlare alcuni di turismo, era la mancanza di un'occasione precisa che richiedesse la presenza del Papa. Per di più il Brasile stava attraversando una fase politica troppo piena di incognite. La dittatura militare, salita al potere nel con un golpe rivoluzionario, dopo sedici anni di governo ispirato alla repressione, violenza e tortura, cominciava a riprendere il cammino democratico, seppure per fini strategici non come risposta alle aspirazioni della base. Il Brasile si trovava per così dire a metà del guado, con tutte le tentazioni e gli inconvenienti che la posizione comportava, specialmente nei confronti della Chiesa, la quale non dimenticando i giorni dell'odio, agiva da pungolo. Verso quale approdo?
Questo primo nodo da sciogliere era reso più complesso dalla posizione assunta dalla Chiesa - dopo le riunioni di Medellín e di Puebla - di netto rifiuto e di denuncia delle ingiuste strutture socio-politiche del paese. Denuncia anche collegiale da parte della gerarchia ecclesiastica. Eccone un esempio: nel febbraio del 1980 uno studio preparato dai vescovi, riuniti per sottolineare l'urgenza di una «giusta riforma agraria», dava i seguenti dati: il 42,6 per cento delle terre è in mano dello 0,8 per cento mentre il restante 53,5 per cento del territorio è suddiviso tra migliaia e migliaia di contadini proprietari. Lo studio concludeva: «Tale situazione è causa di gravissimi problemi sociali che provocano uccisioni, espulsioni di contadini, traffico di lavoratori ed una sempre maggiore concentrazione della proprietà terriera nella mani delle grandi imprese».
Cosa avrebbe mai potuto dire un Papa che aveva posto a centro del suo pontificato la difesa dei diritti dell'uomo e che già in Messico aveva protestato per l'oppressione del popolo latino-americano? Ma l'episcopato non era compatto: la suddivisione tra «progressisti» e «integristi» (per usare le definizioni di Papa Wojtyla a Parigi) passava dal campo sociale a quello ecclesiastico, persino nei rapporti con Roma. La polemica interna toccava la scarsità di vocazioni, che, specialmente al nord, aveva fatto chiudere i seminari, il celibato del clero rispettato solo formalmente, il recupero di una religiosità nella quale convivevano pratiche magiche, l'adozione di un cattolicesimo tradizionale non fondato sulla persuasione. Solo un accenno al lungo elenco dei problemi che Papa Wojtyla si portava con sé il mattino del 30 giugno partendo per un paese vasto quanto l'Europa.

BRASILE: UN MONDO IN MOVIMENTO

Nel mettere piede a Brasilia, la capitale federale dello Stato, il Papa ripeté il gesto di baciare il suolo. Era la tredicesima volta che lo faceva, quanti erano stati i paesi visitati nei suoi sette viaggi, e ne volle dare la spiegazione: «Un primo e silenzioso ringraziamento per l'accoglienza». Lo disse rispondendo al saluto del presidente della Repubblica Joao Baptista de Figueredo, dopo aver assistito a tutte le formalità d'uso nelle visite ufficiali dei capi di Stato: rivista dei reparti schierati, suono degli inni, colpi di cannone. Oramai non c'è paese che rinunci ad accogliere il Papa innanzi tutto come sovrano dello Stato della Città del Vaticano, anche se nelle trattative che precedono i viaggi si tenta di sottrarlo a tali manifestazioni, sottolineando il carattere pastorale della visita. Ma non c'è niente da fare: le autorità politiche non rinunciano agli aspetti spettacolari dell'avvenimento per certi versi autocelebrativo. Figurarsi poi il governo brasiliano, che aveva chiesto ed ottenuto la sosta a Brasilia, una città nata appena venti anni fa in mezzo alla foresta amazzonica, costruita dai più famosi architetti e ingegneri del mondo seguendo arditissime linee urbanistiche che tuttavia non riescono a cancellarne il senso di vuoto e di desolazione.
Per evitare ogni tentativo di strumentalizzazione Giovanni Paolo II aveva subito precisato di essere giunto esclusivamente per una missione «pastorale e religiosa» auspicando che il Brasile, «paese per la maggior parte cattolico» - di solito si dice paese cattolico - edifichi «una convivenza sociale esemplare, superando gli squilibri e le disuguaglianze nella giustizia e nella concordia, con lucidità e coraggio, senza scosse e lacerazioni». Una sottolineatura, cui ne seguì una seconda nel corso della messa all'aperto, celebrata sulla «esplanada» dei ministeri, cioè tra i diciannove edifici dai quali si governa lo sterminato paese. Dall'altare eretto nel grande spazio di una città, la cui monumentalità (che nel passato brasiliano fu associata alla magnificenza religiosa) ha avuto il suo momento di gloria, Papa Wojtyla affermava che «la missione della Chiesa non può essere ridotta al socio-politico ma consiste nell'annunciare ciò che Dio ha rivelato riguardo a se stesso e al destino dell'uomo».
Queste espressioni papali qualificavano subito il viaggio, nel senso che Giovanni Paolo II intendeva insistere e persuadere della necessità di improrogabili riforme cui bisogna giungere senza ricorrere alla violenza. Il monito divenne più esplicito il giorno successivo, quando il Papa, compiendo parecchie ore di volo, si soffermò dapprima a Belo Horizonte, poi a Rio de Janeiro.
Il mezzo milione di persone che s'era raccolto a Brasilia per la messa - la maggior parte uscita dai sobborghi della capitale o meglio dalle baracche che avevano alloggiato temporaneamente gli operai durante la costruzione della città - rappresentava l'avanguardia delle masse umane richiamate dal rapido passaggio del Pontefice nella città brasiliana. Per vedere il Papa, per gridargli i loro evviva erano discesi a Belo Horizonte da ogni parte di uno Stato che nei primi anni del 700 con le sue ricchezze minerarie, oro e diamanti, aveva costituito il fulcro del secondo ciclo economico del Brasile, dopo la caduta della coltivazione dello zucchero. Quei tempi dell'uragano aurifero, che aveva fatto dare nomi di follia ad alcune città come Ouro Preto (Oro nero) e Diamantina, adesso fanno parte della storia: le miniere non sono più così prospere da dar lavoro alle migliaia e migliaia di giovani che, nell'angoscia e nella disperazione per le drammatiche condizioni economiche, s'erano stretti intorno al Pontefice anche attribuendogli poteri miracolosi. Non per nulla, come a Brasilia, lo avevano accolto con croci e bandiere e con una canzone in cui lo si chiamava «Joao de Deus», Giovanni di Dio.

«PAPA RE RE RE!»

«Aperti alla dimensione sociale dell'uomo voi non nascondete la vostra volontà di trasformare radicalmente le strutture sociali che a voi si presentano ingiuste», aveva detto Giovanni Paolo II, cogliendo l'insofferenza di una generazione meno brasiliana delle precedenti, nel senso che alla passività e all'accettazione dei fatti compiuti si va sostituendo la piena consapevolezza dei propri diritti. Ma ciò non deve avvenire attraverso «la lotta e l'odio tra i gruppi sociali, nell'utopia di una società senza classi che si rivela ben presto creatrice di nuove classi». Una esortazione che, almeno sul momento, sembrò essere condivisa non soltanto per gli applausi che sottolineavano le sue frasi, e lo sventolio delle bandierine, ma per l'entusiasmo che esplose una volta terminato il discorso. Tanto più che Giovanni Paolo II, come in Messico, in Polonia, negli Stati Uniti, aveva contribuito ad alimentare l'entusiasmo dei giovani cantando insieme con loro, divertendosi. Talora la folla urlava: «Papa re, re, re», un grido ritmato che dicono accompagni negli stadi di calcio brasiliani i grandi giocatori.
A Rio de Janeiro, poi, l'esultanza e gli osanna salirono ancora di tono.
Non s'era mai vista una città abitata da oltre sette milioni di persone aspettare con impazienza il calare del sole per salutare un uomo. Il Papa giunse, con l'aereo posto a disposizione dal presidente Figueredo, al crepuscolo; già lo sfavillio delle luci di Copacabana, Gloria, Ipanema e Botafogo, per citare alcune delle famose spiaggie, nonché l'illuminazione della statua del Cristo Redentore sulla cima del Corcovado davano a Rio l'aspetto di visione notturna delle cartoline postali. Uno spettacolo che il Papa poté vedere per qualche attimo: a terra l'attendeva un imponente altare che ricordava le caratteristiche piramidi precolombiane, circondato da almeno un milione di persone, e dopo la messa, ancora altri impegni, fino a notte alta.
Rio de Janeiro è l'unica città brasiliana che ospitò il Papa per quasi due giorni, il tempo indispensabile ad esaurire un fittissimo programma che includeva la visita ad uno degli aspetti più vergognosi della società civile, quali sono le «favelas», gli agglomerati di catapecchie nelle quali vivono decine di migliaia di persone. Non ha importanza che a Giovanni Paolo II sia stato fatto vedere il meno squallido di questi villaggi, dove non casualmente il nero della pelle è in grande prevalenza. Non ha importanza che si sia trattato di una «favela», quella di Vidigal (una delle centocinquanta di Rio de Janeiro) in cui lo Stato si era affrettato nei giorni precedenti a costruire una scalinata per entrarvi, portare luce e telefono, compiere le prime formalità di legge che dovrebbero dare in futuro ai quindicimila abitanti la proprietà del fazzoletto di terra sul quale hanno eretto le loro baracche, Il Papa percepiva egualmente il problema della povertà: «Tra voi sono molti i poveri. E la Chiesa in terra brasiliana vuole essere la Chiesa dei poveri», disse agli abitanti che lo avevano accolto cantando a ritmo di samba una canzone - «Saluto al Papa» - composta per l'occasione.

L'ANELLO IN DONO AI POVERI

Le drammatiche condizioni di vita di quella gente erano così evidenti che Papa Wojtyla, toltosi l'anello, lo dette al parroco perché lo vendesse e ne distribuisse il ricavato. Un gesto improvviso e inaspettato che testimoniava quanto la realtà avesse commosso il Pontefice, il quale non può non essersi chiesto, salendo in vetta al Corcovado per salutare con un messaggio il Brasile, fino alla grande statua del Cristo Redentore (restaurata in tutta fretta dal governo spendendo quattro miliardi di lire), le cause che impediscono ad un paese raffigurato giustamente come un eden di essere tale anche per gli uomini. «Dio è brasiliano», dicono gli abitanti con orgoglio per indicare le ricchezze potenziali nascoste nel loro suolo, ma se lo sfruttamento di queste ricchezze è fatto da pochi, il Dio del quale parlano è impastato di egoismo».
Non meno significativo fu l'abbraccio tra il Papa e un operaio nello stadio del Morumbi di San Paolo, non appena l'operaio, Waldemar Rossi, terminò di leggere un saluto nel quale chiedeva libertà di associazione sindacale, partecipazione al processo produttivo, trasformazioni sociali. Nello stadio ad attendere Giovanni Paolo v'erano più di centocinquantamila lavoratori dell'industria metalmeccanica e metallurgica della «grande San Paolo», la megalopoli di dodici milioni di abitanti che ha perso nel tempo ogni caratteristica brasiliana per divenire con la selva dei suoi grattacieli (superiori come numero alla stessa New York) una tipica città industriale. Una moltitudine di operai che non si mosse dalle gradinate neppure quando cominciò a piovere, pronta a rompere il religioso silenzio con cui ascoltava il discorso papale con boati di consenso sentendo dire dal Pontefice: «La persistenza dell'ingiustizia, la mancanza di giustizia minaccia l'esistenza della società di dentro e di fuori». Dal di dentro «quando nella distribuzione dei beni ci si affida unicamente alle leggi economiche della crescita e del maggior lucro quando i risultati del progresso toccano solo marginalmente, o non toccano affatto i vasti strati sociali della popolazione; essa esiste anche mentre persiste un abisso profondo tra una minoranza molto forte di ricchi e la maggioranza di coloro che vivono nella necessità e nella miseria». Centocinquantamila persone che trattenevano il Papa con le loro ovazioni e ne accompagnavano l'uscita cantando: «Piangiamo perché tu te ne vai e in noi rimane la nostalgia».

FINE DEL VIAGGIO

Dopo la tappa di San Paolo fu la volta delle città del sud, Porto Alegre e Curitiba, la cui allegria ed esultanza non erano contrappuntate, o in misura assai ridotta, dalla speranza che il Papa potesse risolvere, con la sua sola presenza, i problemi brasiliani. Questo accadde nelle soste successive della lunga, estenuante maratona, quando dalle ricchezze agricole e dai prosperi allevamenti del sud si passò alla povertà e alla fame del nord. Le ore di aereo parvero realmente poche rispetto al profondo contrasto fra le due zone del Brasile, quasi due mondi, non solo dal punto di vista geologico ed economico, ma persino climatico. Al sud, nelle terre dei gauchos e delle estancias, ai confini dell'Argentina e dell'Uruguay, l'inverno è inverno, come in Europa, mentre al nord le stagioni mutano soltanto sul calendario. Il calore dei tropici è pressoché costante.
Nelle città del Rio Grande do Sul o del Paranà il portoghese rappresenta la seconda lingua per italiani, polacchi, tedeschi delle successive ondate di emigrazione; al nord è l'unificante idioma di un popolo condannato alla miseria dalla siccità. Contrasti netti, rimasti tali malgrado la sosta di ventiquattro ore in Salvador de Bahia, la «culla del popolo brasiliano», come la definì il Papa.
La tappa di Bahia non fu dettata da necessità tecniche o anche solo fisiologiche, sebbene ogni sera Giovanni Paolo II apparisse sempre più provato per l'accumularsi della stanchezza di un massacrante viaggio che gli imponeva di percorrere giornalmente 1250 chilometri. Papa Wojtyla si fermò a Bahia perché nel Brasile ufficialmente cattolico vi sono milioni di fedeli che accolgono in un unico pantheon divinità pagane e santi, le prime sovente celati sotto i nomi dei secondi, e perché la preziosa bellezza della città - la faccia negra del Brasile - nasconde la miseria di uomini e donne, i quali, chiusa la fase della ricchezza prodotta dalle piantagioni di canna da zucchero, credono nel progresso e nella industrializzazione. Speranze condivise anche dagli abitanti dello Stato di Pernambuco e degli altri sette Stati ai quali appartiene il «sertao», la fascia di territorio tre volte più vasta dell'Italia soggetta alla disgrazia di poche giornate di pioggia all'anno e ad un clima che fa prosciugare i fiumi, rende polverosi i campi, striminzite le bestie, le piante, le persone. A queste persone, i «campesinos», il Papa parlò. Helder Camara, l'arcivescovo di Recife, capitale dello Stato di Pernambuco, aveva fatto erigere l'altare al disopra di un ponticello dell'autostrada, avanti ad una spianata dove fino a qualche anno fa sorgeva una «favela». «Basterà che il Papa si guardi un poco intorno per vederne altre», s'era detto. Del resto Giovanni Paolo Il era ormai in grado di riconoscere da lontano le contorte macchie di questi agglomerati umani. Dopo quella di Rio al Pontefice ne era stata fatta vedere una seconda a Salvador de Bahia, chiamata «a/agados» perché le casupole sorgono su pali piantati in una putrida laguna e le strade sono formate da rudimentali passerelle.
Ai «campesinos» accorsi dall'interno del «sertao» Papa Wojtyla non poteva che ripetere quanto era andato dicendo fin dal primo giorno della visita: «La Chiesa è dalla parte dei poveri... la organizzazione sociale è al servizio dell'uomo e non viceversa... una situazione nella quale la popolazione, anche quella del mondo rurale, vede che la sua dignità non è rispettata porta alla rovina poiché lascia il campo aperto ad altre iniziative ispirate dall'odio e dalla violenza». Cosa poteva aggiungere arrivando a Teresina, la capitale del Piauì, lo Stato più povero del Brasile, se non leggere a voce alta e con tono amaro le parole scritte sul grande cartellone che la folla tendeva verso di lui: «Padre, il popolo ha fame»?
La realtà brasiliana e l'immagine che se n'era fatta indussero il Papa a riscrivere in parte il discorso da lui preparato per l'incontro con i vescovi. Non a caso Giovanni Paolo II aveva atteso, la vigilia del ritorno a Roma, di giungere nella città di Fortaleza, dove aveva anche celebrato la messa inaugurale del congresso eucaristico nazionale, per parlare ai centonovantotto presuli brasiliani. Se l'adunata fosse stata tenuta all'inizio del viaggio, probabilmente egli non avrebbe avvertito la necessità di rivedere il testo del discorso alla luce delle esperienze vissute nei precedenti undici giorni, dopo aver osservato un paese profondamente segnato da contrasti sociali e da disuguaglianze regionali. E probabilmente vi sarebbe stata quella sconfessione dell'operato della gerarchia ecclesiastica che si attendevano gli ambienti governativi e in genere l'establishment brasiliano. Al contrario Papa Wojtyla, pur non tacendo i rischi che corre la Chiesa brasiliana, quali la possibilità di una polarizzazione tra la Chiesa popolare e quella gerarchica, tra la ricerca teologica e l'insegnamento dei vescovi, la confusione tra la pastorale e l'attività socio-politica che spetta al laico, lodava la povertà e la semplicità dei vescovi, appoggiava vigorosamente l'attività svolta dalla conferenza episcopale brasiliana.
L'episcopato, o meglio il suo organismo collegiale, usciva rafforzato dal viaggio papale, anche se non erano mancati moniti ed esortazioni ai vescovi: l'invito a dare grande spazio a tutte le questioni connesse con la vita religiosa, il rinnovamento della liturgia, le vocazioni, la formazione dei giovani; il distinguo già espresso nelle piazze e nelle strade, la volontà di non sostituirsi alle autorità pur essendo dovere della Chiesa di manifestarsi a favore del popolo, dei poveri, della lotta contro le ingiustizie e le violazioni dei diritti umani. Niente di nuovo rispetto a quanto già detto in Messico, la divisione del sociale dal politico. Solo che questa distinzione appare piuttosto ardua nel mondo brasiliano, in cui i due campi sono strettamente connessi.
Il giorno successivo, lasciata Fortaleza dove per vedere il Papa s'era scatenata una ressa simile a quella verificatasi a Kinshasa che aveva provocato tre vittime, l'estenuato viaggiatore toccava la punta estrema del Brasile: Manaus, la capitale dell'Amazzonia, più di un milione e mezzo di chilometri quadrati di selva e di fiumi; una piccola città che ancora ricorda in alcuni edifici la tramontata ricchezza dell'epopea della gomma, estesa lungo acque nere sotto l'eterna umidità dell'estate. Malgrado l'irrespirabile temperatura, 40 gradi all'ombra, Giovanni Paolo II celebrava la sua ultima messa in territorio brasiliano su un altare costruito a forma di canoa per indicare che il rito era particolarmente riservato agli Indios, decimati e scacciati dalle loro terre. Ed anche gli Indios erano lì con i doni per l'uomo che aveva proclamato il loro diritto di possedere i luoghi dove avevano vissuto generazioni di antenati, «di abitare nella pace, nella serenità, senza il timore - vero incubo - di essere sloggiati a beneficio di altri». Offrirono al Papa oggetti tipici e prodotti dell'Amazzonia, fibra tessile, stuoie di paglia e un arara, un pappagallo dalle piume variopinte.
Papa Wojtyla tornava a Roma dopo aver compiuto un viaggio di 40 mila chilometri e aver pronunciato 54 discorsi per un totale di 32 ore. La sua immagine pubblica di leader mondiale usciva rafforzata dalla visita in Brasile. Nessuno dei precedenti soggiorni fuori d'Italia, neppure quello in Messico durante il quale governo e attività politica erano stati messi in mora, aveva visto riunite intorno a lui tanti milioni di persone, come in Brasile. Era stato esaltato, chiamato «Giovanni di Dio», «Papa re», «Papa gaucho», «Papa nostra guida», «Papa nostro fratello». Invocazioni più che grida: adesso tornava a Roma, al Vaticano, alla sua «Sede naturale», portando negli occhi l'immagine fisica di quelle nazioni sterminate, e nel cuore l'impegno di non dimenticare nemmeno per un giorno l'immensità e la profondità dei loro bisogni materiali e spirituali.

IL SINODO DEI VESCOVI

Alla fine di settembre, dopo oltre un mese e mezzo trascorso a Castel Gandolfo, periodo nel corso del quale aveva ripreso gli incontri serali con i giovani delle organizzazioni cattoliche italiane e straniere, Giovanni Paolo II rientrava a Roma per dare vita ad una importante riunione: la quinta assemblea generale del Sinodo dei vescovi.
Il Sinodo è un organismo centrale della Chiesa, convocato e presieduto direttamente o indirettamente dal pontefice, composto dai membri dell'episcopato eletti dalle varie Conferenze episcopali nazionali al fine di esaminare un determinato tema ed offrire al papa suggerimenti. Istituito nel settembre del 1965 da Paolo VI, il quale aveva colto e anticipato l'esigenza, espressa dal Concilio Vaticano Secondo, di creare un organismo in grado di partecipare al governo centrale della Chiesa, il Sinodo ha ordinariamente poteri consultivi.
Giovanni Paolo II, che per più anni aveva fatto parte, come cardinale arcivescovo di Cracovia, del Consiglio della Segreteria generale - organo permanente di una struttura i cui membri decadono al termine di ciascuna assemblea - era consapevole dell'importanza della riunione, chiamata a discutere la crisi della famiglia cristiana nel mondo contemporaneo. A lui era toccato confermare il tema scelto dal suo immediato predecessore, Papa Luciani, il quale a sua volta s'era limitato a indicare l'argomento più insistentemente richiesto dai vescovi nella lista presentatagli dal Consiglio, di cui appunto era stato membro l'arcivescovo Wojtyla. Un tema di grande attualità, giacché in tutti i paesi del mondo l'istituto familiare è divenuto un simulacro di quello che era un tempo: il calo delle celebrazioni matrimoniali sia religiose sia civili, l'aumento delle unioni libere, le interruzioni della gravidanza, la diminuzione delle nascite hanno sconvolto il modello tradizionale della famiglia. Come opporsi a tale lacerazione? Quale deve essere la fisionomia della famiglia cristiana?

A CONSULTO SULLA FAMIGLIA

Giovanni Paolo II, il quale attribuisce grande valore al lavoro sinodale - aveva già indetto due Sinodi particolari, il primo per dirimere le vertenze tra i sette vescovi olandesi, il secondo per dare un successore al cardinale ucraino arcivescovo di Leopoli, Giuseppe Slipyi - assisteva a tutte le sedute generali, prendendo accuratamente appunti su quanto veniva detto nell'aula. Un mese di dibattiti che avevano fatto emergere le differenti esperienze e i diversi contesti culturali, a seconda della provenienza dei presuli, e conseguentemente espresso soluzioni e linee operative talora anche in contrasto. Non v'erano soltanto cardinali e vescovi ad assistere ai lavori. Papa Wojtyla aveva voluto che fossero presenti anche sedici coppie di coniugi di vari paesi e continenti, in grado di portare un personale contributo alla discussione. E proprio da una coppia africana era nato un problema organizzativo: trovare una persona che potesse badare al loro bambino di pochi mesi, condotto a Roma non sapendo a chi affidarlo.
Uno dei punti maggiormente trattati dai vescovi riguardava l'approfondimento della famosa enciclica di Paolo VI sulla contraccezione, Humanae vitae, il documento cioè che ribadisce il divieto di usare anticoncezionali. Da qualche parte si sollecitava una maggiore comprensione delle difficolta in cui si imbattono i coniugi cattolici per rispettare la proibizione o si faceva presente l'alto tasso di natalità, l'esplosione demografica nei paesi del Terzo Mondo. Ma l'assemblea unanimamente finì col respingere ogni ipotesi di revisione dottrinale e pratica, accettando solo che fossero meglio illustrati ai fedeli i fondamenti, il senso e la portata dell'enciclica. Così come ha rifiutato ogni attenuazione della proibizione di concedere i sacramenti ai divorziati risposati, i quali però non debbono essere esclusi dalla comunità dei fedeli e vanno trattati in ogni caso con comprensione fraterna.
Al termine dei lavori Papa Wojtyla tracciò un bilancio dell'esame compiuto dal Sinodo, «in modo sincero e libero», riaffermando l'indissolubilità del matrimonio, la difesa della vita prenatale, la validità della famiglia nella quale la donna «non sia costretta ad un lavoro fuori casa per motivi economici». In sostanza il contestato modello della famiglia cristiana ne usciva rafforzato. Lo affermarono anche i vescovi in un messaggio in cui, pur riconoscendo le problematiche situazioni nelle quali vivono molti coniugi, invitavano i cattolici «a crescere nel difficile cammino verso una sempre maggiore fedeltà ai comandamenti divini».

PRIMO VIAGGIO IN GERMANIA

Ancora prima dell'inizio del Sinodo, in agosto, Papa Wojtyla aveva annunziato di voler compiere in novembre una visita pastorale nella patria di Lutero. E mentre i vescovi erano riuniti a Roma, la diplomazia della Santa Sede aveva preso contatti con le autorità della Germania federale per stabilire modalità e tempi del nuovo pellegrinaggio. L'occasione del viaggio era data dal settimo centenario della morte di Sant'Alberto Magno, il grande filosofo medievale proclamato da Pio XII patrono delle scienze naturali, la cui tomba è a Colonia. Ma in realtà il Papa voleva ancora una volta affrontare i problemi di una Chiesa solidamente inserita nella tradizione cristiana avendo di fronte la non meno rocciosa Chiesa riformata protestante. Bisognava dunque tenere presente anche il rapporto con i cristiani evangelici e, sul piano politico, la situazione di un paese spaccato in due dopo l'ultimo conflitto mondiale.
Una difficoltà protocollare fu superata dopo non pochi colloqui e ripetuti viaggi a Bonn dell'arcivescovo americano Paul Marcinkus, cui è affidato il compito di concordare sul luogo l'itinerario dei pellegrinaggi: riguardava gli incontri del Papa con le autorità. Di solito Giovanni Paolo lI visita soltanto il capo dello Stato, e riceve collettivamente membri del governo e parlamentari. Ma nella Germania federale, accanto al presidente della Repubblica vi è il cancelliere, che esercita un potere di gran lunga superiore a quello del primo ministro o del presidente del consiglio di altri paesi. Fu trovato un compromesso tra la richiesta del cancelliere Helmut Schmidt, il quale avrebbe desiderato avere il Papa suo ospite, e quella del Vaticano, che non volendo creare precedenti insisteva per una udienza collettiva riservata al governo. Giovanni Paolo II avrebbe visto dapprima il presidente Karl Carstens nel castello di Brühl e, successivamente, in un'altra sala del medesimo castello, il cancelliere Schmidt.

ECUMENISMO E RIFORMA

Altra questione da sistemare era quella dell'incontro del Papa con i capi della Chiesa luterana, i quali desideravano molto più di un contatto formale; volevano una lunga conversazione nel corso della quale porre domande e ricevere risposte sul tema dell'ecumenismo. Richiesta non semplice da esaudire nel corso di un programma di cinque giorni, colmo di visite alle molteplici istituzioni cattoliche e di celebrazioni. Comunque anche questo aspetto del soggiorno fu soddisfacentemente risolto, e la Germania occidentale cominciò ad attendere il Papa.
Un'attesa contraddistinta da polemiche, dopo la pubblicazione, per iniziativa dell'episcopato tedesco, di un volumetto sulla Chiesa in Germania, che comprendeva un capitolo non molto benevolo nei confronti di Martin Lutero. Le reazioni di parte protestante furono così vivaci che l'episcopato cattolico chiese scusa per quanto aveva lasciato pubblicare, impegnandosi ad una nuova edizione riveduta e corretta,del volume. L'episodio, tuttavia, non ebbe alcuna incidenza sulla cordialità con cui venne poi accolto il Papa, così come non ne ebbe il cattivo tempo che, secondo le previsioni grande ombrello bianco coprì il Papa, accompagnandolo, dopo il rituale dei colpi di cannone, degli inni e della rivista alle truppe schierate, sul piccolo podio a fianco del presidente Carstens. Davanti a Giovanni Paolo II diverse migliaia di persone furono subito divertite da una sua battuta: "Perdonatemi se non vi ho portato altro che la pioggia". Gli altri fedeli, una massa di oltre duecentomila, lo attendevano sullo spiazzo erboso del Butzweiler Hof, intorno ad un grande altare. Né la pioggia, né il vento avevano impedito alla gente di attendere per ore il Papa, di acclamarlo al suo arrivo in un'automobile sulla quale era stata innalzata una specie di cabina trasparente degli osservatori, avrebbe finito per trattenere i Tedeschi a casa, davanti allo schermo televisivo.

A COLONIA CON L'OMBRELLO

La mattina del 15 novembre, quando Giovanni Paolo II, primo pontefice che metteva piede nella patria di Lutero dopo la Riforma, scese all'aeroporto di Colonia, pioveva e faceva freddo. La puntuale ed efficientissima organizzazione tedesca - la quale aveva ingaggiato anche un gruppo di meteorologi per studiare le condizioni climatiche - non si trovò impreparata. Unte di modo che egli potesse, ritto in piedi, salutare la folla senza bagnarsi.
Al termine della prima giornata, distribuita tra la celebrazione della messa, la visita alla tomba di Alberto Magno, il colloquio con scienziati e studenti, e gli incontri ufficiali nel castello di Brühl, a breve distanza da Bonn, i Tedeschi risultarono conquistati dall'ospite. Per alcuni aveva giocato il suo ripetuto accenno, sia nel discorso all'aeroporto, sia in quello rivolto al presidente Carstens nel castello, alle «sofferenze» provocate dalla divisione della Germania e alla necessità di trovare «una pacifica e doverosa soluzione in un'Europa unita»; per altri l'essersi presentato come un pastore alla ricerca dell'intesa ecumenica; per la folla in generale, oltre al suo fluente tedesco, un inaspettato gesto di Giovanni Paolo II.
Era accaduto al termine dell'omelia pronunciata nel corso della messa: il Papa aveva ricordato il rapimento avvenuto pochi giorni prima di Caterina Beker, una bambina di 11 anni, figlia di un industriale, chiedendone la liberazione con parole accordate.

A MAGONZA CON LUTERO

Da Bonn, dove il Papa aveva trascorso la notte, a Osnabrück, una città di centocinquantamila abitanti in cui lo attendevano i cattolici profughi dalle regioni dell'Europa dell'est: altre diecine di migliaia di persone, anch'esse incuranti della pioggia e del freddo. Una breve tappa prima di proseguire in elicottero per la storica sede di Magonza, verso il dialogo con i rappresentanti della Chiesa luterana evangelica e poi con quelli di altre confessioni. Il «vertice», come lo definirono i giornali tedeschi, svoltosi nel museo della cattedrale, vide di fronte sette esponenti evangelici e sette cattolici. Il primo a prendere la parola fu il presidente del Consiglio della Chiesa evangelica: «Lei sta visitando il paese della Riforma, che ebbe per scopo di condurre i cristiani sul retto cammino e di chiamarli al rinnovamento, perché la loro vita fosse una continua conversione... È in questo spirito che noi oggi dobbiamo e possiamo incontrarla». Parole che entravano subito nel pieno del discorso dei rapporti tra cattolici e protestanti, tutt'altro che rifiutato da Giovanni Paolo II: il quale non solo propose, ed ottenne, di istituire una commissione mista per il dialogo tra evangelici e cattolici, ma volle esprimersi su Lutero con grande rispetto. «Ricordo - disse - che nel 1510/1511 Martin Lutero venne a Roma come pellegrino, ma anche come uno che cercava la risposta ad alcuni suoi interrogativi. Oggi io vengo a voi, eredi spirituali di Martin Lutero e vengo da pellegrino, per fare di questo incontro, in un mondo mutato, un segno di unione nel mistero centrale della nostra fede». Fu la dichiarazione che più doveva impressionare gli ambienti protestanti, creando intorno al cordiale «vertice» un'atmosfera altamente positiva.

A FULDA CON I VESCOVI

Man mano che il Pontefice si addentrava nel territorio tedesco, il calore della folla aumentava: merito anche della disinvoltura di Giovanni Paolo II e delle sue conversazioni corali. «Siamo dalla tua parte», gli avevano gridato i giovani la prima sera a Bonn, dopo il ricevimento del presidente della Repubblica. E lui pronto: «Quale? La destra o la sinistra?». Oppure a Osnabrück, l'interruzione del canto finale della messa per dire: «Concedete ancora una parola al Papa. Spero che non siate tutti bagnati fino alle ossa». Piccoli episodi, messi in evidenza e commentati dalla stampa e dalla televisione tedesca per esaltare la modestia e la grande umanità del visitatore.
A Fulda, una cittadina di ottantamila abitanti nel cuore della Germania, la quarta giornata della visita papale doveva essere dedicata ai vescovi, ai sacerdoti, ai diaconi, ai seminaristi, ai laici impegnati nella pastorale. Una serie di discorsi folti di inviti a testimoniare la fede, di esortazioni all'amore, volte a ribadire il valore del celibato sacerdotale. I vescovi erano soltanto sessantanove; mancavano quelli dell'altra Germania, i quali, sebbene invitati, avevano rinunciato a chiedere il visto alle autorità comuniste al fine di non rischiare un rifiuto che avrebbe danneggiato ulteriormente i rapporti tra le due Germanie. Dopo Fulda, ecco il santuario mariano di Altötting, in cui si venera una modesta scultura gotica di legno scuro, ricoperta di ricchi doni e di pietre preziose dalla devozione popolare. E infine, a Monaco, il cuore della Germania cattolica.

IL TRIONFO DI MONACO

La capitale della cattolicissima Baviera s'era preparata con cura per ricevere Papa Wojtyla. Nel Theresienwiese, il luogo stesso dove in settembre, durante la tradizionale festa della birra, s'era verificato un terribile attentato terroristico che aveva causato la morte di 13 persone e oltre 200 feriti, era stato eretto un imponente altare, tale da consentire a circa 800 mila persone di seguire la celebrazione della messa. Giovanni Paolo II, giunto in treno dal santuario mariano nel quale aveva parlato ai teologi, non poteva non ricordare il tragico attentato: «Dove finirà questo mondo che è diviso in blocchi militari, in popoli ricchi e poveri, in Stati liberi e totalitari?». Ad ascoltarlo c'erano soprattutto giovani, festosi ed entusiasti, felici di stringersi intorno all'ospite che consumava tra loro le sue ultime ore in Germania.
Cinque giorni, ventiquattro discorsi, nel corso dei quali Giovanni Paolo II non aveva esitato ad affrontare il problema della divisione della Germania, quello della scandalosa separazione tra cristiani cattolici e protestanti, e ancora, il sotterraneo astio che gli poteva derivare dall'essere polacco, una nazionalità mai eccessivamente amata dai tedeschi. Al termine poteva dirsi soddisfatto, ricordando i volti di quanti lo avevano acclamato malgrado le avverse condizioni del tempo, il ponte gettato, seppure ancora esile, verso la sponda protestante; la concorde visione dei problemi politici mondiali con le autorità di Bonn. Rientrando a Roma, dirigendosi come al solito a Castel Gandolfo per ristorarsi dell'estenuante fatica compiuta, Papa Wojtyla non supponeva che di lì a pochi giorni avrebbe dovuto mettersi nuovamente in cammino per un dolorosissimo ufficio, una sorta di «Via Crucis» tra le montagne italiane dell'Appennino meridionale; il programma delle prossime settimane prevedeva soltanto la pubblicazione della seconda enciclica del suo pontificato, la Dives in misericordia, Dio ricco di misericordia, che completa la Redemptor hominis, emanata nel marzo del 1974 e dedicata all'uomo, alla sua causa, alla sua dignità, ai pericoli che lo minacciano.

IL VIAGGIO NELLE ZONE TERREMOTATE

Ma la sera di lunedì 24 novembre, dinanzi alle immagini del teleschermo che mostra vano i paesi distrutti dal sisma del giorno precedente, Papa Wojtyla decideva di recarsi sui posti della tragedia. Normalmente il Pontefice non lascia il Vaticano, neppure per visitare le parrocchie romane, senza aver dato notizia in precedenza delle sue intenzioni alle autorità italiane, le quali provvedono alla scorta e talvolta, quando c'è da percorrere molti chilometri, all'elicottero. Ma data l'urgenza con cui Giovanni Paolo II voleva testimoniare la partecipazione al dolore della Campania e della Lucania, fu appena possibile abborracciare un itinerario. La mattina di martedì 25 non si trovò neppure il potente elicottero dell'areonautica militare usualmente posto a disposizione di Giovanni Paolo II. Il Papa, accompagnato dal cardinale Segretario di Stato Casaroli e da due alti prelati, fu condotto in auto fino alla pista di Ciampino, per imbarcarsi su un aereo militare che lo avrebbe portato fino all'aeroporto di Capodichino. Di lì, un normale elicottero gli avrebbe fatto raggiungere Potenza.
Non accade quasi mai che un Pontefice si rechi sui luoghi di un disastro mentre ancora le macerie fumano di polvere e ancora si scava con le mani fra gli ammassi di ruderi per tentare di strappare qualche creatura umana alla lunga agonia dei sepolti vivi. Paolo VI aveva atteso più di un mese e mezzo prima di visitare Firenze alluvionata. L'unico precedente, per un certo verso, era rappresentato dall'apparizione di Pio XII tra le case bombardate del quartiere romano di San Lorenzo, durante il secondo conflitto mondiale: una presenza che volle anche significare protesta e richiamo al rispetto verso una città che la diplomazia vaticana aveva ottenuto fosse considerata «aperta» da ambedue gli schieramenti avversari.

«LA SOFFERENZA E LA PREGHIERA»

L'elicottero depositò Giovanni Paolo II vicino all'ospedale di San Carlo. E subito il Papa, accompagnato dal vescovo di Potenza, ne volle visitare le corsie, soffermandosi con l'uno e con l'altro dei feriti. «Vengo per mostrarvi che sono vicino a voi, per darvi un segno di quella speranza che per l'uomo deve essere un altro uomo»: parole pronunciate con sgomento nell'atrio stesso dell'ospedale. Poi, di nuovo sull'elicottero per sorvolare i paesi distrutti, e in automobile a Balvano, un paesino in cui la chiesa era crollata seppellendo tra gli altri uno stuolo di bambini che si preparavano alla prima comunione. Sullo spiazzo antistante le prime tende sistemate per dar ricetto ad una popolazione chiusa in un disperato silenzio, il Papa s'era inerpicato su un tavolo: «Uno mi ha detto: questa gente così colpita non può più nemmeno pregare. Ma io vi dico che voi pregate con la vostra sofferenza. Sono convinto che pregate più di tanti che pregano a parole, perché portate davanti al Signore la vostra immensa sofferenza, le vostre vittime, specialmente i giovani e i bambini che sono morti in chiesa». Da Balvano in elicottero ad Avellino, nel campo sportivo, tra le centinaia di persone in attesa di trovare ricovero nelle tende. Un'automobile lo portava attraverso la città, tra negozi serrati e case abbandonate perché lesionate o per paura, fino all'ospedale. Qua e là, gruppi di uomini e donne con il volto spento, gli occhi smarriti, che si rendevano conto della inaspettata presenza del Papa quando già egli era passato. L'ospedale di Avellino, giudicato inagibile, era stato evacuato: c'era solo il pronto soccorso, allestito sotto alcune tende, e i medici al lavoro. La folla intanto s'era raccolta intorno al Pontefice, una folla che non gridava, non applaudiva, si limitava a guardarlo, toccandogli le mani. Solo al campo sportivo, prima che risalisse sull'elicottero per tornare a Roma, gli gridarono: «Santo Padre, ci aiuti lei. Dica che facciano presto, che ci ridiano le nostre case!» Papa Wojtyla, per vincere la commozione, si copriva con una mano la fronte, nascondendo il volto e gli occhi pieni di lacrime.

ATTENTATO A ROMA

«Hanno ammazzato il Papa» è la prima notizia. In piazza S. Pietro un silenzio di ghiaccio, la gente sfolla stravolta, ma lentamente. Non vuole più sapere, né vedere. Dopo l'intervento delle Forze dell'ordine, tutti i fedeli si raccontano l'accaduto. «Gli hanno sparato ma l'hanno soltanto ferito. E grave; ma è vivo».
Alle 17,17 del 13 maggio 1981 durante l'udienza generale in piazza S. Pietro, Giovanni Paolo II è ferito. Il Papa stava dando la mano ad una ragazza vestita di bianco. In quell'attimo, da una distanza di circa tre metri, una mano tesa che impugna una pistola ha sparato.
Due proiettili lo raggiungono: uno all'addome, uno al gomito destro; lo trasportano in autoambulanza al Policlinico Gemelli.
La gente stenta a credere. Ma la notizia è vera. E, in quel momento, mentre «la voce» della sala operativa della Questura continua a sguinzagliare dovunque le pattuglie, colui che ha commesso l'atto incredibile, che ha sparato contro l'Uomo della bontà, della pace, dell'amore, della vita, è già stato catturato.
L'intervento delle Forze dell'ordine lo ha sottratto ad un quasi certo linciaggio. Senza che accenni ad una qualunque resistenza, viene portato al Commissariato, e sottoposto ad un primo interrogatorio.
Chi è? Perché ha compiuto un simile gesto? Si dice che sia la stessa persona che aveva minacciato il Papa in Turchia alla fine del 1979. L'attentatore, un certo Mehmed Alì Agca, afferma di essere evaso dalla prigione per assassinare il Papa durante il suo soggiorno ad Istanbul.
In tasca gli trovano la rivendicazione dell'attentato: «Uccido il Papa per protestare contro l'imperialismo dell'Unione Sovietica e degli Stati Uniti e contro i genocidi che stanno mettendo in atto in Salvador e in Afghanistan».
Dopo vari interventi chirurgici Giovanni Paolo II è dimesso dal Policlinico Gemelli, per fare ritorno in Vaticano.

L'APPUNTAMENTO A FATIMA

Quasi un mese dopo, il Papa è pellegrino in Portogallo, e precisamente nel piccolo paese di Fatima dove il 13 maggio 1917 tre pastorelli della conca di Iria - Francisco e Jacinta Marto e Lucia Dos Santos - ebbero per la prima volta la visione della Madonna, visione che si rinnovò poi il giorno 13 di ogni mese, fino all'ottobre, quando avvenne alla presenza di settantamila persone contemporaneamente al verificarsi di fenomeni straordinari come la rotazione per dieci minuti del disco solare. A Fatima si era già recato in pellegrinaggio il pontefice Paolo VI nel , in occasione del cinquantenario delle apparizioni. Sbarcando all'aeroporto di Lisbona il Papa dichiara: «Sono in Portogallo per realizzare un sogno da molto accarezzato. Questo mio pellegrinaggio ha un motivo dominante: Fatima. In direzione di Fatima o nel ritorno da Fatima porto nel cuore il cantico delle azioni di grazia di Nostra Signora per avermi Dio salvato la vita, nell'attentato sofferto il tredici maggio dell'anno passato». Oltre un milione di fedeli giungono in pellegrinaggio dopo giorni di marcia da tutto il Paese; ai più, sfugge il gesto inconsulto di un uomo in abito talare che si getta sul Papa ai piedi dell'altare; è armato di baionetta, si chiama Fernandez Krohn, è un prete spagnolo anticonciliare seguace di monsignor Lefebvre, che però condannerà il suo atto di «cieco fanatismo». Ancora una volta Giovanni Paolo II l'ha scampata bella, grazie alla evidente protezione della Madonna alla quale tanto spesso e volentieri si raccomanda.

VISITA ALLA CHIESA «ULTIMOGENITA»

Il 13 maggio 1981 segna inevitabilmente una frattura nell'attività del Papa, il cui organismo, duramente provato, deve riprendersi con una lunga convalescenza, trascorsa prima al Policlinico Gemelli di Roma (fino al 14 agosto), e poi nella quiete di Castelgandolfo. Da tutto il mondo gli sono giunte le affettuose espressioni di solidarietà dei cristiani più umili e più importanti, ed egli ne ha tratto spunto per meditare in solitudine severa e serena, preparandosi a riprendere l'attività appena le forze glielo permetteranno. Il primo pellegrinaggio apostolico di Giovanni Paolo II dopo la sosta forzata ha avuto per meta l'Africa, ossia quella comunità cristiana che - pur essendo antichissima in certe sue espressioni - oggi viene definita come «la Chiesa ultimogenita».
Prima tappa del Papa è la Nigeria, dove incontra migliaia di fedeli nella capitale Lagos venerdì 12 febbraio, festa di Santa Eulalia, «colei che parla bene».
Il cristianesimo si diffuse in Africa a partire dalla seconda metà del Il secolo, in diretta conseguenza della dominazione romana, penetrando in profondità solo a Est, nella versione monofisita copta (cioè «egiziana»). Nel 340 si convertì al cristianesimo il re Eana, sovrano del regno di Aksum. Un secolo più tardi vi si affermò l'eresia donatista, ma dopo il Concilio di Calcedonia del 451 l'Egitto rimase fedele al monofisismo della locale Chiesa Copta. Nel V secolo i Vandali v'introdussero l'arianesimo, combattuto da missionari bizantini, i quali penetrarono nella Nubia durante il VI secolo, suscitandovi un regno cristiano durato fino al secolo XV. Bloccata dall'espansionismo islamico, la diffusione del cristianesimo nell'interno del Continente nero riprese solo con i missionari giunti al seguito dei coloni spagnoli e portoghesi. Il Papa rievoca brevemente le tappe della recente cristianizzazione del Paese nel suo discorso ai fedeli di Lagos: «Nel corso del tempo, - dice, - e in armonia col profondo mistero del piano di Dio, la Buona Novella della salvezza è giunta finalmente in Nigeria, raggiungendo prima il regno del Benin, circa cinque secoli or sono». Quel primo tentativo di evangelizzazione alla fine si è arenato, e il lavoro permanente di diffusione della fede dovette attendere fino al 1863, quando i padri della Società per le Missioni Africane raggiunsero Lagos. Poi nel i Padri dello Spirito Santo si spinsero fino ad Onitsha, e un po' più tardi la Società per le Missioni arrivò a Lokoja e Shendam.

LA COLLABORAZIONE COI MUSULMANI

Il Papa, sempre attento alle situazioni storiche e reali, si congratula coi fedeli e col clero della Nigeria anche per le iniziative che li vedono operare in comune coi membri di altre religioni, soprattutto con i Musulmani, per la promozione della pace, dell'unità e dei diritti umani. Parlando poi ai membri del Governo, egli sottolinea con forza il carattere esclusivamente religioso di questo suo secondo pellegrinaggio pastorale africano. Il giorno seguente, ad Onitsha, Giovanni Paolo II predica sulla famiglia cristiana e poi si rivolge in particolare ai giovani, dopo aver amministrato i sacramenti del battesimo e della confermazione a un nutrito gruppo di catecumeni. Agli infermi accolti nell'ospedale San Carlo Borromeo di quella località, il Papa ricorda la visita che vi fece il suo predecessore Paolo VI quando esso era ancora in costruzione. A Enugu parla ai seminaristi della nazione nigeriana, consolandosi per la vita e il vigore della loro giovane Chiesa, e a Kaduna, il giorno 14, impartisce a un gruppo di essi il sacramento dell'ordine sacerdotale. Infine, dopo la recita dell'Angelus, dedica la Nigeria alla Madonna. Sempre a Kaduna, il Papa ha tenuto un importante discorso rivolto ai capi religiosi islamici, chiedendo loro di trasmettere un saluto particolare ai molti milioni di musulmani di questo grande Paese, e sottolineando che il Cristianesimo e l'Islam hanno molte cose in comune.

VANGELO E CULTURE

Dopo aver parlato agli universitari nella tappa di Ibadan, il Papa si sofferma, in un discorso rivolto ai vescovi della Nigeria, sul problema della inculturazione del Vangelo nella vita delle diverse comunità, confermando che «la Chiesa veramente rispetta la cultura di ogni popolo. Offrendo il Vangelo, la Chiesa non intende né distruggere né abolire quanto c'è di buono e di bello. Difatti essa riconosce tanti valori culturali e tramite il potere del Vangelo purifica e introduce nel culto cristiano alcuni elementi delle consuetudini di un popolo. La Chiesa viene a portare Cristo; non viene a portare la cultura di un'altra razza». Queste parole risultano drammaticamente importanti se si considera la distanza culturale tra chi le ha pronunciate e chi le deve ascoltare; il Papa non si nasconde certo le difficoltà che possono sorgere, le diffidenze, le diversità di linguaggio da vincere e da superare. Alla fine dell'omelia egli non perde l'occasione di ribadire l'importanza della confessione individuale dei peccati, elemento che potrebbe risultare particolarmente ostico in un modello culturale come quello africano.

L'ARRIVO NEL BENIN

Mercoledì 17 febbraio 1982 il Santo Padre passa nel vicino Stato del Benin. Qui il Papa bacia la terra e saluta gli esponenti del clero locale con alla testa il cardinale Gantin, poi ricorda il grande seminario di Ouidah, inaugurato esattamente nello stesso giorno di sessantotto anni prima, e i piccoli seminari di Adjatokpa, di Djimé, di Parakou. Anche i religiosi contemplativi del Paese, come i Trappisti di Kokoubou, i Benedettini di Zagnanado, i Trappisti di Parakou e le Benedettine di Toffo ricevono il saluto e il ricordo del Papa, il quale termina la sua vibrante omelia con un'invocazione nella lingua locale: «E ni kpa Mawu - E ni kpa Gesù Cristù - E ni kpa Maria» (Iddio sia lodato - Sia lodato Gesù Cristo - Lodata sia Maria).

IL PASSAGGIO NEL GABON

Lo stesso giorno 17 il Papa passa nel Gabon, e subito ammette francamente: «L'Africa è un continente così vasto che dovrei viaggiarvi senza sosta per poterlo visitare tutto!». In particolare, parlando ai fedeli di Libreville, Giovanni Paolo II tiene a ricordare la sua prima visita pastorale in Africa nel 1980, che gli lasciò ricordi indimenticabili. Egli rende poi omaggio alla memoria di monsignor Jean-Rémy Bessieux, evangelizzatore del Gabon: «Fu lui a dare inizio - dopo lo sbarco al Forte d'Aumale il 28 settembre 1944 - all'epopea missionaria e al decollo culturale del vostro Paese, primo dei Paesi dell'Africa nera a ricevere il Vangelo», dice il Papa, e ringrazia i Padri Salesiani, Spiritani, Claretani e «Fidei donum» che recano un così prezioso contributo. Alla folla assiepata nello stadio di Libreville il Papa impartisce la sua benedizione in compagnia dell'arcivescovo Monsignor Anguilé, non senza aver ricordato il nome del primo sacerdote cattolico nato in questa terra, Monsignor Raponda-Walker.

ULTIMA TAPPA: LA GUINEA EQUATORIALE

Giovanni Paolo II conclude il suo viaggio africano con una rapida visita in Guinea Equatoriale, l'ex colonia spagnola indipendente dal 1968, dove tiene due discorsi, il primo nell'isola che è sede della sua capitale Malabo, e il secondo a Bata, in piazza della Libertà, dove gli è al fianco il vescovo Rafael Maria Nzé, capo della Chiesa guineana. Prima di concludere la celebrazione della S. Messa nella città di Bata, il Santo Padre ha pronunciato l'atto di consacrazione della Guinea Equatoriale alla Vergine Maria. Ancora tre discorsi e un'omelia nel Gabon, con un incontro ecumenico a Libreville, in cui si compiace dei buoni rapporti che intercorrono tra la Chiesa cattolica e la Chiesa evangelica, e infine il grande discorso di saluto al continente africano, dal quale il Papa si congeda citando un proverbio in lingua mbédé che dice: «Otcwi Holwodo mvudu a nde ha moni» («la mente sogna l'uomo che ha visto»), e così conclude: «L'uomo africano ha soprattutto il senso del mistero, del sacro, dell'assoluto. Anche se qualche volta questo istinto ha bisogno di essere purificato ed elevato, è una ricchezza invidiabile. Ciò che era relativamente facile risolvere a livello di villaggio, di tribù, di etnia, deve ora trovare la sua soluzione umana in relazioni molto più vaste, a livello nazionale e anche internazionale. È un programma difficile, che esige un'etica trasposta. Ne va della qualità degli uomini e della loro civiltà». La sera di venerdì 19 febbraio il Papa è di ritorno a Roma.

SAN GIUSEPPE IN FABBRICA

Per la festa di San Giuseppe artigiano, patrono del lavoro, Giovanni Paolo II compie un gesto delicato e significativo, recandosi in visita pastorale tra i lavoratori di Rosignano Solvay, in provincia di Livorno. All'ingresso della Solvay, un grande striscione gli reca il saluto degli operai della fabbrica: «Ben tornato dove hai lavorato», c'è scritto, in ricordo degli anni trascorsi dal giovane Karol Wojtyla durante la guerra come operaio del Complesso Solvay, stabilimento di prodotti chimici sito a Borek Falecki, un sobborgo di Cracovia (cfr. vol I, «Da Cracovia a Roma», pagg. 38-42). Il Papa consuma il pranzo insieme ai 2.800 operai dello stabilimento di Rosignano, servendosi di un vassoio di ferro uguale a quello di tutti gli altri: «Sono solidale con voi perché mi sento partecipe dei vostri problemi, avendoli condivisi personalmente», dice ai suoi commensali, guadagnandone immediatamente la simpatia e la confidenza. Nel pomeriggio la visita del Papa si estende all'intera città di Livorno, che lo accoglie con il consueto entusiasmo popolare, recandosi a salutarlo lungo il percorso. Giovanni Paolo II ha colto l'occasione di questa visita per rinnovare il suo monito sulla dignità umana nel lavoro, collegando la sua enciclica Laborem exercens alla celebrazione del novantesimo anniversario della grande enciclica Rerum Novarum di Leone XIII sullo stesso argomento.

APRILE ALLA STAZIONE DI BOLOGNA

Per la prima volta dopo l'Unità d'Italia un Papa si reca a Bologna, la città delle due Torri governata da un'amministrazione social-comunista ininterrottamente sin dalla fine della guerra. È dalle sette del mattino che decine di migliaia di fedeli sono cominciati ad affluire in Piazza Maggiore per sentire la parola del Papa, il quale nel corso di questa intensa giornata bolognese pronuncerà otto discorsi, denunciando la «grande illusione del pensiero materialista contemporaneo». Nel celebre e suggestivo santuario della Madonna di San Luca, egli parla ai seminaristi dell'Emilia-Romagna ricordando loro - tra gli altri - il Servo di Dio Mons. Vincenzo Tarozzi, direttore spirituale del seminario «Dodici Apostoli» di Bologna, morto nel 1918, mentre alle autorità civili ricorda, dei sette Pontefici che la città ha dato alla Chiesa, Gregorio XIII, celebre per la riforma del calendario, di cui ricorre il quarto centenario, e Benedetto XIV, Prospero Lambertini, già arcivescovo di Bologna e figura emblematica del suo magistero giuridico. Ma è alla Stazione centrale della città, verso sera, che pronunciando l'ultimo discorso il Papa raggiunge il momento più commovente della sua visita: egli ricorda infatti le ottantacinque vittime del barbaro attentato del agosto 1980: «Il ricordo e il peso di quella orrenda strage - dice il Papa - sono tuttora profondamente incisi nella nostra coscienza di cittadini e di cristiani». Sulla via del ritorno, il corteo papale si ferma per una visita al cimitero militare polacco di San Lazzaro di Savena, e quindi compie anche una sosta - non prevista - al vicino cimitero di guerra tedesco, unendo tutti i morti innocenti nella misericordia e nella pietà. È la sera del aprile, Domenica «in Albis».

ENTUSIASMO INGLESE

Venerdì 28 maggio 1982 il Papa è all'aeroporto inglese di Gatwick, accolto da Sua Grazia il Duca di Norfolk, per iniziare una visita di sei giorni in Gran Bretagna, in un momento, dice subito, in cui l'attenzione del mondo è concentrata sulla delicata situazione del conflitto nel Sud Atlantico. Si tratta della guerra delle Falkland, che gli Argentini chiamano Malvine e rivendicano alla loro sovranità. Nella veneranda Cattedrale di Canterbury, Giovanni Paolo II celebra una memorabile funzione ecumenica con l'arcivescovo Runcie, Primate della Chiesa Anglicana, separata da Roma da quattro secoli e mezzo grazie alla volontà del re Enrico VIII e alla sua ragion di Stato. Nella cattedrale cattolica di Westminster il Pontefice ricorda i monaci di San Benedetto, fondatori della vicina Abbazia, i vescovi John Fisher e Richard Challoner, il cancelliere San Tommaso Moro. A Soutwork celebra l'Unzione degli Infermi, e ricorda «coloro che hanno sofferto e sono morti durante il conflitto armato nell'Atlantico Meridionale». Ai religiosi d'Inghilterra e del Galles dice: «Voi continuate degnamente una tradizione che risale agli albori della storia del cristianesimo in Inghilterra. Agostino e i suoi compagni erano monaci benedettini. Luoghi come Canterbury, Jarrow, Glastonbury e St. Albans sono segni del ruolo che i gruppi monastici svolsero nella storia d'Inghilterra! Uomini come Bede di Jarrow, Boniface di Devon divenuto l'Apostolo della Germania, e Dunstan di Glastonbury, Arcivescovo di Canterbury nel 960; donne come Hilda di Whitby, Walburga e Lioba, e molte altre - sono nomi famosi nella storia inglese. Né possiamo dimenticare Anselmo o Nicola Breakspear, nato a Abbots Langley, che divenne Papa Adriano IV nel 1154». All'aeroporto di Coventry, infine, ricorda la città devastata dalla guerra, che i bombardamenti tedeschi fecero assurgere a fama sinistra con la nascita del neologismo «coventrizzare». Altre tappe del Papa furono Liverpool, Manchester, York, e poi Murrayfield, Edimburgo e Glasgow in Scozia: nell'omelia di Bellahuston Park fa i nomi dei vescovi scozzesi come Robert Wishart di Glasgow, e di quelli medioevali, Wardlaw, Turnbull, Elphinstone, oltre a ricordare i grandi studiosi come Duns Scoto, Riccardo di San Vittore e John Major, che onorarono la patria. Dopo aver parlato anche ai giovani del Galles, il Papa riparte dall'aeroporto di Cardiff il 2 giugno 1982.

NEL CUORE DEL CONFLITTO

Mentre si sviluppa con sempre maggiore violenza la guerra per le Falkland-Malvine, Giovanni Paolo II arriva in Argentina per una visita pastorale di due giorni, solo otto giorni dopo aver lasciato la Gran Bretagna. Nella capitale della guerra il Papa si presenta come pellegrino di pace, e prega per le vittime di ambedue le parti in lotta. Le madri dei «desaparecidós» lo invocano nella grande Plaza de Mayo. Ai Vescovi, raccolti nel santuario di Lujan, cuore mariano della nazione argentina, ricorda la solenne eucarestia che aveva voluto celebrare in San Pietro insieme coi pastori dei due Paesi coinvolti nel conflitto, che ebbero anche a sottoscrivere una Dichiarazione comune. Con questa ulteriore invocazione di pace, estesa ai governanti dei due Paesi con una pressante richiesta di aderire al desiderio e alle aspirazioni dei loro popoli, Giovanni Paolo II si accomiatava dall'Argentina il sabato 12 giugno.

ANNO SANTO DELLA REDENZIONE

A Brescia, il 26 settembre, il Papa, che aveva voluto ricordare le vittime della stazione di Bologna, s'inginocchia in Piazza della Loggia per commemorare anche quelle di un'altra strage rimasta impunita, prodotta dalle bombe del 28 maggio 1971. Giovanni Paolo II si era recato in visita a Concesio per rendere omaggio alla memoria del papa Paolo VI nella sua terra. Nei due giorni della visita tiene nove discorsi, l'ultimo dei quali al Campo di Marte davanti a duecentomila persone. In quest'occasione ricorda ai giovani la parola di Padre Giulio Bevilacqua, l'ardente «cardinale parroco», «l'incomparabile maestro e amico di intere generazioni di bresciani». Meno di un mese dopo, il Pontefice apre in Roma i lavori del secondo «plenum» del Sacro Collegio riunito durante il suo pontificato. Per quattro giorni la discussione verte sulle importanti e gravi questioni delle finanze vaticane e sulla riforma della Curia. Al termine, il Papa - con un annuncio a sorpresa - proclama il prossimo 1983 «Anno Santo Straordinario della Redenzione», in quanto 1950° anniversario della passione e morte del Signore. Era il pomeriggio di venerdì 26 novembre: il Papa era appena ritornato da un breve viaggio in Sicilia (sabato e domenica), nel corso del quale, ai giovani siciliani angosciati da problemi gravi e pressanti come la disoccupazione e la violenza mafiosa, aveva detto, esortandoli a pensare coraggiosamente un mondo nuovo: «Non conformatevi a questo tempo. Cristo è il Dio della speranza, della novità e del futuro».

AI GIOVANI DI SPAGNA

Sono parole che riecheggiano quelle pronunciate pochi giorni prima alla gioventù spagnola, durante la lunga permanenza e predicazione del Papa in quel Paese (31 ottobre - 9 novembre 1982). Agli universitari di Madrid, il 3 novembre, il Papa aveva lanciato un appello a «costruire l'utopia di un mondo nuovo, più giusto e più umano». Scrive Luigi Accattoli, commentando i due cicli di discorsi in Sicilia ed in Spagna: «È ormai abituale, in tutti i viaggi del Papa, l'appello ai giovani in nome dell'utopia e della speranza. Ma in questi due viaggi, necessariamente diversi per ambiente, problemi, parole e gesti, fa spicco la continuità dei discorso ai giovani. Di più: in ambedue i viaggi il Pontefice ha scelto gli incontri con i giovani per pronunciare le parole più cariche di coinvolgimento soggettivo... Agli spagnoli ha parlato di "lotta contro la massificazione", descrivendo il modo in cui i cristiani possono convertirsi in "trasformatori efficaci e radicali del mondo". "Sconfiggete il grigio disfattismo", ha detto ai siciliani, invitandoli a partecipare "a questa grande ricostruzione umana, sociale, morale, spirituale della vostra Sicilia"... Due viaggi segnati dalla situazione difficile di due popoli. Due comunità cattoliche in forte trapasso. Un triplice appello del Pontefice: ad essere fedeli alla grande tradizione religiosa ricevuta dalla storia, a mobilitare tutte le energie della comunità in una nuova evangelizzazione, a scommettere tutto nella costruzione di un mondo nuovo. Così possono essere riassunti ambedue i viaggi. Comprese le condanne del terrorismo basco e della mafia». A Barcellona e al Santuario di Montserrat, poco prima di concludere il suo viaggio, Giovanni Paolo II aveva anche pregato in catalano: «Us preguem, oh Pare, que en aquesta Basilica, a on demora el Teu Fill Jesucrist, Fill de Maria, atorguis abundosament la pau, la concordia i el goig a totes les tribus pregrines del nou Israel» (Ti preghiamo, o Padre, in questa Basilica in cui risiede il tuo Figlio Gesù Cristo, Figlio di Maria, di concedere copiosamente la pace, la concordia e la gioia a tutte le tribù pellegrine del nuovo Israele).

PELLEGRINAGGIO A RIETI

L'anno 1983 si apre con un pellegrinaggio del Papa a Rieti per concludere l'Anno Francescano, celebrativo dell'ottavo centenario della nascita del Poverello di Assisi, patrono d'Italia. «Qui, attorno a Rieti, - dice Giovanni Paolo II nel suo discorso del 2 gennaio, domenica, festa dei Santi Basilio Magno e Gregorio Nazianzeno ci sono ben quattro celebri luoghi francescani: Poggio Bustone, particolarmente amato dal Santo; poi Greccio, dove Francesco nella notte di Natale dell'anno 1223 ideò e realizzò il primo Presepio della storia; inoltre Fonte Colombo, il cui inviolato silenzio mistico favorì al Santo la stesura della Regola; e infine il Santuario di S. Maria della Foresta, che accolse Francesco negli ultimi anni della sua vita, malato agli occhi, e dove, secondo alcuni studiosi, risonarono per la prima volta gli ineguagliabili accenti del Cantico delle Creature». Il Papa ricorda altresì un curioso precedente: il viaggio del suo predecessore Clemente VIII in questi stessi luoghi, nel lontano 1598, per incoraggiare i lavori di bonifica relativi alla Cascata delle Marmore, e ne trae l'insegnamento che «non si può credere in Cristo e poi disinteressarsi del contesto materiale della vita dell'uomo». Il Papa ricorda poi con trasporto i suoi precedenti pellegrinaggi in questa terra: il primo nel 1946, ancora giovane studente all'Ateneo «Angelicum» di Roma, allorché fece il giro dei santuari francescani; e il secondo quando, già Vescovo di Cracovia, venne anche ad ammirare il «superbo Terminillo», da buon amatore della montagna qual'è sempre stato. «Pertanto, non vengo qui come forestiero», conclude affettuosamente, prima d'impartire la Benedizione Apostolica.

IL NUOVO CODICE

Il giorno seguente, il Papa partecipa a un'altra solenne e importante cerimonia, questa volta di rilevanza storica nell'esistenza della Chiesa: la presentazione del nuovo Codice di Diritto Canonico, «Corpus riveduto e aggiornato contenente le norme della legislazione generale» destinata a reggere la vita dell'istituzione ecclesiastica. Perché un Codice giuridico nella vita della Chiesa?, si domanda il Papa. E risponde citando la storia del Popolo di Dio nell'Antico Testamento, «allorché il patto d'alleanza del Dio d'Israele si configurò in precise disposizioni culturali e legislative, e l'uomo cui fu affidato il ruolo di mediatore e profeta tra Dio e il suo popolo, cioè Mosé, ne divenne simultaneamente il legislatore». Già nel primo Medioevo, ricorda il Papa, la vita della Chiesa era regolata da un complesso di norme e di leggi che divenne ampia e articolata legislazione canonica. Fra le tante illustri figure storiche di canonisti e giuristi, sarà opportuno nominare almeno il monaco Graziano, autore del Decretum ovvero «Concordia discordantium canonum», che Dante colloca nel quarto Cielo, tra gli spiriti sapienti, in compagnia di Sant'Alberto Magno, di San Tommaso d'Aquino e di Pietro Lombardo, teologo di Novara autore dei Libri quattuor sententiarum compilazione terminata attorno al 1152. Pertanto, conclude il Papa, «benché tutti i fedeli cristiani partecipino dell'ufficio regale, profetico e sacerdotale del Capo, tuttavia i chierici e i laici ricevono distinte funzioni in ordine alla loro sociale attività funzioni regolate e tutelate per volontà di Cristo dal sacro diritto (jus sacrum), in modo che si provveda al bene comune di tutta quanta la Chiesa».

DICIOTTO NUOVI CARDINALI

Un mese più tardi, mercoledì 2 febbraio, Presentazione del Signore, Giovanni Paolo II tiene a Roma il secondo Concistoro del suo pontificato, imponendo la berretta cardinalizia a diciotto nuovi porporati. Il Papa ne sottolinea l'«affetto collegiale» e la internazionalità: «I Membri che si aggiungono al Senato della Chiesa sono chiamati dall'Africa, dall'America, dall'Asia, dall'Europa, dall'Oceania. Tra questi si sono Presuli non solo di sedi insigni per antica tradizione cattolica, ma anche di nuove Chiese, come quella di Abidjan, di Bangkok, di Lubango». Tra i nuovi eletti, un particolare momento di commozione al nome di Jozef Glemp, arcivescovo di Varsavia e Primate di Polonia, e di Carlo Maria Martini, gesuita, biblista, da poco nominato Arcivescovo di Milano. Ricevono la porpora anche l'arcivescovo di Parigi Jean-Marie Lustiger e il famoso teologo gesuita francese Henri de Lubac, quest'ultimo col titolo diaconale. Anche il vescovo di Berlino è creato Cardinale di Santa Romana Chiesa. Il più vecchio dei nuovi porporati è l'ottantasettene Julijans Vaivods, Amministratore Apostolico di Riga, in Lettonia, una repubblica socialista sovietica. Il saluto dei nuovi Cardinali viene espresso, anche a nome dei colleghi, da Sua Beatitudine Antoine Pierre Khoraiche, Patriarca di Antiochia dei Maroniti. «Sarebbero stati più numerosi coloro che nel Sacro ordine sono degni e più numerose le sedi arcivescovili e vescovili degne - avverte il Papa con paterno affetto - ma ci è sembrato di non dover trasgredire la regola stabilita da Paolo VI con la quale si stabilisce che il numero dei Padri Cardinali che hanno facoltà di partecipare alla elezione del Pontefice Romano non superi le centoventi persone».

LA PASSIONE DI MANAGUA

Mercoledì 2 marzo 1983, festa di San Simplicio, Giovanni Paolo II parte per il Costa Rica, prima tappa del suo nuovo pellegrinaggio di pace. Visiterà il Nicaragua, Panama, El Salvador, Guatemala, Honduras, Belize e Haiti. Il primo messaggio papale ai popoli centroamericani si eleva da San José di Costa Rica, «a difendere l'uomo e al tempo stesso a tenere alta la bandiera della pace senza ricorrere alla violenza». Si era sperato che, in onore del viaggio pontificiale, sarebbero state sospese le esecuzioni capitali previste in Guatemala: esse invece avvengono regolarmente all'alba, quando sei giovani accusati di terrorismo vengono fucilati malgrado la commutazione delle pene richiesta ufficialmente dal Vaticano. Ma è soprattutto nella tappa di Managua, capitale sandinista del Nicaragua rivoluzionario, che il viaggio del Papa assume toni di imprevista drammaticità: Giovanni Paolo II riceve regolarmente gli onori militari, ma slogan sandinisti e rimproveri di folla lo perseguiteranno per tutta la durata della sua visita, fino a culminare in una scenata davvero inaudita, quando durante un incontro del Papa con le autorità di governo lo si costringe ad ascoltare - cosa ch'egli farà con pazienza ma con viso severo e aggrondato - un'interminabile arringa rivoluzionaria, mentre poi le grida della folla e degli attivisti politici quasi gl'impediranno di parlare a sua volta liberamente, tanto che la sua voce si leverà imperiosa a chiedere e imporre doverosamente «silenzio! silenzio!» per farsi ascoltare anche a dispetto di un quasi sabotaggio tecnico. Nella Giunta di Governo di ricostruzione nazionale sono presenti anche alcuni sacerdoti cattolici con rango di ministri, e tra essi uno è di fama mondiale: il poeta padre Ernesto Cardenal. Quando il ministro Cardenal si inginocchia davanti al Papa per baciargli l'anello, il Papa sottrae ostentatamente la mano e la solleva in gesto di paterno ma fermo rimprovero. Più tardi Giovanni Paolo II avrà modo di ribadire la sua condanna delle divisioni all'interno della Chiesa romana: «Quando il cristiano - dice nell'omelia tenuta venerdì 4 marzo ai Vescovi del Paese - qualunque sia la sua condizione, preferisce qualsiasi altra dottrina o ideologia all'insegnamento degli Apostoli e della Chiesa, quando si fa di codeste dottrine il criterio della nostra vocazione, quando si prova a reinterpretare secondo le loro categorie la cateschesi, l'insegnamento religioso, la predicazione, allora si debilita l'unità della Chiesa». Una Chiesa divisa, una Chiesa «carismatica» o peggio ancora «popolare» affiancata e contrapposta a quella che si raccoglie attorno al legittimo Vescovo, rappresenta, per il Papa, un'illusione «assurda e pericolosa». Questo esplicito ammonimento sigilla la tempestosa tappa di Managua.

ALLA TOMBA DI ROMERO

L'altra tappa «scottante» di questo lungo viaggio papale è quella El Salvador, dove Giovanni Paolo II arriva il 6 marzo nonostante le voci di attentati preannunciati contro la sua persona e la situazione politica esplosiva, stretta tra il rilancio della guerriglia e gli ultimatum del presidente Reagan. Parlando nella Cattedrale il Papa ricorda che dentro le sue mura venerande «riposano i resti mortali di Mons. Oscar Arnulfo Romero, zelante Pastore che l'amore di Dio e il servizio ai fratelli portarono fino al sacrificio stesso della vita in forma violenta, mentre celebrava il Sacrificio del perdono e della riconciliazione». L'Arcivescovo di San Salvador mons. O. A. Romero, da sempre schierato contro l'arbitrio e la violenza, il 23 marzo 1980 aveva pubblicamente esortato i militari salvadoregni a «non obbedire agli ordini contrari alla legge divina», ed era stato assassinato due giorni dopo da un gruppo di terroristi mentre celebrava la messa nella Cattedrale. Ai suoi funerali, il 30 marzo, avevano preso parte 400.000 persone, ma una sparatoria aveva provocato altri 40 morti e 250 feriti. Oltre a ricordarlo nell'omelia, Giovanni Paolo II si recherà a pregare in raccoglimento sopra la sua tomba, e proclamerà: «È urgente seppellire la violenza, che tante vittime ha fatto in questa e in altre Nazioni».

A MILANO DOPO 465 ANNI

Dalla sua diocesi di Milano il cardinale Montini era partito per diventare Papa, ma nonostante il fervido desiderio più volte espresso non aveva più potuto tornarvi. Così l'arrivo di Giovanni Paolo II, venerdì 20 maggio 1983, per il Congresso eucaristico nazionale, rappresenta un'ennesima occasione storica: per la prima volta dopo ben 465 anni un Pontefice romano rimette piede nella città di Sant'Ambrogio. (L'ultimo ad arrivarvi era stato Martino V, Oddone Colonna, che laboriosamente era venuto a capo dello scisma di Occidente e aveva convocato un Concilio a Pavia). L'entusiasmo dei Milanesi fu grande, specie degli operai e dei giovani, attorno al Papa che celebrò una messa all'aperto nel quartiere popolare del Gallaratese, poi si recò a Desio e Seregno, in Brianza, incontrò i seminaristi di Venegono in provincia di Varese, e infine fu acclamato - nonostante il maltempo - da duecentomila giovani cattolici accolsi all'autodromo di Monza. Durante questo soggiorno in Lombardia il Papa tiene diciassette discorsi, parlando tra gli altri sia agli operai di Sesto S. Giovanni sia agli imprenditori riuniti alla Fiera Campionaria. Recitato l'Angelus sulla piazza del Duomo, Giovanni Paolo II stabilisce un altro primato assistendo, alla sera, ad un concerto sinfonico in suo onore diretto dal maestro Riccardo Muti: è il primo Papa che occupa una poltrona del teatro alla Scala.

POLONIA, ANCORA UNA VOLTA

Il mese dopo Karol Wojtyla riesce finalmente a coronare un sogno che vagheggiava almeno da un anno, e al quale aveva dovuto rinunciare a causa della tensione politica: visitare una seconda volta, da Papa, la sua Polonia, come già aveva fatto pochi mesi dopo la sua elezione (cfr. alle pagine 61-75 di questo volume). La partenza è il 16 giugno, un giovedì, festa di Sant'Aureliano vescovo: appena giunto all'aeroporto di Varsavia-Okecie, un bacio al suolo della Patria è il suo fervido saluto. «Vengo nella Patria, - dice con emozione - e la mia prima parola, detta nel silenzio e in ginocchio, è stata un bacio a questo suolo: un suolo natale. Seguendo l'esempio di Paolo VI, faccio così all'inizio di ogni visita pastorale, in onore di Dio Creatore, e dei figli e delle figlie della terra nella quale giungo. Il bacio deposto sul suolo polacco ha però per me un significato particolare. È come un bacio dato nella mani della madre, poiché la Patria è la nostra madre terrena...». E così prosegue, indicando i termini del suo nuovo viaggio: «Vengo a Jasna Gora. A Jasna Gora si va in pellegrinaggio, e perciò saranno un pellegrinaggio tutti questi giorni, che mi sarà dato di trascorrere nella mia terra natale. In relazione al Giubileo, milioni di persone in Polonia fanno il pellegrinaggio a Jasna Gora. Desidero essere uno di loro». La visita dura otto giorni, e milioni di Polacchi acclamano ancora una volta il Papa ritornato alla loro terra. La tensione politica esistente nel Paese è testimoniata da un evento: Giovanni Paolo II riceve il sindacalista di Solidarnosc, Lech Walesa, solo in un incontro privato e segreto. Due saranno invece gl'incontri ufficiali col generale Jaruzelski, padrone del Paese. «Chi si batte per la libertà è già santo», afferma solennemente il Papa, che si reca per prima cosa alla tomba del Cardinale Stefano Wyszynski, giustificandosi per non aver potuto partecipare al suo funerale, il 31 maggio del 1981: «Non son potuto venire a Varsavia, allora, a causa dell'attentato compiuto alla mia vita nel giorno 13 maggio, che causò alcuni mesi di ricovero all'ospedale». Esaltando la memoria del Cardinale Stefano, «questo intrepido servo della Chiesa e della Patria», Wojtyla allude esplicitamente alla durezza del regime militare che s'è dovuto imporre in Polonia: «La Provvidenza Divina gli ha risparmiato i dolorosi avvenimenti che si collegano con la data del 13 dicembre 1981». Ma alle autorità civili e militari che governano il suo Paese non rinuncia a scandire una parola di audace speranza: «Che questo difficile momento possa diventare una via di rinnovamento sociale, l'inizio del quale è costituito dagli accordi sociali stipulati dai rappresentanti delle autorità dello Stato con i rappresentanti del mondo del lavoro... Non cesso di sperare che quella riforma sociale, molte volte annunciata, secondo i princìpi elaborati con tanta fatica nei giorni critici dell'agosto 1980, e contenuta negli accordi, verrà gradualmente attuata». Sono gli accordi sottoscritti da Lech Walesa nelle sue giornate gloriose, e poi duramente disattesi dal governo comunista. E l'incontro semiclandestino del Papa con Walesa avrà, questa volta, anche una conseguenza drammatica fuori di Polonia, nel cuore stesso del Vaticano: proprio commentando a caldo quell'incontro, il Vice-Direttore dell'Osservatore Romano, don Virgilio Levi, illustre prefatore dei nostri volumi, affermerà che il sindacalista di Solidarnosc è stato sacrificato «al miglior bene comune» dandolo per politicamente liquidato, e suscitando una tempestosa reazione che si concluderà con le sue «dimissioni», immediatamente accettate dal Papa.
Un caso che, nella storia recente del Vaticano, non ha precedenti. L'incontro con Jaruzelski avviene alla Palazzina del Belvedere, a Varsavia. Alle parole del Papa: «La Polonia soffre», il Generale risponde con durezza: «Si dice che la Polonia soffre. Ma chi calcola l'immensità delle sofferenze umane che si è riusciti ad evitare?». E al Papa, come a tutti i Polacchi, non rimane che la sopportazione cristiana e la speranza.
Papa Wojtyla s'intrattiene col generale Wojciech Jaruzelski

IL VIAGGIO A VIENNA, 300 ANNI DOPO LA CACCIATA DEI TURCHI

Parlando ai capi polacchi, Giovanni Paolo II aveva accennato a «questo momento storico, allorché ricordiamo i 300 anni dell'assedio di Vienna». Ed è nella capitale austriaca che il Papa si reca sabato 10 settembre per una visita di quattro giorni. Nel suo primo discorso, tenuto sulla Piazza degli Eroi (la Heldenplatz), il Pontefice ha ricordato «con particolare commozione il re polacco Jan Sobieski alla guida delle truppe di soccorso alleate che liberarono Vienna» dall'assedio dei Turchi nel 1683. E ne trae spunto per un'affermazione decisa e inequivocabile: «Ci sono casi - proclama - in cui la lotta armata è un male inevitabile a cui in circostanze tragiche non possono sottrarsi neanche i cristiani» È la riconferma della tradizionale dottrina della «guerra giusta», forse sorprendente in un momento in cui da tante parti s'invoca concordemente la pace nel terrore di un possibile sterminio atomico, ma non inattesa in un Papa battagliero e «medioevale» come Wojtyla, che rivendica in quest'occasione la propria visione storico-teologica di un'Europa cristiana unita ideologicamente «dall'Atlantico agli Urali, dal Baltico al Mediterraneo», unita e formata dalla fede in Cristo, al di là e al di sopra di contingenti divergenze politiche, come quelle che oppongono gli Stati occidentali e liberaldemocratici al «blocco comunista».

LA PREGHIERA COI LUTERANI E IL PERDONO AD AGCA

L'anno si chiude con un gesto spettacolare: l'11 dicembre il Papa si reca, primo Pontefice della storia, a visitare la Chiesa protestante di via Toscana in Roma, la Christus Kirche, e in occasione del cinquantesimo anniversario della nascita del grande riformatore si affianca al pastore luterano Christoph Mayer in una preghiera comune. È un contributo all'unità, un atto di splendida umiltà e insieme intransigenza, tipico dello stile del Papa. Il quale aprirà l'anno nuovo, il 1984, con un gesto ancora più toccante e - per i mezzi di comunicazione di massa - sensazionale, anche se in realtà non fa che concretizzare il comandamento cristiano e dare un esempio che certamente il Papa è proprio il primo a dover dare a tutta la Chiesa: recandosi in visita nel carcere di Rebibbia, a Roma, per gli auguri di Natale e Capodanno, s'incontra in una spoglia celletta della prigione con il suo potenziale assassino, quel giovane turco di nome Alì Agca che nel maggio di tre anni prima ha sparato contro di lui in piazza San Pietro. Tra il killer e la vittima si instaura un misterioso, dolcissimo rapporto d'amore; appartati in un angolo, i due uomini - così diversi, così lontani per età, caratteri fisici e morali, gusto, educazione, nazionalità, lingua, abitudini, destino - si stringono l'uno all'altro, anzi è il Papa che stringe a sé il giovane Alì e quasi lo «confessa», gli mormora parole pacate e lo ascolta attentissimo, fino a dargli una specie di benedizione (o forse è Alì che si porta alla fronte la mano del Papa, in un gesto di commovente sottomissione). Tutti i giornali e le televisioni del mondo diffondono queste immagini e le trovano straordinarie, sconvolgenti, uniche: anch'esse passano all'archivio del nostro tempo inquieto, e nella biografia, nella singolarissima umana avventura di questo Pontefice così straordinario.
Karol Wojtyla durante la sua permanenza all'ospedale Gemelli

L'incontro di Papa Wojtyla a Rebibbia con il suo attentatore Alì Agca

SULLA SOGLIA DI UN NUOVO ANNO

Celebrando la Santa Messa per la Giornata mondiale della pace, il 1° gennaio 1984, il Papa ha sottolineato come una causa ultima e fondamentale si trovi al fondo delle varie cause e dei differenti meccanismi che accompagnano i processi dello sviluppo della civiltà contemporanea: tale causa è rappresentata dal fatto che si sta perdendo la coscienza della radicale fratellanza degli uomini e dei popoli. Quale realtà, si chiede il Papa, riscontriamo sul nostro pianeta all'inizio di questo nuovo anno? «Non è forse essa in profondo contrasto con la verità circa l'universale fratellanza degli uomini e dei popoli? Il mondo d'oggi è sempre più irretito da tensioni che si manifestano in modo lacerante... Tra Est e Ovest le relazioni sono giunte ad un contrapporsi radicale di posizioni, con l'interruzione - che speriamo temporanea e la più breve possibile - dei negoziati sulle riduzioni degli armamenti nucleari e convenzionali. Intanto, la diffidenza reciproca moltiplica i nefasti effetti delle lotte ideologiche ed esaspera i già gravi conflitti locali, da cui le varie nazioni, alcune delle quali molto piccole, sono quotidianamente insanguinate. Nell'altra direzione tra Nord e Sud, il fossato che separa i Paesi ricchi dai Paesi poveri si è ulteriormente allargato con la recente crisi economica. Secondo gli esperti, ad un rallentamento dell'uno per cento nell'espansione economica delle nazioni più industrializzate corrisponde un impoverimento, almeno dell'uno e mezzo per cento, nei Paesi in via di sviluppo. L'indebitamento di questi, che ha raggiunto dimensioni catastrofiche, dà la misura del divaricante peggioramento di tali contrasti economici. Ma l'aspetto più preoccupante è rappresentato dai contrasti che ne derivano nella situazione dell'uomo. Nei Paesi ricchi migliorano la salute e l'alimentazione, in quelli poveri invece mancano i mezzi alimentari di sopravvivenza ed imperversa la mortalità, specialmente infantile... La minaccia della catastrofe nucleare e la piaga della fame si affacciano agghiaccianti all'orizzonte come i fatali cavalieri dell'Apocalisse... Quali sono, ci domandiamo, le cause profonde di questi fenomeni? E perché il livello delle minacce e delle piaghe non diminuisce, ma cresce? L'umanità si pone queste domande con inquietudine sempre più grande» conclude il Papa, e suggerisce come causa fondamentale l'affievolirsi del sentimento fraterno tra gli uomini, che sono fratelli perché sono tutti figli di Dio: «Quanto più cerchiamo di eliminare la consapevolezza di questa paternità, tanto più noi cessiamo di essere fratelli, e di conseguenza tanto più si allontanano da noi la giustizia, la pace e l'amore sociale». Nello stesso giorno di capodanno del 1984 Giovanni Paolo II, rivolgendosi all'Angelus ai fedeli presenti in piazza San Pietro, li esorta a considerare «che il nostro destino non dipende tanto da ciò che accade fuori di noi, ma quanto da ciò che ciascuno decide nell'intimo della propria coscienza e s'impegna ad attuare nella concretezza della propria vita», e termina augurando loro un anno di pace, la pace «che nasce da un cuore nuovo». La pressante preoccupazione della Santa Sede per la pace mondiale verrà ribadita dal Papa nella sua allocuzione al corpo diplomatico pronunciata il 14 gennaio: «In un certo numero di Paesi sovrani che hanno già la loro storia come nazione e che avevano realizzato la loro unità, la pace interna rimane purtroppo precaria, per altre ragioni, poiché essi debbono far fronte a devastanti ribellioni armate. Che costo enorme, in sprechi di beni di necessità vitale, in rovine di ogni tipo, in violenza, in perdite di vite umane, senza contare le opposizioni cariche di odio che rimangono!... Non c'è un giorno da perdere, siamo convinti che questo è un dovere fondamentale di tutte le parti interessate, e se qualcuno volesse sottrarsi alla necessità dei negoziati, si renderebbe gravemente responsabile davanti all'umanità e alla storia... La Chiesa chiama ad agire con amore, con spirito di fraternità, di servizio, come essa ha imparato da Cristo; essa è sicura che senza questa disposizione le grandi parole di pace, di giustizia, di solidarietà rischiano d'essere come dei cembali che risuonano senza produrre altro effetto... Il cristiano - ha affermato con forza il Papa - non crede nella fatalità della storia. L'uomo, con la grazia di Dio, può cambiare la traiettoria del mondo».
L'incontro di Giovanni Paolo II con Ronald Reagan

IL NUOVO CODICE

Verso la fine del mese di gennaio, il Papa ha rivolto un discorso ai membri della Sacra Romana Rota in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario, cogliendo l'occasione per lumeggiare la forza innovatrice del nuovo Codice di diritto canonico entrato in vigore da circa due mesi. «Nella riforma del diritto processuale canonico - ha detto Giovanni Paolo II ai suoi giuristi - ci si è sforzati di venire incontro ad una critica molto frequente, e non del tutto infondata, concernente la lentezza ed eccessiva durata delle cause. Accogliendo pertanto una esigenza molto sentita, senza voler intaccare né diminuire minimamente le varie garanzie offerte dall'iter e dalle formalità processuali, si è cercato di rendere l'amministrazione della giustizia più agile e funzionale, semplificando le procedure, snellendo le formalità, accorciando i termini, aumentando i poteri discrezionali del giudice, ecc... Nel nuovo Codice, specialmente in materia di consenso matrimoniale, sono state codificate non poche esplicitazioni del diritto naturale, apportate dalla giurisprudenza rotale... Ma la preoccupazione di salvaguardare la dignità e l'indissolubilità del matrimonio non può fare prescindere dai reali ed innegabili progressi delle scienze biologiche, psicologiche, psichiatriche e sociali; in tal modo, si contraddirebbe il valore stesso che si vuol tutelare, che è il matrimonio realmente esistente, non quello che ne ha solo la parvenza...» In forza della autorevolezza che gli viene anche dall'approvazione da parte dell'episcopato, il nuovo Codice di diritto canonico si può considerare, secondo il Papa, quasi come l'ultimo documento del Concilio ecumenico Vaticano II e il suo coronamento.

TRA I PUGLIESI

Il 26 febbraio il Papa si reca a visitare la Puglia per la seconda volta, dopo la visita compiuta nell'ottobre del 1980 a Otranto per venerare i suoi santi martiri. Parlando a Bari, Wojtyla rievoca la gigantesca figura del suo patrono, quel San Nicola che nel quarto secolo fu vescovo di Myra in Asia Minore, da dove il suo culto si è diffuso in tutta la cristianità. «La sua figura - nota il Pontefice - non cessa di essere un punto particolare di incontro tra l'Oriente e l'Occidente, il che ha assunto un significato nuovo in questo tempo di accresciuti sforzi ecumenici». Riprendendo quindi una non dimenticata osservazione scritturale del suo predecessore, Giovanni Paolo II ha ricordato che «sin dall'inizio Dio ha circondato l'uomo con un particolare amore. E questo amore ha caratteristiche paterne e materne insieme, come lo testimonia il profeta Isaia (49, 15)... E la paternità di Dio fu una particolare ispirazione per il vescovo di Myra - conclude il Papa - la paternità, ma anche questa maternità di cui parla il profeta». Recitando l'Angelus coi fedeli baresi, il Papa coglie poi l'occasione geografica della stretta vicinanza con l'Albania per sottolineare la funzione del capoluogo pugliese come ponte proiettato oltre il mare Mediterraneo, proprio verso quel Paese così vicino eppure tanto lontano, dove i cristiani «non possono manifestare esternamente la loro fede, diritto fondamentale della persona umana», e affida tutti gli Albanesi alla protezione della Madonna.

APPREZZAMENTO PER LUTERO

Al principio di marzo, il Papa offre un nuovo esempio della sua personale approvazione per gli sforzi di quanti, tra i cattolici e tra gli evangelici, si adoperano per superare e ricomporre le dolorose ferite inferte alla unità della Chiesa in un recente passato. «Nei vostri sforzi - dice alla commissione congiunta cattolico-luterana - è cresciuta tra di voi un'atmosfera di stretta affinità ed è cresciuto anche uno spirito di solidarietà con coloro che soffrono per la divisione; i frutti del vostro lavoro sono ampiamente riconosciuti in tutto il mondo cristiano. Molti riflettono, studiano ed esaminano i documenti comuni da voi redatti. Che le vostre relazioni contribuiscano al movimento verso l'unità cristiana... Quattro anni fa ebbe luogo la celebrazione dell'anniversario della presentazione del documento confessionale luterano alla dieta di Augusta nel 1530. Avete notato con profonda soddisfazione un accordo su alcune centrali verità di fede. Ciò che ci unisce e ci accomuna ci incoraggia nella speranza di raggiungere l'unità anche in quegli ambienti di fede e di vita cristiana nei quali siamo ancora divisi. Nell'anno commemorativo, appena trascorso, della nascita di Martin Lutero, abbiamo potuto constatare che gli sforzi di ricerca evangelico-cattolici ci offrono un quadro più completo della personalità e dell'insegnamento di Lutero, ed anche una visione più adeguata dei complicati eventi storici del sedicesimo secolo. Si tratta di elementi importanti per la riconciliazione e la comune crescita insieme di cattolici e luterani. Sono pietre miliari sul lungo e difficile cammino che ci fa progredire. Non cesseremo mai di cercare nuove opportunità per la graduale realizzazione di quell'unità per la quale Cristo ha pregato alla vigilia della sua morte sacrificale», conclude il Papa.

CELEBRAZIONE DI GREGORIO MENDEL

Sempre in marzo, il Papa si è associato all'omaggio reso all'abate Gregorio Mendel (1822-1884), monaco agostiniano e fondatore della genetica con le sue scoperte sulla trasmissione dei caratteri ereditari nel «pisum sativum». Giovanni Paolo II ha sottolineato la fecondità dell'incontro fra scienza e fede:
«Sull'esempio del suo maestro, Sant'Agostino, seguendo la propria vocazione personale Gregorio Mendel, nell'osservazione della natura e nella contemplazione del suo Autore, seppe in un medesimo slancio congiungere la ricerca della verità con la certezza di conoscerla già nel Verbo creatore, luce seminata in ogni uomo e rifulgente nell'intimo delle leggi della natura, che lo studioso pazientemente decifra... Con Gregorio Mendel, il ramo della scienza indicato oggi come genetica aveva così iniziato il suo sviluppo. Da allora ad oggi, delle unità ereditarie, dette geni circa vent'anni dopo la sua morte, si dimostrò la reale esistenza, si determinò la localizzazione in particolari strutture cellulari, si definì la natura, si analizzò la struttura, si comprese la funzione. Oggi si riesce a costruirle in laboratorio... Gregorio Mendel aveva intravisto qualcosa del futuro quando, nel presentare i suoi risultati, sottolineava che essi davano la soluzione di una questione che, in vista della storia dell'evoluzione delle forme organiche, non è di piccola importanza. L'uomo incomincia oggi ad avere nelle mani il potere di controllare la propria evoluzione. La misura e gli effetti, buoni o no, di questo controllo dipenderanno non tanto dalla sua scienza quanto piuttosto dalla sua sapienza, scienza e sapienza che sono in modo quasi emblematico armonizzate in Gregorio Mendel».

IL VENTUNESIMO VIAGGIO

Poco dopo la Pasqua, il Papa intraprende il suo ventunesimo viaggio apostolico, che lo porterà in Asia e in Oceania: Corea, Papua Nuova Guinea, Isole Salomone, Thailandia. Scrive in proposito il padre Giuseppe Pittau s.j.: «Ogni viaggio del Papa ha qualcosa di comune, eppure ha sempre qualcosa di radicalmente diverso, come sono diversi i Paesi visitati. È lo stesso Papa che porta l'unico messaggio di Cristo e presenta la stessa Chiesa universale, ma porta questo messaggio e presenta questa Chiesa in lingue e accenti diversi e arricchisce la Chiesa universale con una conoscenza e una stima delle singole Chiese locali... Con la visita del Papa molte Chiese, soprattutto le Chiese giovani, sentono per la prima volta la gioia e l'orgoglio di essere non solo parte integrale e necessaria dell'unica Chiesa, ma anche Chiese con caratteristiche e responsabilità specifiche che contribuiscono alla ricchezza di tutta la Chiesa... Ogni viaggio del Papa è anche un viaggio di dialogo e inculturazione. In tutti i discorsi del Papa c'è un profondo senso di rispetto e stima per i valori e la tradizione religiosa e morale dei popoli dell'Asia e dell'Oceania. Già fin dal suo primo discorso in Corea, parla con ammirazione del Buddismo e del Confucianesimo e porge gli auguri ai buddisti nell'occasione delle celebrazioni per commemorare la nascita di Buddha. Mostra questo spirito di dialogo specialmente in Thailandia quando visita il Patriarca buddista... In Corea e Oceania ha lodato lo sforzo missionario dei protestanti e degli anglicani. È stato un dialogo con la cultura dei Paesi visitati. Ciò che il Papa ha detto è profondo, ma più che le parole sono i suoi gesti e le sue opere che hanno impressionato profondamente i vari Paesi visitati. La Chiesa parla tanto di inculturazione, ma il simbolo più bello di questa inculturazione è lo sforzo che fa Giovanni Paolo II nel mostrare concretamente il suo profondo rispetto per la cultura e la lingua del posto». Allo scalo tecnico obbligato di Fairbanks, in Alaska, il Papa incontra il presidente Reagan di ritorno da un viaggio in Cina, e sottolinea la funzione che l'Alaska è venuta assumendo, di «crocevia del mondo» (come tappa della cosiddetta «rotta polare») e di «cuore del Nord dorato», rilevando come in quel grande Stato si parlino 65 lingue e le persone delle più diverse estrazioni sociali vi convivano con Aleuti, Esquimesi e Amerindi. Viaggiando poi dall'Alaska alla Corea, sulla stessa rotta lungo la quale il 1° settembre dell'anno prima un jumbo coreano era stato abbattuto da un caccia sovietico, il Papa ha voluto ricordare tutti i passeggeri che in quella circostanza drammatica perdettero la vita, raccomandandone le anime a Dio. Ai lavoratori coreani, che lo ascoltavano a Pusan, ha rammentato che Gesù fu lui stesso un lavoratore manuale, «e anche la maggior parte dei suoi discepoli e seguaci: pescatori, agricoltori e operai. Così, quando parla del regno di Dio, Gesù usa costantemente termini connessi con il lavoro umano... e paragona la costruzione del regno di Dio al lavoro manuale dei mietitori e dei pescatori».
Il pontefice scende la scaletta di un aereo, durante uno dei suoi numerosi viaggi

SVIZZERA: UN VIAGGIO DIFFICILE

Salutati con la consueta cordialità i sempre prediletti giovani di Comunione e Liberazione, che il 13 maggio erano andati a fargli gli auguri («mi rallegra il fatto che voi... portate sempre più bambini. Il vostro movimento, pur rimanendo giovanile, diventa nello stesso tempo familiare, diventa giovanile nella seconda generazione»), il Papa ha affrontato nella seconda settimana di giugno un difficile viaggio in Svizzera, la cui preparazione era stata salutata da qualche ostinata manifestazione di ostilità, come ricorda il padre Georges Cottier o.p.: «Il successo della visita pastorale che Giovanni Paolo II ha effettuato in Svizzera non era affatto certo in partenza. Lasciamo da parte i gruppuscoli estremisti che si screditano da soli. Ma presso numerosi protestanti l'atteggiamento era più che riservato: le reazioni recenti, di violenza imprevista, contro l'eventualità di un vescovo a Ginevra, le critiche alle prese di posizione nette in materia d'etica coniugale e d'aborto, cui s'assommano quelle per gli accenti posti sulla devozione mariana, la discriminazione in favore del Sommo Pontefice che sarebbe stata rappresentata - si pensava - dalla sua visita al Consiglio federale, costituivano altrettanti motivi di questa reticenza. Reticenza condivisa da un certo numero di cattolici, a partire dai preti, sofferenti di quel complesso antiromano così ben analizzato da Hans Urs von Balthasar... Bisogna riconoscere che la maggior parte delle domande poste sia dai teologi che dai preti sono state deludenti (perché ad esempio questa insistenza sul celibato?); esse riflettono quel ripiegamento tremebondo su di sé e quell'incertezza caratteristici delle società occidentali opulente». A questo giudizio severo converrà ricordare che tuttavia si trattava di domande poste, nessuno potrà mai giudicare con quanta ansia e quanto dolore, da preti e da teologi cattolici, ai quali forse la «papolatria» di cui ogni tanto si compiace fare sfoggio una parte della gerarchia cattolica non è più sufficiente.

SETTEMBRE CANADESE

Il 9 settembre, una domenica, il Papa parte per il Canada, e si trova a recitare per la prima volta in aereo la consueta preghiera domenicale dell'Angelus, cosa che non manca di far notare ai presenti e agli ascoltatori della Radio Vaticana che seguono il pellegrinaggio. Sorvolando la località di Gaspé, dove nel 1534 l'esploratore Jacques Cartier piantò la prima croce sul suolo canadese, Giovanni Paolo II saluta con commozione quel simbolo dell'evangelizzazione di 450 anni or sono, nonché gli Amerindi e Inuit che abitano quelle terre da tempi immemorabili. La preghiera dell'Angelus verrà quindi ripetuta dal Papa nella cattedrale di Québec, grazie allo sfasamento del fuso orario. In quell'occasione il Papa fa atto di venerazione per la tomba del beato François de Laval, primo vescovo del Québec e di tutta l'America del Nord, da lui stesso elevato agli onori degli altari nel 1980: «François de Laval si unì nel 1639 ad una Chiesa nascente», dopo aver «conosciuto in Francia la vitalità di una cristianità che si stava rinnovando sotto l'impulso di numerosi fondatori e di numerosi uomini di grande spiritualità». Il giorno seguente, parlando agli Amerindi e agli Inuit, Giovanni Paolo II ci tiene a congedarsi da loro con un saluto nella lingua Inuit: «Ilannaarivapsi tamapsi naglijauvusi jiususinut» (Siete miei amici, siete tutti amati da Dio), soggiungendo: «La Chiesa è l'Apatagat di Dio per voi». Il lungo viaggio del Papa si conclude a Ottawa il 20 settembre.

A CHI APPARTIENE LO SPAZIO?

Dopo aver celebrato, il 29 settembre, festa di San Michele arcangelo, il trentennale di Comunione e Liberazione ringraziando monsignor Giussani per la sua indefessa attività («la vostra presenza sempre più consistente e significativa nella vita della Chiesa in Italia e nelle varie nazioni, in cui la vostra esperienza inizia a diffondersi, è dovuta a questa certezza, che dovete approfondire e comunicare»), il Papa parla il 2 ottobre ai membri della Pontificia Accademia delle Scienze su un tema di grande attualità: «Ora che lo spazio è visitato dall'uomo e dalle sue macchine, la domanda è ineludibile: a chi appartiene lo spazio? Non esito a rispondere che lo spazio appartiene all'umanità intera, che esso è qualcosa a vantaggio di tutti. Così come la terra è per il vantaggio di tutti e la proprietà privata deve essere distribuita in modo tale che a tutti gli esseri umani sia data una porzione adeguata dei beni deLla terra, allo stesso modo l'occupazione dello spazio con satelliti o altri strumenti deve essere regolata da giusti accordi e patti internazionali che mettano in grado l'intera famiglia umana di goderlo e di usarlo». Un'altra importante direttiva antropologica viene impartita dal Papa ai suoi scienziati: «La trasmissione di cultura non deve identificarsi con l'imposizione delle culture dei Paesi a tecnologia avanzata a quelli in via di sviluppo. I popoli con antiche culture, anche se talvolta ancora in parte analfabeti ma dotati di una tradizione orale e simbolica capace di trasmettere e di preservare le loro culture, non devono essere vittime di un colonialismo culturale o ideologico che distrugge quelle tradizioni. I Paesi ricchi non devono tentare, mediante l'uso degli strumenti a loro disposizione e in particolare la moderna tecnologia spaziale, di imporre la loro cultura alle nazioni più povere».

SULLE ORME DI COLOMBO

Il 12 ottobre 1984, tradizionale Columbus Day per gli Stati Uniti, il Papa è ancora una volta in America Latina per un viaggio-lampo di ventiquattr'ore a Porto Rico e Santo Domingo, così commentato dall'arcivescovo di Medellín, cardinale Alfonso Lopez Trujillo: «L'immenso sforzo del Papa per recarsi all'appuntamento di Santo Domingo ha un profondo significato: l'inaugurazione del novenario di anni in preparazione alle celebrazioni dei cinque secoli dell'evangelizzazione del Nuovo Mondo, iniziati esattamente con la scoperta dell'America... Due sono stati i momenti centrali della sua visita: la celebrazione eucaristica, l'11 ottobre, giorno del suo arrivo, all'Ippodromo, e il discorso pronunciato nello Stadio, il ottobre, festa della fratellanza ibero-americana, il Giorno della Raza, come esso viene chiamato in America Latina, nel quale egli ha offerto il messaggio centrale... Il Papa, come un nuovo Colombo, ha spiegato le vele verso il continente della speranza, nel quale vivono quasi la metà dei cattolici del mondo». «Una certa leggenda negra - ha detto il Papa - che per un certo tempo orientò non pochi studi storiografici, concentrava prevalentemente l'attenzione su aspetti di violenza e di sfruttamento che si verificarono nella società civile durante la fase successiva alla scoperta. Pregiudizi politici, ideologici ed anche religiosi hanno voluto presentare solo negativamente la storia della Chiesa in questo continente. La Chiesa, per ciò che la riguarda, vuole accostarsi alla celebrazione di questo centenario con l'umiltà della verità, senza trionfalismi né falsi pudori; tenendo solamente alla verità, per ringraziare Dio dei successi e per trarre dagli errori i motivi per proiettarsi rinnovata nel futuro. Essa non vuole disconoscere l'interdipendenza che ci fu tra la croce e la spada nelle prime fasi della penetrazione missionaria. Ma non vuole neanche dimenticare che l'espansione della cristianità iberica portò ai nuovi popoli il dono insito nelle origini e nella gestazione dell'Europa - la fede cristiana - con la sua carica di umanità e con la sua capacità di salvezza, di dignità e di fraternità, di giustizia e di amore per il Nuovo Mondo».

A MILANO PER SAN CARLO

Il 4 novembre, festa di San Carlo Borromeo e suo onomastico, Papa Wojtyla lo va a celebrare in Lombardia, sui luoghi stessi del Santo, ad Arona e a Milano (anche se Arona è amministrativamente in Piemonte). Nelle diverse tappe del nuovo viaggio pastorale italiano, Giovanni Paolo II pronuncia diciassette discorsi: al Sacro Monte di Varese (dove l'aspetta un altro illustre Carlo, il cardinale arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini), al Collegio Borromeo di Pavia, al Sacro Monte di Varallo, oltre che, appunto, a Milano e ad Arona. Commenta lo scrittore Giovanni Testori: «Contrariamente a quanto sta accadendo a certa positivistica festaiolità cristiana, che ama ritenersi per l'unica e sola espressione attuale della cattolicità, anche quand'è solo prona servitù alla più demente violenza mondana, la forza di vita che sa assumere dentro le proprie braccia tutti i settori dell'esistenza e della conoscenza e che riesce a dar loro una propulsione integra e reale (non compromessa e ipotetica) verso il futuro, viene dalla coscienza di lei, la morte; di lei, la fine; e della totale resurrezione e liberazione che, tramite la Grazia, all'uomo può venire e derivare. In questi diciassette discorsi, il futuro è inteso in tutta la sua potenzialità di splendore e di progresso, ma altresì in tutta la sua correlata possibilità di regresso e di tenebra; fino, appunto, al rischio dell'umana, totale estinzione; prefigurata forse, o, comunque, annunciata, dalle terribili distruzioni, e pesti, che sono gli armamenti atomici, la droga, l'illibertà coperta da ragioni socialmente rivoluzionarie e la fame». Così Testori, con furore barocco e apocalittico; e sarebbe davvero interessante sapere che cosa ne pensa il Papa.

LA PRIMA VOLTA NEL PERÙ

L'anno 1985 si apre con un nuovo viaggio in America Latina, dove, come ha osservato il cardinale Trujillo, vive circa la metà di tutti i cattolici del mondo. Questa volta la meta del Papa è il Perù; le tappe: Lima-Callao, Arequipa, Cuzco, Ayacucho, Piura, Trujillo e Iquito. Il Santo Padre, che vi si reca per la prima volta, atterra all'aeroporto di Caracas, nel Venezuela, il 26 gennaio. All'episcopato venezuelano ricorda il primo vescovo del Paese, Rodrigo de Bastidas, consacrato nel 1532, e poi altri gloriosi esponenti della Chiesa locale, dal dotto fra Pedro de Agreda (1561-1579) al vescovo itinerante Mariano Matti (1770-1792), civilizzatore e fondatore di paesi, nonché il primo cardinale venezuelano José Humberto Quintero. «Il vostro Paese - soggiunge - possiede abbondanti ricchezze, e questo non impedisce che vi siano ampi strati sociali soggetti alla povertà e perfino alla miseria estrema. So che giustamente vi preoccupa questa situazione precaria di tanti venezuelani, che denuncia una cattiva distribuzione delle risorse della società», ed esorta i vescovi a un forte impegno sociale. Le tappe successive vedono Giovanni Paolo II atterrare in Ecuador il 29 gennaio, parlare a Quito il 30 (e lo stesso giorno, alla Radio Católica Nacional), quindi agli indios, a Latacunga, il giorno seguente («Pai Apuchic Jesucristo yupaichashca cachun! Cuyashca churicuna, ushushicuna») e infine a Lima il 2 febbraio. È il ventiduesimo pellegrinaggio apostolico del Santo Padre, e sesto in America Latina, nei settantacinque mesi del suo pontificato. Commenta - su «La Traccia» - Francesco Ricci: «Come coloro che piantarono la prima croce di Cristo nelle terre e nei cuori del Nuovo Mondo... Pietro ha incontrato negli uomini di laggiù il desiderio di Dio e il desiderio di pane. Al primo ha offerto l'annuncio di Cristo nella realtà della sua verità e della sua bellezza; al secondo ha indicato le vie della giustizia e della libertà da percorrere nella sequela di Cristo e nella fedeltà all'uomo. La domanda di Cristo e la domanda di pane si sono fatte ancora una volta la stessa unica domanda», e su questo sarebbe davvero interessante sentire cosa ne pensano i diretti interessati, cioè gli affamati di quei Paesi, e di tutti gli altri Paesi del mondo. Il Papa lascia il Perù il 5 febbraio.

A TUTTI I GIOVANI DEL MONDO

In marzo, per la ricorrenza dell'Anno della Gioventù, il papa indirizza a tutta la gioventù del mondo una Lettera apostolica in cui ricorda che il più intenso colloquio del Cristo con un giovane è quello col giovane ricco rievocato in Marco, 10, 20 e seguenti: «Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: Una sola cosa ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nel cielo. Poi, vieni e seguimi». Ma il giovane ricco non volle seguire Gesù, anzi, se ne andò rattristato, poiché aveva molti beni. Giovanni Paolo II suggerisce che la giovinezza stessa costituisca «una singolare ricchezza dell'uomo». Questa l'aveva condotto a Gesù; l'attaccamento ai beni terreni lo stacca da lui. «L'interrogativo sul valore, l'interrogativo sul senso della vita - incalza il Papa - fa parte della ricchezza singolare della giovinezza». Ai giovani parlerà ancora con particolare intensità durante il pellegrinaggio in Belgio, in Olanda e nel Lussemburgo (maggio 1985). Ai giovani del granducato dice, il 16 maggio: «In rappresentanza di tanti altri voi menzionate Willibrordo, Francesco d'Assisi, la religiosa sconosciuta, il missionario lontano. Sono essi che in voi tengono desto il sogno di un mondo migliore». San Willibrordo, fondatore di un'abbazia a Echternach nell'anno 698, è il fondatore della Chiesa neerlandese. E ripete loro il messaggio contenuto nella Lettera pastorale: «Con il giovane del Vangelo, non esitate a porre al Maestro la domanda: Cosa devo fare per ottenere la vita eterna?», nonostante il triste finale di quel misterioso episodio.

IL SINODO STRAORDINARIO: NOVEMBRE 1985

In luglio Giovanni Paolo II promulga l'importantissima lettera enciclica «Slavorum Apostoli», sui Santi fratelli Cirillo e Metodio che nel IX secolo evangelizzarono i popoli slavi, dando loro anche l'attuale alfabeto che infatti ha preso il nome di «cirillico». L'8 agosto poi il Papa ritorna in Africa, a Lomé (Togo), in Costa d'Avorio, nel Camerun, nella Repubblica Centrafricana e nello Zaire, concludendo il lungo tour nella capitale del Kenya dove partecipa alla chiusura del Congresso eucaristico nazionale il giorno 18. In settembre è la volta del piccolo principato del Liechtenstein (dove il Papa si rivolge ancora ai giovani, a Schaan Dux), e infine, in novembre, inaugura solennemente il Sinodo straordinario dei Vescovi di tutto il mondo che si riuniscono a Roma per consultarsi su diversi problemi della Chiesa, primo fra tutti quello della riforma della Curia romana stessa. I partecipanti sono 217, fra gli uditori c'è anche Madre Teresa di Calcutta, la piccola suora jugoslava che svolge il suo apostolato tra i poveri della metropoli indiana. Secondo la stampa laica, incombe sulle speranze dei cattolici la minaccia di una restaurazione autoritaria e di una sorta di «revisione» di quelle che furono le più audaci aperture conciliari del Vaticano II. L'entourage del Papa lo nega con decisione, anche se si ammette che «venti di discordia dividono i vescovi». Sdrammatizza un poco il clima l'ex presidente della Repubblica, Sandro Pertini, il socialista amico del Papa; interrogato ad Alessandria da due giornalisti, riferisce questo aneddoto di sacra gastronomia: «Dunque, siamo a Castelporziano, non al Quirinale perché Craxi non aveva ancora firmato il nuovo Concordato. Arriva il risotto ai frutti di mare e il Papa gradisce; poi le scaloppine al marsala, e il Papa gradisce ancora. Al dessert, gelato alla panna montata, esclama: Ma come ha fatto a scoprire il mio menù preferito? Santità, gli ho risposto, mi è bastato far consultare il suo cuoco».