PREFAZIONE
Questa parte della storia
di Karol Wojtyla abbraccia i primi due anni del suo ministero di Papa. Il
lettore vi troverà molti fatti, molte immagini che già conosce,
per aver potuto seguire i principali avvenimenti che hanno caratterizzato questo
tempo e che il mezzo televisivo ha reso compresenti, portandoli spesso in tutte
le case. E tuttavia non vi è dubbio che la panoramica globale qui
raccolta nel testo e nelle illustrazioni tornerà gradita a tutti coloro -
e sono moltitudini - che seguono con interesse e con partecipazione
l'attività del Papa polacco.
Due elementi colpiscono particolarmente
le folle non meno delle singole persone: questo Papa possiede ed esterna una
singolare comprensione simpatia per i suoi simili, quali non è frequente
incontrare in un uomo carico di tante responsabilità; ed inoltre questo
Papa moltiplica i suoi spostamenti per accostare da vicino il numero più
grande possibile di persone che non sono in grado di raggiungerlo nella sua
sede.
C'è da chiedersi da dove traggano origine queste due
caratteristiche che tra le molte sue doti sembrano le più appariscenti e
sono senza dubbio la ragione immediata della sua profonda e universale
popolarità.
La risposta si deve cercare nel modo personale con il
quale Papa Wojtyla ha ritenuto fin da principio di sviluppare le linee di
apostolato indicate dai suoi immediati predecessori.
Egli sente il papato
come una testimonianza da rendere a Gesù Cristo, che agli apostoli disse:
«andate nel mondo universo... insegnate loro tutto ciò che vi ho
detto». I tempi domandano che il Papa torni a farsi pellegrino come gli
apostoli, percorra le vie del mondo predicando il Vangelo, raggiunga i suoi
fratelli vescovi nelle loro postazioni di lavoro apostolico per confermarli
secondo il mandato di Cristo.
Testimone e pellegrino, egli dimostra di non
volere lasciare nessuno senza il bene che gli compete. È dunque un concetto di
condivisione quello che muove il suo zelo a non darsi requie tutte le volte che
gli è possibile ricevere visitatori che cercano la sua parola e la sua
sicurezza, tutte le volte che può raggiungere comunità che sa in
attesa delle sue direttive e del suo conforto.
Non è la prima volta
che intorno al Papa si raccolgono folle sterminate a pregare, ad ascoltare, a
confermare e ravvivare una fede già radicata e discesa dai padri. Paolo
VI scaglionò nel suo pontificato una serie di viaggi memorabili con i
quali diede praticamente avvio a questa forma di apostolato che è nuova
per i tempi moderni e che è autentico ritorno alle origini. Giovanni
Paolo II, seguendone le tracce ha, tuttavia dato prova di volere intensificare
la frequenza di questi incontri, così da renderli quasi l'abituale
attività del Papa. Le illustrazioni di questo volume ce lo mostrano tra
le popolazioni di vari centri religiosi italiani ma ancor più tra le
folle del Messico, della sua terra di Polonia, dell'Irlanda, degli Stati Uniti
d'America, dell'Africa, della Francia, del Brasile.
Egli parla di Cristo e
della sua madre Maria. Ma in nome di Cristo egli parla dell'uomo. L'Enciclica
programmatica del suo pontificato parla di Cristo e dell'uomo già nelle
prime due parole con cui si apre: «Redemptor Hominis» «Il
Redentore dell'uomo». La chiesa che egli guida visibilmente come capo, come
vicario di Cristo, come successore di Pietro, deve essere interamente a servizio
dell'uomo, della sua dignità, della sua integrità, della sua
vocazione. Ciò significa portare all'uomo una certezza di vita eterna, ma
nello stesso tempo una speranza nuova di vita nel tempo, nella pace e
nell'equilibrio delle persone e delle comunità. Per questo, dopo l'uomo,
nel suo insegnamento viene la famiglia, dopo la famiglia la comunità dei
popoli, il rispetto e l'aiuto che da tutti deve essere portato a
ciascuno.
Lo capiscono i giovani, che in ogni circostanza gli si affollano
intorno e frequentemente intrecciano con lui un dialogo pieno di vita; lo
capiscono i poveri dei paesi emergenti, i lavoratori delle società
sviluppate, i malati e i sofferenti di ogni latitudine. Lo ascoltano i
sacerdoti, i religiosi, le religiose, i missionari ai quali sempre dedica una
particolare attenzione. Lo capiscono gli uomini di cultura ai quali giunge di
frequente un suo messaggio originale tendente al ricupero di tutti i valori
umani e alla loro fioritura nel livello più alto, il livello religioso.
Sono attenti alla sua azione i cristiani che le vicende della storia hanno
diviso in diverse denominazioni. E dunque tutto il popolo di Dio della Chiesa
cattolica romana a gioire oggi della sua intensa attività di pastore; ma
sono anche i fratelli separati, sono gli uomini di buona volontà di ogni
credenza, sono i cultori della giustizia e della pace a trovarsi in sintonia con
lo spirito della sua azione e del suo messaggio.
Due anni di pontificato
hanno già lasciato una traccia profonda in questo nostro tempo
così drammatico e spaurito, così bisognoso di speranze e di
certezze.
Questo libro è documentazione ricca e approfondita, anche
se necessariamente non completa, di ciò che i due anni hanno significato
per la Chiesa e per il mondo a motivo del pontificato di Papa Wojtyla. Il
lettore ne sarà grato ai curatori e agli editori come per un dono
destinato a portare luce e serenità nel suo spirito e a stimolare nel
profondo del suo essere ogni nascosta sorgente di bene.
Virginio
Levi
Vicedirettore dell'Osservatore Romano
Città del
Vaticano, 4 Ottobre 1980
L'ATTESA DI ROMA
Nel tardo pomeriggio di lunedì 16 ottobre
la folla radunata in piazza San Pietro immersa nel caratteristico tramonto
romano, accolse con trepidazione il pennacchio di fumo bianco che usciva
prepotente dal sottile tubo di lamiera eretto sul tetto della Cappella Sistina.
Molti, per la verità, avevano ritenuto che l'elezione del Papa potesse
verificarsi la sera avanti, domenica; che i centoundici cardinali chiusisi in
conclave nelle prime ore pomeridiane di sabato ripetessero la sorpresa
dell'agosto, quando il patriarca di Venezia Albino Luciani aveva superato il
numero dei voti necessari all'elezione dopo appena quattro scrutini, da mattina
a sera. La delusione s'era accresciuta a mezzogiorno di lunedì dinanzi
alla terza fumata nera, anche se più di un cardinale aveva pubblicamente
pronosticato che per dare un successore a Giovanni Paolo I sarebbero stati
necessari dai due ai tre giorni.
La previsione era dettata in parte dalla
ripetizione a breve scadenza del conclave determinata dalla repentina scomparsa
di Luciani, in parte dal desiderio di mostrare al mondo l'unione del collegio
cardinalizio. I porporati non avevano più bisogno, per conoscersi, di
studiare le reciproche stringate biografie fornite loro dal Vaticano in agosto o
di approfondire i bisogni della Chiesa. Ne avevano discusso a lungo nel corso
della preparazione del precedente conclave e i trentatré giorni del
pontificato Luciani avevano lasciato insoluti i problemi. L'unico elemento nuovo
era rappresentato dalla comune volontà degli elettori di documentare la
fraternità esistente tra uomini provenienti da ogni angolo della terra,
diversi per cultura, costumi, nazione e colore di pelle.
I cardinali non
avevano dimenticato con quale favorevolissima eco l'opinione pubblica mondiale
aveva accolto la rapida elezione di Luciani e come essi stessi ne avessero
gioito per il suo valore e significato. «Visto come siamo stati bravi? È
un esempio di unanimità che va meditato», aveva dichiarato
all'indomani il cardinale Sergio Pignedoli. A sua volta l'arcivescovo di
Firenze, Giovanni Benelli, rievocando l'intesa subito raggiunta all'interno
della Sistina, aveva ricordato: «Un cardinale che mi sedeva vicino ad un
certo punto ha detto: sembra che si sia usciti tutti dallo stesso
seminario».
Non è escluso, quindi, come qualcuno degli elettori
più tardi farà capire, che la presenza della folla in piazza San
Pietro negli orari previsti per il termine degli scrutini - una presenza
osservata dai cardinali attraverso le fessure delle finestre, meno sigillate di
quanto prescrivesse il regolamento e di quanto era avvenuto in agosto
perché unanime era stata la richiesta di non essere sottoposti a minuzie
rispondenti ad un contesto d'altra epoca - abbia contribuito a far sì che
alle 18,45 di lunedì il fumo del comignolo della Sistina fosse
inequivocabilmente bianco. Restava però da sapere quale annuncio avrebbe
dato il cardinale Pericle Felici dal balcone centrale della Basilica.
Sulla
piazza gremita, tutta gente che aveva visto il fumo bianco come una bandiera di
pace sventolare in cielo, presero a scendere lenti i minuti nell'ansia di
conoscere il nome dell'eletto. Le congetture si intrecciavano, le previsioni
fiorivano mentre da tutti i quartieri di Roma a piedi, in macchina, con i mezzi
pubblici, fedeli e curiosi accorrevano verso San Pietro per essere presenti
all'evento, ricevere la prima benedizione del nuovo papa. ln breve tempo fu
densa più di un formicaio la piazza con tutte le strade adiacenti e il
tramonto fu ingoiato da una sera stellata avanti che si aprisse la vetrata del
lungo balcone sopra l'immenso portale della Basilica e, inquadrato dalle luci
delle fotoelettriche, apparisse il cardinale, rivestito degli abiti liturgici a
dare l'annuncio.
IL NOME SCONOSCIUTO
Felici è un cardinale nato in Ciociaria, un
romano ricco di umori, cui era toccato in qualità di protodiacono di
proclamare la nascita di Giovanni Paolo I. Secondo indiscrezioni successivamente
smentite, Felici aveva in animo di aggiungere alla tradizionale formula
dell'habemus Papam un augurio di lunga vita all'eletto. Ma fosse vera o no
l'intenzione, certo rimase trasecolato quando, pronunciato il nome, la folla non
esplose nell'usuale applauso. Anzi il silenzio, lo sconcerto, quasi una folata
gelida, che aveva accolto il nome di Carolum, cui Felici fece seguire una pausa
- preoccupato, spiegherà poi, per l'esatta pronuncia polacca di Wojtyla -
divenne tanto imbarazzante da indurre il cardinale ad aggiungere con sveltezza
che il nuovo Pontefice si sarebbe chiamato Giovanni Paolo II. E il gelo si
stemperò.
La perplessità calata sulla folla per un nome
sconosciuto, del quale si ignorava la nazionalità - in un primo momento
alcuni credettero persino che si trattasse di un uomo di colore - fu cancellata
appena il Papa apparve sulla loggia centrale di San Pietro. Nell'ora trascorsa
tra l'annuncio e l'apparizione l'edizione straordinaria dell'«Osservatore
Romano» distribuita nella piazza aveva permesso a molti di apprendere i
dati essenziali di Giovanni Paolo II, e lo stupore per l'elezione di uno
straniero, dopo quattro secoli e mezzo di una ininterrotta fila di papi
italiani, di un uomo di 58 anni, per di più inesperto della curia romana
- proprio il contrario della ideale fisionomia abbozzata dagli elettori
nell'entrare in conclave: un italiano, non tanto giovane, pratico del governo
mondiale della Chiesa - s'era andata attenuando. Sbiadì ancora di
più al cospetto dell'uomo scelto: la sua atletica, nerboruta figura
s'imponeva, anche se dava l'impressione di essere più uno sportivo e un
uomo di azione che il nuovo «santo padre» dell'umanità. C'era
qualcosa di moderno, di svecchiato, in lui, che comunicava ardore. E ancora, il
disinvolto gesto con cui l'uomo dall'abito bianco appoggiò le grandi,
pesanti mani sulla balaustra del balcone, quasi a prenderne materialmente
possesso. Note di incisività, di coraggio, di chiarezza.
PERSONALITÀ PROROMPENTE
Non era mai avvenuto che un Papa si presentasse al
popolo, alle migliaia di persone raccolte entro l'emiciclo berniniano il giorno
dell'elezione e al mondo collegato attraverso gli schermi televisivi, con tanta
prorompente personalità. Di solito, il cardinale che ha appena scambiato
le sue vesti rosse con quelle bianche appare schiacciato dal peso del
pontificato impostogli: l'emozione e la tradizione lo inducono soltanto a
leggere la formula della benedizione urbi et orbi e a tracciarne il gesto. Non
era mai accaduto che un Papa ai suoi primi istanti di pontificato prendesse la
parola, si rivolgesse alla folla improvvisando un discorso.
Una delle
preoccupazioni dei cardinali in conclave, i quali il mattino di lunedì,
constatando l'impossibilità di superare gli incrociati veti alle
candidature di due italiani, avevano preso a scrivere sulle schede il nome di
Wojtyla con la penna dall'involucro bianco e rosso fornita dall'organizzazione
vaticana, riguardava appunto la reazione dei fedeli. Come avrebbero accolta la
rottura della tradizione secolare? Non sarebbe stato più opportuno
procedere ad una soluzione di compromesso facendo cadere i suffragi su uno
straniero vissuto a Roma? Interrogativi che non bloccarono il coagularsi di una
forte maggioranza di voti intorno al cardinale di Cracovia.
Era inevitabile
perciò che Giovanni Paolo II si studiasse di creare simpatia intorno a
sé, e scegliesse il metodo diretto: presentarsi alla folla. Lui stesso in
seguito lo confesserà. «Nel recinto del conclave - ebbe a dire -
dopo l'elezione, pensavo: che cosa dirò ai romani quando mi
presenterò dinanzi ad essi come il loro vescovo, provenendo da un paese
lontano, dalla Polonia? Mi è venuta allora in mente la figura di San
Pietro. Ed ho pensato così. Quasi duemila anni fa anche i vostri avi
hanno accettato un Nuovo Venuto, adesso quindi voi pure accoglierete un altro;
accoglierete anche Giovanni Paolo II, come avete accolto una volta Pietro di
Galilea».
Ancora lui non poteva sapere che il suo «Sia lodato
Gesù Cristo», la tradizionale invocazione che sembrava scomparsa dal
linguaggio degli ecclesiastici, almeno occidentali, con cui cominciò a
dare conto della scelta dei cardinali, chiamati «reverendissimi»
invece che «eminentissimi»; il timore di non sapersi spiegare bene in
italiano e l'invito, eventualmente, a correggerlo, dovevano immediatamente
affascinare per la semplicità e la schiettezza. Poche parole ben dosate,
con giuste pause, per comprarsi un popolo che subito lo ripagò con amore,
quasi si sentisse colpevole di non averlo conosciuto e cercato
prima.
LO CHAMPAGNE DI GIOVANNI PAOLO II
Un iniziale impatto che tuttavia non permetteva di
andare al di là dell'apparenza, di superare il fatto che era appena nato
Giovanni Paolo II. Neppure i cardinali potevano sapere a quale tipo di
pontificato egli avrebbe dato vita. Anche per loro era uno sconosciuto, tanto
che, pur desiderando mettere subito termine alla scomodissima clausura - tra
l'altro dovevano fare la fila per l'uso del bagno - non ebbero l'ardire di
chiederlo al nuovo Pontefice e si adattarono a trascorrere un'altra notte nel
chiuso del recinto, nelle improvvisate «celle». Notarono soltanto,
recandosi a cena nel refettorio comune allogato all'interno del famoso e fastoso
appartamento Borgia, che al momento del brindisi con champagne, Wojtyla non si
limitò ad alzare il bicchiere. Si levò dal posto che tre giorni
prima gli era stato assegnato in ordine di decananza, e che era tornato ad
occupare come se nel frattempo nulla fosse accaduto, per salutare uno ad uno i
suoi elettori, far tintinnare il proprio bicchiere con quelli altrui. Un gesto
di umile cortesia che a detta del cardinale belga Leo Suenens piacque
moltissimo, cui seguì il mattino successivo, ancora a conclave chiuso
agli estranei, un messaggio che lasciava trasparire anche un aspetto della
personalità dell'eletto, oltre alla sua ribadita affermazione di volere
restare fedele alle linee di rinnovamento della Chiesa decretate dal concilio
Vaticano Secondo.
Tra l'altro nel messaggio egli evitò ogni accenno
alla propria inadeguatezza di fronte al compito affidatogli, e il non
protestarsi inferiore, quasi sentirsi incapace di portare avanti l'esercizio del
pontificato - espressioni talvolta convenzionali che più o meno
marcatamente tutti i suoi predecessori avevano pronunciato - rappresentò
un segno di chiarezza. Realmente Wojtyla rispondeva all'indicazione e
all'intenzione del conclave con «tranquillità interiore»,
immediatamente confermata dalla prima notte di pontificato trascorsa scrivendo
da solo il messaggio da leggere ai cardinali, cioè rifiutando l'aiuto
degli alti prelati della Segreteria di Stato (ai quali è normale
rivolgersi) che sarebbero stati lieti di mettere a sua disposizione la loro
esperienza. E la riprova che il Papa polacco difficilmente si sarebbe fatto
guidare dall'ambiente si ebbe pubblicamente poche ore più tardi, quando
Giovanni Paolo II decise di uscire dal Vaticano.
PRIMA SORTITA
Un tempo, anche dopo che la «questione
romana» era stata risolta con gli accordi del 1929, il nuovo Papa lasciava
i palazzi apostolici solo parecchi giorni dopo l'elezione, per prendere possesso
della Basilica di San Giovanni in Laterano, la sede del vescovo di Roma. Nel
Paolo VI aveva rotto la tradizione per visitare un cardinale spagnolo
uscito infermo dal conclave. Una sollecitudine più che giustificata, che
era al tempo stesso un omaggio alla Chiesa spagnola e all'intero collegio
cardinalizio. Peraltro il gesto era stato preannunciato alle autorità
italiane, le quali avevano disposto l'opportuno servizio d'ordine.
Papa
Wojtyla invece manifestò improvvisamente il desiderio di visitare il
polacco monsignor Andrzej Deskur, un amico personale ricoverato al Policlinico
Gemelli per una trombosi cerebrale che lo aveva colpito il giorno prima del
conclave. Come se fosse cosa normale per un Papa abbandonare di punto in bianco
i suoi appartamenti e mettersi a girare per Roma, il segretario di Wojtyla padre
Stanislaw Dziwisz (un giovane, biondo religioso che già svolgeva la
medesima funzione a Cracovia) telefonò all'autorimessa vaticana chiedendo
la vettura del pontefice. E immediatamente l'ottenne. Papa e segretario, ambedue
inesperti dei luoghi, delle stanze, delle scale e scalette, infilarono un
corridoio, oltrepassarono la porta giusta e presero un'ascensore comune,
anziché quello «nobile» esclusivamente riservato ai pontefici,
scendo in un cortile diverso da quello in cui attendeva
l'automobile.
L'inaspettata presenza di Giovanni Paolo II nell'ospedale
elettrizzò degenti e personale medico al punto che neppure l'affannoso
accorrere di polizia, carabinieri, uomini della Digos e dell'antiterrorismo,
persone in divisa e in borghese che si contendevano tra loro e con i membri del
corpo di vigilanza del Vaticano la salvaguardia del visitatore, riuscì ad
evitare la ressa.
Lo stesso Papa fu sballottato con tale violenza da
spingerlo a dire, nel discorso rivolto agli ammalati, di aver rischiato
«per sovrabbondanza d'affetto di restare io stesso dentro questo
ospedale». Accenno dal tono esplicitamente ironico, che successivamente si
scoprì essere una costante di Papa Wojtyla, piuttosto restio nel
manifestare i propri sentimenti, il quale se ne serve anche nei confronti di se
stesso. Infatti aveva appena terminato di parlare, quando, avvertito da un
prelato, aggiunse: «Scusate, mi hanno ricordato che devo darvi la
benedizione».
CONFERENZA - STAMPA
L'episodio dimostrò la simpatia già
conquistata dal Papa «straniero» ed in particolare la disinvoltura con
cui il cardinale di Cracovia aveva indossato le vesti bianche. Ne fu certa
soprattutto la moltitudine di giornalisti che aveva seguito le fasi del
conclave, ai quali l'eletto volle dedicare una delle prime udienze collettive.
All'inizio l'incontro s'era snodato secondo i ritmi usuali; da una parte il Papa
non s'era discostato dai moniti che in simili occasioni i nuovi pontefici
sogliono impartire agli operatori delle comunicazioni sociali, sia pure
alternando all'approvazione per il lavoro compiuto inviti a fare meglio e con
maggiore profondità; dall'altra una platea di occhi attenta e maliziosa
per formarsi una opinione personale del personaggio chiamato a governare la
Chiesa. Poi, terminato il discorso, una volta alzatosi dalla poltrona papale
entro cui era stato costretto a rannicchiarsi per via di una corporatura che
davvero non poteva essere paragonata all'esilità di Montini e di Luciani,
Giovanni Paolo II s'era infischiato delle garbate pressioni dei monsignori a lui
vicini perché lasciasse in fretta l'aula. Tranquillamente aveva diretto i
passi verso i giornalisti, accalcati in doppie, triplici file al di qua e al di
là delle bancate che dividevano il salone, dando luogo ad una sorta di
conferenza stampa. «Santità, non si sente prigioniero?». E lui
condiscendente, dopo un attimo di perplessità che si rifletté sul
suo volto di slavo, dagli zigomi alti, il naso corto, la carnagione chiara:
«Beh, sono passati pochi giorni. Poi vedremo». «Come si trova in
Vaticano?». «Si può resistere». Botte e risposte, rapidi
dialoghi nelle più disparate lingue, fatti veramente inconsueti per la
ieratica etichetta vaticana, che indicano subito come il nuovo Papa non
sottovaluti l'importanza dei mezzi di informazione ma anziché blandirli o
rifuggirli, li affronti e magari cerchi di catechizzarli, comunque riuscendo ad
utilizzarli per il prestigio del papato e della Chiesa.
Una delle risposte
che in quell'occasione ebbe maggior eco riguardava la possibilità di
tornare in Polonia, a Cracovia: «Sì, se me lo permetteranno»,
disse Giovanni Paolo II, iniziando a pubblicizzare un desiderio che nutriva fin
dalle prime ore successive all'elezione. Non a caso una delle prime telefonate
era stata per il palazzo arcivescovile della sua città. Gli aveva
risposto il vescovo ausiliare Stanislaw Smolelnski, già suo principale
collaboratore. «Pronto - aveva detto Wojtyla - non mi riconosce? Sono il
Papa». Dall'altra parte del filo il presule era rimasto paralizzato
dall'emozione, riuscendo appena a balbettare qualche parola. «Mi saluti
tutti i fratelli carissimi. Dica loro che invio la mia paterna benedizione»
- lo aveva incalzato Giovanni Paolo II - «vi chiamerò ancora. Spero
che la televisione in Polonia dia in diretta la cerimonia dell'incoronazione fra
qualche giorno».
RIPERCUSSIONI POLITICHE
L'incertezza di Papa Wojtyla per le reazioni del
governo di Varsavia, almeno sul piano ufficiale, era giustificata. La svolta
storica operata dai cardinali scegliendo un uomo dell'est, un presule dei paesi
socialisti poteva dare ingresso a contrastanti giudizi. Difatti i grandi organi
di stampa, le radio e le televisioni posero giustamente l'accenno sulla
nazionalità del Pontefice, non soltanto per esaltare il cattolicesimo
polacco, così provato dalla fedeltà a Roma, quanto anche per il
significato politico che vi si annetteva. Alle sottolineature della posizione
anticomunista della Chiesa polacca furono contrapposte opinioni volte a
sostenere che i cardinali elettori avevano voluto rompere la logica dei blocchi,
dando un concreto esempio di apertura. «L'ascesa di un cardinale polacco
sul trono pontificio è la migliore smentita del silenzio della Chiesa nei
paesi socialisti», ebbe a scrivere con evidente intento propagandistico il
settimanale sovietico «Tempi Nuovi», avallando l'atteggiamento assunto
dalle autorità di Varsavia le quali, superata la sorpresa, avevano
manifestato soddisfazione ufficialmente in toni contenuti. Ma una cosa era
l'orgoglio dei Polacchi, che a livello popolare aveva provocato commozione ed
esaltazione e che in privato coinvolgeva anche i vertici del governo e del
partito comunista, altra l'annosa tensione ideologica tra Stato e Chiesa. Uno
degli ostacoli al processo di normalizzazione fra la Chiesa di Polonia e le
autorità comuniste era rappresentato appunto dalla richiesta, sempre
respinta, del libero accesso alla radio e alla televisione per le manifestazioni
religiose.
IL SEGNO DEL POTERE
Il capitolo del dialogo di Roma papale con i paesi
comunisti dell'Europa dell'est, la cui prefazione era stata scritta da Giovanni
XXIII, e che era stato aperto da Paolo VI dando inizio a quella che fu chiamata
l'«Ostpolitik vaticana», segnava il passo In Polonia non s'era
superato lo stadio di una astiosa, precaria convivenza fra regime e Chiesa,
determinata soprattutto dalla granitica compattezza dei cattolici e dalla
necessità per il governo di dover fare appello alla gerarchia
ecclesiastica nei momenti più difficili per invitare il popolo alla
moderazione. Furono necessarie lunghe e complesse trattative fra la televisione
italiana e quella polacca perché la grande cerimonia religiosa
dell'insediamento potesse essere seguita dal vivo dai connazionali di
Wojtyla.
Una cerimonia che fu chiamata di «inaugurazione» del
pontificato anziché di incoronazione o intronizzazione, come già
era avvenuto per l'inizio del governo di Giovanni Paolo I, il quale, seguendo
tutto sommato le indicazioni di Paolo VI (presto disfattosi della triplice
corona regalatagli dai fedeli milanesi), aveva preferito accantonare anche lui
il «triregno». Però Giovanni Paolo II, in un passo del discorso
pronunciato per l'occasione, avvertì che la rinuncia era limitata al
segno esteriore del potere, non al suo esercizio, volendone mantenere l'intimo e
vitale significato. Una dichiarazione rivolta all'interno della Chiesa, mentre
all'esterno invitava ad «aprire, spalancare le porte a Cristo». Fu
questo l'aspetto più rilevante di un rito liturgico spettacolare, tenuto
all'aperto, sul sagrato della Basilica, che aveva preso l'avvio con la lunga
teoria dei cardinali che rendevano omaggio al Papa accolti da lui familiarmente.
Uno dei momenti che fece scattare l'applauso della piazza gremita fino
all'inverosimile fu provocato dall'incontro con il cardinale Stefan Wyszynski,
primate di Polonia. Al bacio dell'anello da parte di Wyszynski, Giovanni Paolo
II replicò con un inchino e il bacio della mano del vecchio cardinale. Al
gesto seguì l'ovazione dei polacchi affluiti a Roma in numero così
cospicuo che le autorità di Varsavia avevano dovuto chiudere un occhio
nella concessione dei visti sui passaporti. Del resto non avrebbero potuto agire
diversamente senza rischiare proteste che sarebbero state subito colte
dall'opinione pubblica mondiale, assai attenta a quel che succedeva in Polonia
dopo l'elezione di Wojtyla, così come dovettero acconciarsi alla
volontà del Papa di sfruttare l'occasione della trasmissione diretta il
più a lungo possibile. Infatti, terminato il rito, peraltro lungo e con
molte pause, Giovanni Paolo II non si congedò: con i paramenti sacri
indosso e il pastorale in mano con cui dava la benedizione, talvolta agitandolo
con forza, lasciò il seggio pontificale e si avviò fra gli
esterrefatti addetti al servizio d'ordine vaticano verso la scalinata che
congiunge il sagrato alla piazza. Era un invito, che i fedeli delle prime file
accolsero con entusiasmo, stringendoglisi intorno, polacchi e
italiani.
POPOLARITÀ CRESCENTE
La spontaneità di Giovanni Paolo II non
poteva non colpire la fantasia e dilatarne la popolarità. Giorno dietro
giorno gli episodi si moltiplicarono. «Dobbiamo chiudere, è il tempo
per il pranzo», disse affacciandosi alla finestra, nel riprendere l'uso dei
predecessori di recitare l'«Angelus» domenicale, per mettere fine agli
interminabili applausi. E il secondo, pubblico, struggente abbraccio a Wyszynski
nel corso dell'udienza di commiato al pellegrinaggio polacco. I due sembrarono
fondersi, annullarsi reciprocamente: il vecchio, diafano cardinale che tentava
insistentemente di inginocchiarsi quasi sparì tra le robuste braccia del
Papa che lo accoglievano e sorreggevano. O il gesto, che poi diverrà
usuale, di levare in alto i bambini tra le mani grandi, forti da antico
guerriero, e di baciarli, magari commentando: «Vedo che non basta un solo
Papa per abbracciare tutti. Il Papa tuttavia è uno solo e non so come
moltiplicarlo». Oppure la corsa a Castel Gandolfo, nella residenza estiva
papale, spinto dalla curiosità di visitare una località ed un
palazzo del quale aveva sentito parlare per anni, che gli fece dire agli
abitanti: «Così sono divenuto un vostro concittadino. Il nostro
primo incontro è molto rumoroso, molto caloroso. Ma spero che sia molto
religioso».
Le cronache furono costrette a parlare di lui, della sua
attività instancabile e imprevedibile, di uscite notturne quasi
clandestine per tornare a trovare l'amico Deskur all'ospedale, del
pellegrinaggio al santuario mariano della Mentorella. «Romani, sapete dove
si trova Mentorella?», chiese una domenica alla fine di ottobre dalla
finestra dello studio. E molti che si accalcavano sotto il palazzo apostolico,
romani e no, non avrebbero davvero saputo rispondere. Mentorella è un
santuario, un eremo posto sui monti Prenestini, a breve distanza dalla
città, quasi del tutto sconosciuto ai medesimi itinerari di fede, che il
cardinale Wojtyla amava visitare ogni qualvolta veniva a Roma. Una chiesetta
affidata a quattro religiosi polacchi che divenne immediatamente nota a folle di
fedeli il giorno in cui il Papa prese l'elicottero per raggiungerla. Prima vi si
recava in macchina fin dove cominciava il sentiero che mena al santuario,
chilometri e chilometri di cammino tutt'altro che agevole. Ma un Papa non
può più comportarsi come uno sconosciuto cardinale. Adesso i
riflettori della pubblicità sono puntati su di lui per studiarne i gesti
più minuti, persino il modo di muoversi, di parlare, oltre a
centellinarne le parole.
I primi a scrutarlo sono i monsignori vaticani che
gli vivono attorno, che ruotano nella sua orbita. Prelati importanti e meno,
religiosi e laici sono tutti curiosi e ansiosi di essere i primi a conoscere le
novità, di penetrare la sua intimità.
LA GIORNATA DEL PAPA
Dall'appartamento pontificio prospiciente le logge
di Raffaello, al terzo piano del palazzo apostolico, la mattina attorno alle
otto non si spande l'odore del caffélatte ma il sottile aroma delle uova
fritte, del prosciutto, del pane tostato. A servire il Papa sono tre suore
polacche dell'istituto di San Stanislao, che ha sede in via delle Botteghe
Oscure, quasi a gomito con la sede della direzione del PCI. Giovanni Paolo II
è mattiniero, si alza alle cinque, e dopo due ore, impiegate in preghiere
e meditazioni, celebra la messa nella cappella privata per sé e per le
suore. Una breve passeggiata sul terrazzo che fu costruito per Paolo VI, da cui
si domina Roma, rappresenta il giornaliero esercizio fisico.
Alle otto e
trenta Wojtyla si misura con la lettura di giornali, di dossier, di dispacci, di
relazioni, di petizioni. È una lettura veloce in virtù della buona
memoria e di una eccellente vista: è il primo Papa, tra quanti se ne
ricordano, a non aver bisogno di occhiali.Il pranzo arriva alle tredici, e non
è mai consumato in solitudine. Il pomeriggio non è poi tanto
diverso dal mattino. A differenza dei suoi predecessori, che si riservavano le
ore pomeridiane per se stessi, Papa Wojtyla sconvolge le abitudini vaticane
continuando a dare udienza. Le luci dell'appartamento privato si spengono alle
dopo un pasto frugale consumato, come il pranzo, spesso in compagnia. Dalla
giornata restano esclusi gli sports, le scalate in montagna, lo sci, la canoa;
le parentesi di libertà che un Papa non può prendersi, anche se
è giovane e sano.
C'è un mondo che lo guarda, una opinione
pubblica che vorrebbe immediatamente rendersi conto di quale Papa le hanno dato,
se non altro perché ogni pontificato prende le sembianze dell'uomo che lo
impersona. E non basta sapere ciò che è stato, conoscere le sue
passate esperienze, i libri scritti, gli interventi in concilio o nei sinodi
episcopali. Questo rappresenta l'ieri, costituisce una base per giudicare il
passato, neanche tanto sicura, giacché il papato, le grandi
responsabilità assunte, modificano, maturano, consumano, fanno rivedere
opinioni. Già Wojtyla non è più l'uomo di poche parole,
schivo, modesto che si vedeva incontrandolo da cardinale: insieme con le nuovi
vesti pare aver acquistato la certezza di poter garantire la leadership della
Chiesa. Una leadership perseguita in altre forme pure da Paolo VI, il quale nei
primi giorni di pontificato confessava ad un cardinale di puntare al raddoppio
del numero dei cattolici. Ma Montini, divenuto papa con un concilio appena
avviato e l'impegno di condurlo a termine, tormentato dalla crisi ideologica e
disciplinare che l'evento aveva provocato nella Chiesa, subiva coi suoi
tentennamenti il peso di portare sulle spalle l'eredità di duemila anni
di pontificato: mancava dell'ottimismo, della felicità di vivere che
promana da Giovanni Paolo II, il quale, ignorandole, sconvolge le costumanze
vaticane, ascolta tutti evitando di dare risposte salvo non siano richiami
all'ordine rivolti alle varie componenti della Chiesa. E nel frattempo si studia
di allargare i consensi.
IL CATECHISMO DEL PAPA
Le udienze generali continuavano ad essere
così affollate da colmare sia le navate di San Pietro, sia la grande aula
fatta costruire da Paolo VI. Ed ogni volta, la difficoltà di vederlo da
vicino, poiché Wojtyla aveva rifiutato la sedia gestatoria, adoperata da
Montini per l'artrosi che gli impediva di muoversi agilmente. Per venire a capo
del problema, gli addetti alle udienze furono costretti a mettere in atto un
marchingegno: una pedana mobile che rendesse visibile il Papa da ogni angolo,
anche il più lontano. Ma la pedana non poteva risolvere tutti i problemi,
limitava non annullava la calca, che un giorno fece dire a Giovanni Paolo II:
«Quanto chiasso. Mi date la parola»?. E ottenuto un relativo silenzio
proseguì: «Quando sento questo chiasso penso sempre a San Pietro che
si trova qui sotto. Non so se questo chiasso gli farà piacere, ma io
penso che sia contento».
In questi incontri settimanali il Papa
riprese, in tono meno disarmante, il discorso catechistico iniziato da Luciani.
La sua voce non è ascetica come quella di Pio XII, non ha la melodiosa
risonanza di Giovanni XXIII, non è sofferta come quella di Paolo VI, non
è indulgente come quella di Giovanni Paolo I: è incisiva, sicura,
gradevole, di un uomo che conosce l'uomo, debolezze e grandezze; di chi non ha
cercato il comando, ma ricevutolo, ne usa. Con garbo, s'intende.
La
vivacissima accoglienza di circa tredicimila suore ricevute in Vaticano gli fece
dire: «Pensavo che le suore fossero gente alla buona. Invece fanno tanto
rumore: è gente energica che vuole distruggere il Papa o almeno la sua
sottana». Ma a queste parole di buon umore fece poi seguire un discorso in
cui non mancavano i richiami alla disciplina. Subito dopo il primo Natale,
trascorso a Roma senza dimenticare, nell'intimità, nessuna delle usanze
polacche e negli addobbi e nei cibi (lui stesso lo confesserà ai fedeli:
«Voglio assicurarvi che questa prima vigilia di Natale del Papa si è
svolta a Roma come tutte le volte a Cracovia; dunque tutto prosegue per adesso
nel migliore dei modi»), il Papa non esitò a rimproverare i vescovi
che mandavano i pellegrinaggi delle loro diocesi senza guidarli
personalmente.
Nelle udienze generali del mercoledì i vescovi che
sono a capo dei gruppi, i cui nomi fanno parte di una lista comunicata in
anticipo al Papa, vengono fatti sedere accanto alla poltrona papale. Quel giorno
ne mancavano parecchi e Papa Wojtyla ne fece rimarcare l'assenza. «Si vede
- soggiunse - che i vescovi debbono stare a casa durante le feste di Natale e
devono sorvegliare il presepe». Si trattò non di una tiratina
d'orecchie, ma della riaffermazione del principio d'autorità che
cominciava ad emergere nitidamente e che, conseguentemente, provocava allarmi
al'interno della Chiesa, o meglio tra coloro che ancora non avevano capito come
il suo passo da montanaro si adattasse perfettamente ad un uomo fornito di una
dura volontà, in certe cose addirittura granitica. Lo si comprese con il
primo grande viaggio fuori d'Italia, in Messico.
PELLEGRINO APOSTOLICO
Uno dei problemi che Paolo VI aveva lasciato in
eredità a Giovanni Paolo I e questi, a sua volta, a Papa Wojtyla
riguardava la conferenza generale dell'episcopato latino-americano da tenersi
nella cittadina messicana di Puebla. L'assemblea era stata convocata da Montini,
il quale nel 1968 s'era recato in Colombia appunto per inaugurare una identica
manifestazione, quella che aveva attribuito alle Chiese latino-americane un
nuovo ruolo nel continente. Il 1968 era stato l'anno in cui la contestazione,
esplosa a catena in ogni settore, anche in campo religioso, dilagava in tutto il
mondo, lacerando di volta in volta antichi equilibri.
Per l'America Latina
il castrismo, oramai consolidatosi a Cuba, cui facevano riscontro il
«golpismo» delle destre militari e la sopraffazione di ristretti
gruppi, sollecitava gli episcopati - incitati da quanto avevano appreso nel
concilio Vaticano Secondo e dalla montiniana enciclica Populorum progressio - a
prendere posizione. Quale? Per gli studenti latino-americani non v'era solo
l'esempio di Ché Guevara, che poteva mettere termine all'antico
squilibrio tra i tassi di aumento della popolazione e il debole ritmo di
sviluppo della produzione. Sull'altro lato dello stesso crinale si ergeva la
figura di Camilo Torres, il sacerdote colombiano che aveva buttato la tonaca
alle ortiche ed era morto imbracciando il mitra del «guerriero». I
capi delle Chiese locali, radunati nella cittadina colombiana di
Medellín, erano stati ammoniti da Paolo VI a rifiutare la violenza e il
marxismo, ma pure a riparare agli errori del passato, curare le «attuali
infermità», indicare la «giustizia in cammino verso la
fratellanza e la pace».
Durante due settimane, quando già Paolo
VI era tornato a Roma, i vescovi avevano messo a punto, superando non pochi
contrasti interni, una serie di documenti che analizzavano i mali dell'America
Latina, mali socio-economici, politici, culturali, adottando scelte sconvolgenti
per le Chiese di quel continente, ancora rimaste rattrappite nella missione di
custodire la fede e preparare le anime per l'eternità. Nuovi processi si
sostituivano alla tradizionale difesa delle classi dominanti e dei privilegi
concessi dai governi. Nasceva una concezione della Chiesa diversa e distante da
quella sopravvissuta all'epoca coloniale; una visione naturalmente accompagnata
da crisi di rigetto. Un tipo di Chiesa che vide vescovi, preti, suore, schierati
in difesa dei poveri e degli oppressi, pronti a darne personale testimonianza.
Almeno dove i documenti di Medellín, approvati dalla Santa Sede, avevano
avuto concreta applicazione. Ne erano seguite tensioni, giacché al
tentativo di superare il dramma di popolazioni sovente al di sotto del livello
di sussistenza mediante trasformazioni sociali, le classi dominanti avevano
risposto affidando il potere, in molte delle venti repubbliche latino-americane,
ai regimi militari e all'adozione della «sicurezza nazionale». Una
ideologia che giustificava la repressione in nome della lotta ai fermenti
rivoluzionari, per garantire la stabilità e l'ordine contro le
infiltrazioni «sovversive» nella Chiesa.
In questa situazione,
che coinvolgeva quasi la metà dei cattolici nel mondo, Paolo VI aveva
convocato la conferenza dei rappresentanti dell'episcopato per l'ottobre del
. La sua morte, e poi quella di Luciani, avevano fatto slittare la riunione
al gennaio del 1979. Spettava dunque a Giovanni Paolo II decidere se l'assemblea
dovesse aprirsi alla sua presenza ed ascoltarlo di persona o se, come già
aveva anticipato Luciani, il Papa avrebbe seguito i lavori restando a
Roma.
Fin oltre la metà di dicembre Papa Wojtyla mantenne il
silenzio, pur continuando a dimostrare di non avere alcuna intenzione di restare
confinato entro le mura del Vaticano, tra stanze, cortili e uffici di cui aveva
cominciato ad impratichirsi visitandoli metodicamente. In novembre s'era recato
ad Assisi in elicottero; le ore trascorse nella cittadella di San Francesco,
l'incontro con la moltitudine accorsa da tutta l'Umbria avevano testimoniato la
sua comunicatività. «Saluto tutti, specialmente quelli che si
trovano sui tetti avendo un po' paura per loro», aveva esordito levando gli
occhi verso i grappoli umani che, non trovando posto nel pur ampio spiazzo
dinanzi alla Basilica inferiore, gremitissimo, s'erano inerpicati sulle case
prospicienti. Ma Assisi e l'omaggio ad uno dei santi patroni d'Italia, cui era
seguíto nella stessa giornata quello reso a Roma, sostando dinanzi alla
tomba di Santa Caterina da Siena, rientravano in una certo senso nella
normalità di un Papa «venuto da lontano», giovane e attivo; non
possedevano le incognite di un viaggio in un mondo tanto travagliato e
turbolento come quello sudamericano.
Nell'usuale udienza ai cardinali per
ricevere gli auguri di Natale, Giovanni Paolo II dette l'annunzio ufficiale:
comunicò che si sarebbe recato in Messico per dare il via alla terza
conferenza dell'episcopato. «Qualcuno ha detto - spiegò - che il
futuro della Chiesa 'si gioca' nell'America Latina. Anche se, su un piano
generale, questo futuro è nascosto in Dio secondo un suo disegno che va
oltre i progetti umani e i condizionamenti storico-sociali, quella frase
contiene una sua verità, perché sta a significare quanto sia
solidale la sorte della Chiesa nel continente centro e sudamericano con quella
dell'unica e indivisa Chiesa di Cristo».
IL PRIMO GRANDE VIAGGIO
Il Papa avrebbe soggiornato in un paese di due
milioni di chilometri quadrati, con una popolazione di 64 milioni di abitanti in
maggioranza meticci, di cui l'83% cattolico, colpito da una grave crisi
economica, fughe di capitali, alti tassi di disoccupazione ed un livello di
analfabetismo mediamente del 20% ma che sale al 40% nelle campagne. Sarebbe
andato nel favoloso Messico degli Aztechi e dei Maya, le popolazioni
preispaniche soggiogate da Cortes e alle quali i missionari avevano imposto una
cristianizzazione alla spagnola; tra gente dove la grande povertà
coesiste con grandi ricchezze. Un mondo in sostanza che, sotto determinati
aspetti, riassumeva le condizioni generali del continente e conseguentemente
avrebbe sollecitato il Papa a non misurare le parole. Non che fino ad allora
avesse avuto riserve: nei due mesi e mezzo di pontificato aveva più volte
sostenuto come non vi potesse essere altra soluzione per risolvere i
«difficili problemi sociali, economici, politici, i problemi della cultura
e della civiltà contemporanea, le sofferenze dell'uomo di oggi, i suoi
sbandamenti, le sue tensioni, i suoi complessi, le sue inquietudini» che
nel Vangelo. Però aveva più colpito la sua vitalità
piuttosto che l'inflessibilità in materia di fede e la volontà di
ristabilire la disciplina nel mondo ecclesiastico. Ora era venuto il momento di
vedere come si sarebbe comportato il Papa nell'affrontare una situazione che
avrebbe avuto ripercussioni anche fuori del continente sudamericano.
Per il
viaggio di sette giorni, dal 25 al 31 gennaio, Giovanni Paolo II s'era preparato
anche sotto il profilo tecnico. «Non conosco lo spagnolo», aveva
confessato ai giornalisti che lo avevano interpellato in quella lingua durante
l'incontro in Vaticano, «ma ho promesso ai cardinali di Spagna in conclave
che lo imparerò». E lo aveva fatto. I primi ad accorgersene furono
appunto i giornalisti messicani ammessi sull'aereo papale che il mattino del 25
lasciò Roma per San Domingo, tappa di un giorno, prima dello sbarco a
Città del Messico. Il Vaticano, infatti, aveva accettato di mettere a
disposizione un certo numero di posti per gli inviati dei giornali, delle
televisioni, delle radio. Un numero assai limitato rispetto a quanti volevano
seguire il pellegrinaggio pontificio, rigidamente suddiviso a seconda delle
nazionalità. Tuttavia si ignorava che, una volta in volo, Papa Wojtyla
avrebbe lasciato la speciale cabina approntatagli sull'aereo (rimosse le
poltrone dell'intera prima classe, era stata allestita una zona salotta con un
tavolo e quattro poltroncine destinato alla consumazione dei pasti ed
eventualmente a lavorare) per intrattenersi a colloquio con i giornalisti del
seguito. A distanza di circa mezz'ora dalla partenza il Pontefice apparve nel
settore riservato ai rappresentanti della stampa, non per distribuire
medagliette o santini, ma per sottoporsi a qualsiasi tipo di domande gli fossero
state rivolte.
«Legge i giornali di sinistra?». «Li leggo
con particolare attenzione. Bisogna conoscere le critiche che ci rivolgono.
Dobbiamo essere autocritici». Sicuro di sé, passava di posto in
posto ascoltando con attenzione l'interlocutore, meditando le parole di
risposta. «Recandosi a San Domingo prima, nell'isola in cui sbarcò
Colombo, e poi in Messico, lei, Santità, ripercorre il cammino dei
conquistatori, una pagina di storia con momenti foschi. Con quale spirito
ripercorre questo cammino?», gli chiese un telecronista italiano. E il
Papa: «Occorre collocare le cose nella prospettiva storica. Pagine fosche
ci sono state, ma c'è stata pure l'evangelizzazione, che è un
bene. Del resto si parla delle pagine fosche del passato, ma non ci sono anche
oggi pagine proprio fosche?».
Il dialogo andò avanti oltre
un'ora nella più assoluta libertà, conquistando ancora una volta
lo spregiudicato uditorio. «Santità, cosa porta in America
Latina?». «Porto la fede, non è abbastanza?». «Non
corre il rischio di assistere o anche di prendere parte ad un grande spettacolo
che nasconda la vera realtà?». «Vedrò vescovi che
conoscono bene ciò che avviene». «Lascerà a loro,
dunque, il giudizio definitivo?». «Nelle situazioni concrete,
sì. A me compete di dare gli orientamenti generali». La lunga
conversazione - conclusa con una dichiarazione all'inviato della Radio Vaticano:
«Il mio è un pellegrinaggio di fede. E che cosa vi potete attendere
da un Papa se non la fede?» - aveva lasciato Giovanni Paolo II sereno,
allegro. Almeno così lo si vide scendere dopo dieci ore di volo senza
scalo nell'aeroporto di San Domingo, sotto l'implacabile sole dei
Caraibi.
La prima tappa del primo viaggio intercontinentale di Giovanni Paolo II
RODEO DOMINICANO
Disceso dalla scaletta dell'aereo il suo primo
gesto fu di genuflettersi in terra e baciare il suolo d'America. Subito dopo una
specie di rodeo. L'esuberanza dei dominicani era tale che, spaventato, il
servizio di sicurezza arrivò alla brutalità per proteggere il
Papa. Sulla piazza dell'Indipendenza più di duecentomila persone, quasi
quanto ne conta la capitale dell'isola, lo acclamarono, udendolo dire in
spagnolo, con pronuncia assai corretta, che per rendere più giusto il
mondo bisognava far si che non vi fossero «bambini senza sufficiente
nutrimento», «contadini senza terra per vivere e svilupparsi in modo
degno», «lavoratori maltrattati e diminuiti nei loro diritti»,
«sistemi che permettono lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo o da
parte dello Stato», «la corruzione», «chi abbondi di tutto
mentre ad altri senza nessuna colpa manca tutto». Un preambolo al tema dei
diritti dell'uomo che avrebbe sviluppato nel corso dei sei giorni messicani tra
il delirio di un intero popolo, talvolta anche l'isterismo, che di colpo
annullò i formalismi studiati dalle autorità pubbliche, le quali,
pur essendo lieti della presenza dell'ospite, aveva cercato di salvaguardare
l'immagine di un paese ufficialmente anticlericale, quasi ateo.
Papa,
cardinali e monsignori del seguito avevano viaggiato senza passaporto. La deroga
scaturiva dal fatto che il Messico è retto da una Costituzione che non
solo sancisce la completa separazione dello Stato dalla Chiesa, ma la sottopone
alla sorveglianza e al controllo del governo e la priva di una formale
indipendenza.
Il governo, espressione del partito erede delle lotte
rivoluzionarie condotte negli anni Venti anche contro una Chiesa in difesa dei
suoi privilegi e ricchezze d'epoca coloniale, al potere da circa mezzo secolo,
non poteva accogliere il Papa in quanto capo della Chiesa. Anzi, v'era stato
disappunto per la divulgazione da parte del Vaticano del programma di massima
del viaggio, che comprendeva l'incontro tra Giovanni Paolo II e il presidente
José Lopez Portillo. Intendiamoci, avevano fatto sapere le fonti
diplomatiche messicane alla Santa Sede: il presidente era lieto, lietissimo di
farsi trovare ai piedi della scaletta dell'aereo, e con lui vi sarebbe stata
anche la moglie ma non occorreva darne preventiva notizia pubblica. Il passo
avrebbe potuto essere considerato lesivo della solenne affermazione della
laicità dello Stato contenuta nella carta costituzionale.
Quelli del
Vaticano erano rimasti sorpresi del rilievo: non avevano dimenticato le lotte
con la Chiesa e neppure la legislazione in vigore, che disconosce al clero ogni
diritto civile, lo priva del possesso dei luoghi di culto e impone al sacerdote
nato fuori del paese di chiedere il permesso per la celebrazione della messa.
Però proprio da Città del Messico erano state diramate le prime
notizie sull'incontro tra il presidente della Repubblica e il Papa,
sicché alla diplomazia della Santa Sede non era sembrata una scorrettezza
darne conferma pubblicamente. Comunque, a lenire le suscettibilità e,
forse, a premiare le buone intenzioni del presidente, aveva provveduto Papa
Wojtyla, inserendo nel discorso al corpo diplomatico, ricevuto per gli auguri di
Natale dopo i cardinali, l'espressione della sua «gioia per la comprensione
e l'atteggiamento di benevolenza delle autorità messicane per quel che
concerne il viaggio». Dal canto suo il governo messicano s'era cautelato
spiegando che il «senor» Wojtyla sarebbe stato ricevuto come un
visitante distinguido. Perció niente colpi di cannone, come a San
Domingo, o qualsiasi altra ufficialità per il «distinto
visitatore».
Giovanni Paolo II in volo verso Città del Messico con il Segretario di Stato Monsignor Caprio
L'ARRIVO IN MESSICO
All'aprirsi della porta dell'aereo, il Papa
apparve con la veste bianca, le braccia aperte con effusione sulla folla
plaudente. Il suo primo gesto fu di baciare il suolo messicano. Mentre si
genufletteva in terra una folata di vento alzava la sua mantellina coprendogli
il capo: sembrò realmente un pellegrino giunto al termine di un viaggio
lungamente desiderato. Dopo la stretta di mano del presidente e poche parole di
benvenuto fu la volta dei cardinali e dei vescovi, i quali, col pieno consenso
del governo, avevano disatteso il divieto di indossare gli abiti ecclesiastici.
Intorno urlavano «Mexico», «Mexico» e un gruppo
folcloristico cantava «Cielito lindo» (Piccolo cielo bello), mentre
fuori dall'aeroporto la folla urlava «vogliamo vedere il Papa». Era
cominciata la grande fiesta.
Nei giorni precedenti l'arrivo le
autorità governative, temendo una incandescente manifestazione, avevano
ripetutamente invitato i quattordici milioni di abitanti di Città del
Messico a mostrare fervore con responsabilità, allegria senza eccedere.
Però nessuna raccomandazione avrebbe potuto attenuare l'ardore di un
popolo che vedeva nella presenza di Giovanni Paolo II sul loro suolo, a seconda
delle condizioni sociali, premio allo sforzo di uscire dal novero dei paesi in
via di sviluppo, soddisfazione all'orgoglio nazionalistico e più
generalmente esaltazione di un misticismo fondato su quella naturale
religiosità che consentì al cristianesimo di sovrapporsi ai riti
precolombiani.
D'improvviso Giovanni Paolo II si trovò stretto tra
decine e decine di persone. Gli ammessi all'aeroporto, tutta gente selezionata
da inviti distribuiti con parsimonia, avevano rotto l'esile cordone di polizia.
Tra la folla emerse e si staccò un gigantesco messicano con un enorme
sombrero in testa, avvolto nella caratteristica coperta, per rendere un
particolare omaggio: aprì la coperta ed una cascata di boccioli di rose
cadde ai piedi di Wojtyla. Il Papa, sorpreso, lasciò pure che il
messicano gli mettesse il sombrero in testa.
«FIESTA» MESSICANA
La vera «fiesta» si ebbe lungo i
quindici chilometri di percorso che dividevano l'aeroporto dalla cattedrale:
centinaia di migliaia di persone affollavano i due lati delle strade, una massa
umana che sventolava bandierine bianche e gialle vaticane, o cartelli con la
scritta «bienvenido», che aveva aggirato la proibizione di gridare
«viva il Papa» urlando «Juan Pablo».
A San Domingo,
Wojtyla ad un gruppo di fedeli che ne ritmava il nome aveva gridato di rimando,
mettendo le mani ai lati della bocca: «Non Juan Pablo dovete dire, ma Jesus
Christo». A Città del Messico non poteva farlo: dall'alto del
minibus scoperto, su cui aveva preso posto insieme con il seguito ed un gruppo
di vescovi, si trovava innanzi ad una immensa folla che al suo passaggio
esplodeva in un entusiasmo quasi isterico. Dalle case piovevano giù
coriandoli e confetti, ad ogni angolo di strade v'erano «mariachis» e
porras, orchestrine e cantanti, senza i quali non può esservi autentica
«fiesta». Così fino allo Zócalo, la sterminata piazza -
una delle più vaste d'America - dove s'erano stipate trecentomila
persone.
Lo Zócalo della capitale rappresenta per i messicani
ciò che, sotto alcuni aspetti, è piazza San Pietro per i
cattolici. Tanto è vero che in ogni città e cittadina messicana
esiste uno Zócalo, il quale non può essere tale se da un lato non
ha la chiesa e dall'altro il palazzo del governo. Solo che a Città del
Messico il palazzo fu costruito da Cortés sulla distrutta reggia
dell'imperatore azteco Montezuma e la cattedrale venne eretta sulle rovine del
tempio maggiore degli aztechi, di cui, in parte, furono usate le pietre. Se poi
a questi dati si aggiunge che ogni 16 settembre il presidente della Repubblica
appare al balcone del palazzo nazionale, su cui è posta la campana
adoperata dal parroco Hidalgo nel 1810 per chiamare il popolo all'insurrezione
contro gli spagnoli e ne celebra l'anniversario suonando la campana e ripetendo
il grido della rivolta, appare evidente come lo Zócalo di Mexico City
riassuma tutta la storia del paese. Da qui l'importanza di averlo messo a
disposizione per la messa celebrata all'interno della cattedrale e diffusa dagli
altoparlanti sulla piazza.
ESALTAZIONE COLLETTIVA
Le stesse autorità religiose messicane non
credevano, nel programmare il soggiorno papale, che il governo avrebbe permesso
l'uso dello Zócalo e avevano pensato, in via subordinata, di usufruire
dello stadio dove erano stati disputati i campionati mondiali di calcio. Invece
era stato sufficiente esternare il desiderio perché il governo
accettasse. Anzi uno dei suoi esponenti s'era affrettato a formulare la
giustificazione nel caso in cui i settori anticlericali del paese avessero
protestato per aver consentito ad un sacerdote non messicano di celebrare il
rito senza aver presentato la domanda prescritta dalle disposizioni in vigore:
sarebbe stato detto d'aver considerato Karol Wojtyla quale capo della
comunità polacca in Messico. Poco più di trecento
persone.
Tuttavia la completa adesione del governo alle richieste della
gerarchia ecclesiastica messicana non impedì a Giovanni Paolo II, nel
corso dell'omelia pronunciata nella cattedrale, di mettere a nudo il tema dei
rapporto con lo Stato, da un lato rinfrancando i cattolici messicani («...
vivere nella Chiesa, essere Chiesa è oggi molto esigente. Qualche volta
non costa la persecuzione chiara e diretta, peró può costare il
disprezzo, l'indifferenza, l'emarginazione»), dall'altra denunciando la
situazione della Chiesa in Messico, la sua marginalità sotto il profilo
giuridico. Problema del quale discusse nell'incontro privato con il presidente
Portillo, una volta riuscito a fendere la calca e risalire sul minibus scoperto,
alla cui altezza da terra era stata affidata la sua incolumità. «Non
so come sia sopravvissuto», erano state le prime parole con cui lo aveva
accolto a sera il presidente.
Nella seconda giornata messicana
continuò la collettiva esaltazione. Di solito nei viaggi fuori d'Italia
di Paolo VI accadeva che dopo il primo incontro, superata l'emozione, il
turbamento, la gioia per l'arrivo dell'ospite eccezionale, l'entusiasmo calava
di tono. In Messico avvenne il contrario, non soltanto perché il Papa si
recò nel santuario della Vergine di Guadalupe, il simbolo nazionale della
fede dei Messicani, per rivolgere un messaggio ai cattolici dell'America Latina.
Un santuario celebre in tutto il Sud America che conserva l'immagine della
«Morenità»: un dolce volto di india, un poco mesto, con le
spalle rotonde come le sculture nate nel periodo classico.
UNA MADONNA INDIGENA E POPOLARE
L'immagine, secondo la leggenda, nacque dal
rifiuto del vescovo di accettare quanto, un decennio dopo la conquista spagnola,
era andato a raccontargli Juan Diego, un indio appena convertito: la Madonna gli
era apparsa sotto le vesti di una donna del popolo e parlandogli nella sua
lingua nativa, non in quella dei padroni, lo spagnolo, aveva offerto protezione
agli abitanti di quella terra e chiesto le fosse costruita una chiesa per
restare vicino al popolo. L'indio non era stato creduto dal vescovo di
Città del Messico e allora la Vergine era tornata ad apparire a Juan
Diego dandogli ordine di portare al vescovo un cespo di rose da lei
immediatamente fatto fiorire sulla pietraia in cui era comparsa. L'uomo
obbedì, avvolse le rose nel mantello e si recò a palazzo
episcopale. Quando fu in presenza del presule svolse il mantello e apparve sul
tessuto il volto del «Morenita», come la chiamano familiarmente i
messicani, la figura in cui si concentra la storia e la vita del paese, e nel
cui nome furono fatte guerre e rivoluzioni, contro gli spagnoli, gli invasori
nordamericani, i francesi. Nella lotta civile tra anticlericali e cattolici da
ambedue le parti erano morti invocando il suo nome.
La presenza del Papa
nel santuario di Guadalupe che da quattro secoli mobilita, con uno stile
d'espressione più simile ai grandi centri d'attrazione religiosa indiani
che ai luoghi dei pellegrinaggi cattolici, milioni di persone - per di
più un Papa la cui devozione mariana gli ha fatto porre una M nella
stemma - doveva necessariamente eccitare gli animi. Per giungere al santuario un
complesso di cinque chiese erette sulle pendici di una collina - poco distante
dalla villetta della delegazione apostolica in cui aveva trascorso la notte,
furono necessarie al Papa due ore. Lo spettacolo aveva indotto Giovanni Paolo II
a far fermare il minibus a più riprese per stringere mani, accarezzare
bambini, accontentare una moltitudine che gli chiedeva di benedire medaglie,
ritratti, croci.
Dal santuario di Guadalupe - una delle cinque chiese, la
facciata della vecchia basilica era stata interamente decorata con tappeti di
rose riproducenti il volto della «Morenita», quello della Madonna di
Czestochowa, lo stemma pontificio - Giovanni Paolo II aveva cominciato a dire i
suoi no: ha negato che possa esservi una crisi di identità o una ricerca
del significato della propria vita se da parte del clero si ricorre alla
preghiera, alla meditazione e all'obbedienza ai vescovi. No ai sacerdoti che
ritengono di trarre dal Vangelo «criteri psicologici o sociologici»;
no a quanti tra loro dimenticano che la loro missione non è di essere
leaders politici. Moniti che in parte anticipavano quello che avrebbe detto il
giorno successivo aprendo la conferenza episcopale di Puebla.
PUEBLA «DEGLI ANGELI»
A Puebla de Los Angeles, una città ancora
tutta spagnola costruita in una valle circondata dalle più alte cime di
tutto il paese o, meglio, nel suo seminario, avevano atteso il Papa 177 vescovi
rappresentanti di un continente che parla spagnolo e crede in Gesù
Cristo. Per arrivarvi Giovanni Paolo II dovette percorrere una autostrada che
alla periferia di Mexico City sfiora un altra città o una sua orrida
prolungazione, Nezahualcoyotl, dal nome di un re azteco che fu filosofo e poeta:
la più grande bidonville del mondo, con i suoi due milioni di abitanti
frutto dell'emigrazione selvaggia delle campagne e della proliferazione umana.
Ed anche da questa sterminata agglomerazione semiurbana, dalle sue strade di
fango o di polvere, a seconda della stagione, era uscita la gente per vedere il
Papa, il quale avrebbe voluto andare da loro se non gli fosse stato negato.
Comunque pensava anche a loro, a quelle sordide case, nell'indicare ai vescovi i
punti fondamentali del cammino della Chiesa in America Latina: la difesa della
dignità umana, la dimensione sociale della proprietà privata, la
lotta per la giustizia, la lotta per i diritti umani.
Un discorso accettato
sia da presuli conservatori, sia da quelli progressisti perché ciascuno
cercó di adattarvisi. Gli uni esaltando la condanna della violenza, gli
altri il duro monito per la «crescita talvolta massiccia della violazione
dei diritti umani» nel continente. Un tema che sotto l'aspetto della
giustizia distributiva e della relatività del diritto di
proprietà, Giovanni Paolo II riprese nel trascorrere una intera giornata
a Oaxaca con gli indios.
OAXACA: LA SPERANZA
A Oaxaca, nel sud del Messico, avevano preparato
archi di trionfo e scritte per ricevere il Papa; e all'aeroporto v'era anche un
gruppo di indios in abiti colorati. Ma il raduno dei discendenti degli aztechi
era stato stabilito a Cuilapán, in una spianata dinanzi alle rovine di un
convento di cappuccini che la grande maggioranza dei centomila indios avevano
raggiunto a piedi, talora camminando tutta la notte con il loro passo senza
tempo, aspettanto per ore, silenziosi e indifferenti all'implacabile sole - che
impose al Papa e prelati di coprirsi il capo con sombreri di paglia - il momento
di porgere all'ospite ghirlande di fiori di carta appesi ad alti bastoni. Poi
uno di loro, un indio di 40 anni, Estéban, era salito sul palco e aveva
letto un discorso. «Hai detto che noi, poveri dell'America Latina, siamo la
speranza della tua Chiesa. Guarda come vive questa speranza. Ci hanno relegato
nelle zone più impervie della Sierra. Nella terra dei nostri avi, dei
nostri padri, ci trattano come estranei. Soffriamo molto, non abbiamo lavoro,
non abbiamo da mangiare. Ci hanno cacciato dalle terre buone. Le vacche vivono
meglio dell'indio».
Giovanni Paolo II aveva letto le parole dell'indio
la notte precedente, nella villetta di Città del Messico dove ogni sera
tornava stanco e provato, e dove un doppio cordone di vigilanza gli consentiva
qualche ora di sonno. Nella prima notte trascorsa in Messico, infatti lo avevano
tenuto desto fino a tarda ora gruppi di cantori che s'erano alternati sotto le
sue finestre. Aveva letto le parole dell'indio e quindi mutato il discorso di
risposta. Non che ignorasse le condizioni dei rurali del Messico, ma
pensò che la replica doveva essere più incisiva: «Il Papa
vuole essere la vostra voce...». Il mondo dei campi «ha diritto a
ciò che gli spetta, a non essere privato di quello che, per manovre che
talvolta equivalgono a vere depredazioni, ha diritto di avere»... «la
Chiesa difende il legittimo diritto alla proprietà privata, però
insegna che sopra a tutta la proprietà privata pesa sempre una ipoteca
sociale».
Proclamare che il mondo rurale non può più
attendere il riconoscimento della sua dignità, denunciarne la triste
situazione e domandare l'abbattimento delle «barriere dello
sfruttamento» significava mettere a nudo uno dei problemi più
scottanti del subcontinente americano la cui economia resta ancora legata alla
terra. Significava anche sollecitare una urgente riforma delle strutture
politiche agrarie, peraltro richiesta vanamente da Paolo VI a Bogotà e
dall'assemblea di Medellín nel 1968.
Gli indios ringraziarono e gli
fecero festa con il guelaguetza, il ballo della piuma: una preziosità,
visto che si tiene una sola volta all'anno. Un ballo, al quale partecipano sette
tribù di due gruppi etnici, «zapotechi» e «mistechi»,
e che non è soltanto una danza. Ciò che due gruppi di indios,
acconciati con grandi copricapi di piume, mostrarono al Papa, è un dramma
sceneggiato: l'antica vicenda di Montezuma e Cortés, del re azteco e del
«conquistador» spagnolo, le lotte dei loro seguaci mimate mediante
agili salti che facevano librare in aria i ballerini, conclusa naturalmente
dalla vittoria degli Spagnoli, volutamente rappresentati da maschere odiose o
grottesche. Una sopraffazione non cristallizzata nel passato, che continua ad
opera degli eredi dell'incrocio delle due razze nei confronti dei discendenti di
quella più debole con la sottrazione delle terre, lo sfruttamento
agricolo, la corruzione, l'aggressione culturale ed ideologica.
PARTENZA TRA I CANTI
Nessuno forse saprà mai se furono le ore
trascorse tra gli indios oppure la somma di constatazioni dirette e personali,
cui contribuì pure l'incontro con i più miseri tra i messicani, a
far si che il Papa penetrasse nella realtà latino americana. Certo negli
ultimi due giorni trascorsi in Messico, Papa Wojtyla assunse un tono più
vibrante e più risoluto nel denunciare le ingiustizie. Nella città
di Guadalajara, dove poté visitare un quartiere povero - relativamente
confortevole rispetto a quelli della capitale che l'orgoglio nazionale del
governo impediva di pubblicizzare con una visita papale -, Giovanni Paolo II
parlò una prima volta agli operai: «Voglio dirvi, con tutta l'anima
e con tutte le forze, che mi amareggia la scarsezza di lavoro, mi amareggia
profondamente l'ingiustizia, mi amareggiano i conflitti, mi amareggiano le
ideologie di odio e di violenza che non sono evangeliche e che tante ferite
causano all'umanità contemporanea». L'indomani, la stampa messicana
poneva soprattutto in risalto la ripetuta esortazione papale a non seguire
l'ideologia dell'odio e della violenza mettendo in sordina, - nei giorni
precedenti ad esempio il risalto era stato dato al monito rivolto ai sacerdoti
di non trasformarsi in leaders politici -, il monito sull'ingiustizia sociale o
dedicando le pagine più superficialmente, alle manifestazioni
d'affetto.
La maggioranza del popolo aveva accolto la visita come un atto
di grazia, un atto d'amore e aveva ricambiato il Papa con una sorta di abrazo
che avrebbe anche esternato concretamente se non l'avessero impedito i 30 mila
uomini, in divisa e in borghese, mobilitati dal governo. A mutare poi
l'entusiasmo in amore, talora estatico, talora rabbioso, aveva provveduto la
schiettezza di Giovanni Paolo II, sempre disponibile a mescolarsi con la folla e
persino a cantare.
Una sera, rientrando nella villetta della delegazione,
una orchestrina gli aveva suonato la canzone «Amigo» di Roberto
Carlos. Il Papa aveva fatto fermare la vettura, letto il testo della canzone e
unito la sua voce a quella dei cantanti. E nelle ultime ore trascorse a
Città del Messico, dopo aver ricevuto diecimila studenti, mentre si
avviava verso l'aeroporto facendo di tanto in tanto fermare il minibus
(«non posso negare ad un messicano con la mano stesa la mia», aveva
spiegato) udendo ripetere una canzone vollero gli spiegassero cosa significava.
Lo salutavano cantando las golondrinas, la canzone delle rondini, per augurargli
il suo ritorno.
All'aeroporto, poi, la partenza, nonostante l'assenza di
onori protocollari, fu simile a quella di un sovrano: il Papa passò
lentamente in rassegna le tribune cariche di fedeli, si fermò per qualche
attimo a baciare un bambino, benedisse i motociclisti della polizia addetti alla
sua scorta genuflessi in terra. Nel momento in cui saliva la scaletta dell'aereo
fu liberato un volo di colombe. Due colombe bianche si posarono sull'ala destra
dell'aereo e lì restarono fin quando l'apparecchio non cominciò a
rullare sulla pista. Il Papa volle che l'aereo compisse un giro sulla
città per salutare dall'alto Mexico City. I messicani lo sapevano e
s'erano preparati: dal basso risposero con migliaia di specchietti agitati
contro il sole.
L'aereo, però, non volò direttamente verso
Roma, fece tappa a Monterrey, una città posta tra la Sierra Madre ed il
deserto, di forte concentrazione operaia per essere la sede delle principali
industrie del paese dalle acciaierie alle vetrerie, alle aziende tessili. Fu a
Monterrey, trovandosi dinanzi un milione di persone, che da un ponte alto dodici
metri, il Papa tenne un discorso, forse il più risoluto dei tanti
pronunciati.
IL DISCORSO DI MONTERREY
In Messico il 3% della popolazione possiede il 52%
della ricchezza dell'intero paese. Le percentuali possono subire qualche
lievitazione ma pressappoco non si distaccano molto le une dalle altre in quasi
tutte le repubbliche sudamericane. Monterrey, in cui un piccolo gruppo di
famiglie domina la situazione economica e politica, rappresentava dunque il
luogo più opportuno perché il Papa si rivolgesse agli obreros del
continente. Un discorso che prese le mosse dal ricordo personale: «Non
dimentico gli anni difficili della guerra mondiale, nei quali io stesso ebbi
l'esperienza diretta di un lavoro fisico come il vostro, di una fatica
giornaliera e della sua dipendenza, pesantezza e monotonia. Ho condiviso le
necessità dei lavoratori, le loro giuste esigenze e le loro aspirazioni
legittime». Dalla rievocazione Giovanni Paolo II passò
all'esortazione di preoccuparsi principalmente di coloro che «non hanno
cibo, vestiti, mezzi per vivere e non hanno accesso ai beni di cultura», al
tema della disoccupazione e ai diritti dei lavoratori. «Coloro che hanno la
fortuna di lavorare desiderano farlo in condizioni più umane e più
sicure, per partecipare più giustamente del frutto dello sforzo comune in
ciò che si riferisce al salario, alla sicurezza sociale, alle
possibilità di sviluppo culturale e spirituale. Vogliono essere trattati
come esseri liberi e responsabili, chiamati a partecipare alle decisioni che
concernono la propria vita e il proprio futuro. È loro diritto fondamentale
creare liberamente organizzazioni per difendere e promuovere i propri interessi
e per contribuire responsabilmente al bene comune».
Il discorso, al
pari degli altri pronunciati dopo l'apertura della conferenza di Puebla, doveva
avere una influenza anche sul lavoro dei vescovi, chiuso a metà febbraio
da un lungo documento approvato a Roma dal Papa. Del resto le tormentate
conclusioni dei rappresentanti degli episcopati s'erano mantenute entro i punti
fermi indicati da Giovanni Paolo II. Puebla non propose un modello politico,
sociale o economico, puntò soprattutto su un cambio di mentalità
che deve precedere il cambio di strutture definite a gran voce ingiuste ed
oppressive. Non aveva detto Papa Wojtyla, aprendo la riunione, che la Chiesa non
si identifica con alcuna ideologia? Naturale dunque che i vescovi lo
riaffermassero, criticando il capitalismo e rifiutando il marxismo e le sue
analisi, respingendo la dottrina della «sicurezza nazionale», quella
sorta di giustificazione ideologica alla presa di potere di ristrette oligarchie
militari o politiche. Più alto e più acuto fu il grido dei vescovi
radunati a Puebla in difesa dei diritti umani.
CASTEL GANDOLFO: IL RIPOSO DEL GUERRIERO
Tornato a Roma Wojtyla preferì rinfrancarsi
delle fatiche del viaggio nella quiete di Castel Gandolfo. Fu una novità
rispetto a Paolo VI, che riprendeva subito il lavoro interrotto, e una sorpresa
per l'ambiente vaticano, che considerava il palazzo e i parchi di Castel
Gandolfo residenza esclusivamente estiva. Ma a Giovanni Paolo II i 44 ettari, i
cortili, le 40 mila stanze del Vaticano stavano un poco stretti, nel senso
che non riusciva ad abituarsi ad un mondo prelatizio da sempre allenato a
scrutare il sovrano con la lente di ingrandimento. Erano trascorsi quasi cento
giorni dall'inizio del pontificato e nella curia romana nulla era mutato. Tutti
erano rimasti al loro posto, persino il Segretario di Stato, il cardinale
francese Jean Villot, che aveva condiviso gli ultimi anni montiniani, e a cui
Papa Wojtyla aveva mantenuto l'incarico in attesa della nomina di un prelato
italiano, preannunciata pubblicamente. L'unica nomina non di routine, compiuta
dal Pontefice, era stata la scelta del suo successore a Cracovia: aveva chiamato
a sostituirlo nella diocesi un cinquantunenne, Franciszek Macharski, fino ad
allora rettore del seminario arcivescovile. Nomina che aveva sorpreso
favorevolmente giacché dimostrava che il nuovo Pontefice affidava gli
incarichi senza badare ai gradi e alla anzianità, puntando solo sui
meriti personali. E ne dette ulteriore prova nominando Marco Cè patriarca
di Venezia e Alberto Ballestrero arcivescovo di Torino.
Il silenzio e la
tranquillità di Castel Gandolfo erano necessari al nuovo Papa anche per
meditare l'esperienza messicana, le esaltanti giornate durante le quali era
stato acclamato complessivamente da quasi venti milioni di persone: un bilancio
di cui avvertiva il bisogno non tanto per confrontarlo agli echi suscitati
presso l'opinione pubblica mondiale quanto, forse, per una riflessione con se
stesso. Dai giornali apprendeva che la sua proclamata avversione ad un Cristo
guerrigliero, la moderazione nel condannare i regimi dittatoriali sudamericani
avevano lasciato interdetti coloro i quali giudicavano che il contesto latino
americano, con le sue contraddizioni e le sue violenze istituzionali, avrebbe
richiesto una precisa scelta di campo. Quella da lui fatta, l'autosufficienza
del messaggio cristiano e il diritto della Chiesa a risolvere i problemi e i
drammi dell'uomo contemporaneo, avevano provocato commenti disparati, ora di
approvazione, ora colmi di riserve. Conservatore o progressista? Continuavano a
chiedersi gli osservatori, ponendo in evidenza l'una o l'altra parte dei
discorsi messicani.
La riflessione del Papa non fu un fatto privato.
Qualcosa ne trasparì in una udienza generale, nell'accennare alle
difficolta definite «gravi prove e duri esami», create dalla
colonizzazione spagnola dei popoli precolombiani. «Si ha l'impressione -
disse - che questi ultimi non in tutto abbiano accettato ciò che è
europeo, che in qualche maniera cercassero di nascondersi nella loro propria
tradizione e nella cultura natìa. Ma contemporaneamente si ha
l'impressione che abbiano accettato Gesù Cristo, che in quella
comunità di fedeli si sia effettuato un incontro del 'vecchio' con il
'nuovo', e ciò si trova alla base non soltanto della vita della Chiesa ma
della stessa società messicana». La meditazione sul viaggio con
spiegazioni meno emotive proseguì: «Quell'ieri dell'evangelizzazione
degli uomini e dei popoli del continente latino americano si è fatto
costatamente notare durante la mia visita nel Messico ed ha creato uno specifico
di tutto il viaggio». Parole che rivelavano come gli osanna ricevuti da un
intero paese andassero subendo un intimo processo di razionalizzazione, rilevato
con franchezza anche se difficilmente comprensibile dai fedeli che accorrevano
sempre numerosi per vederlo e udirlo.
Il successo messicano, infatti, aveva
accresciuto la popolarità del Papa. Già nelle librerie e nelle
edicole si vendevano rapidi profili biografici e nastri che riproducevano brani
dei suoi discorsi. Le richieste di partecipazione agli incontri settimanali
erano così numerose che oltre alla Basilica e all'apposita aula, cui era
stato dato il nome di Paolo VI, si dovette aggiungere il cortile di San Damaso
in Vaticano. Tre luoghi diversi per concentrare migliaia di persone e dove il
Papa, pur ripetendo sostanzialmente il medesimo discorso, faceva precedere o
seguire le parole sia dai saluti ai gruppi presenti che da gesti dettati
dall'estro del momento o dal tipo di ascoltatori. Nel corso di uno di questi
incontri, ad esempio, vide un ragazzo che piangeva. Papa Wojtyla gliene chiese
il motivo. «Papà è morto tre giorni fa», spiegò
il ragazzo, «ma le suore mi hanno detto che anche tu sei mio padre».
«È vero», disse il Papa, «e tu puoi vedermi quando vuoi, puoi
chiamarmi al telefono come facevi con tuo padre». E volle ripetere
l'impegno preso anche alle suore che guidavano la scolaresca in cui si trovava
il ragazzo.
UDIENZE GENERALI IN PIAZZA
Appena cominciarono le belle giornate, i
responsabili delle udienze suggerirono al Papa di incontrarsi con la folla in
piazza San Pietro. Il progetto era ardito. V'erano migliaia e migliaia di
prenotazioni, però nessuno poteva escludere una diminuzione del flusso
tanto più che Giovanni Paolo II, volendo essere anche concretamente il
vescovo di Roma, aveva dato avvio a visite domenicali alle parrocchie della
città. Dover rinunciare in seguito all'uso della piazza per mancanza di
pubblico sarebbe stato uno smacco. Ma Giovanni Paolo II non nutriva tali timori,
sicuro di cavarsela in ogni situazione; e poi lo stimolava l'idea che oltre ai
fedeli muniti dei biglietti richiesti in anticipo, potesse udirlo chiunque lo
desiderava.
All'inizio della primavera piazza San Pietro fu suddivisa in
nove settori transennati per accogliere i gruppi di pellegrini mentre il
restante spazio veniva lasciato a disposizione dei singoli visitatori e fedeli.
Il Papa arrivò sulla piazza a bordo di una jeep che costeggiò
lentamente parte del colonnato per passare poi in mezzo alla folla prima di
giungere al palco allestito ai piedi del sagrato della Basilica. Il successo fu
grandioso. Le udienze in piazza divennero un fatto normale, malgrado creassero
problemi insormontabili al traffìco dell'intera zona tanto che fu deciso,
per ovviarvi almeno in parte, di spostare le udienze al pomeriggio. Il consenso
popolare riscosso da Giovanni Paolo II stupiva il medesimo ambiente vaticano,
che aveva visto in breve tempo superato persino l'affollarsi di cattolici
intorno a Paolo VI in occasione dell'Anno Santo del 1975. E che Papa Wojtyla
puntasse ad ottenere innanzi tutto il consenso del mondo, prima di procedere a
qualsiasi riforma interna della Chiesa, la curia lo capì in occasione
della morte del Segretario di Stato Villot. Giovanni Paolo II sostituì lo
scomparso cardinale francese con uno dei più stretti collaboratori di
Paolo VI, l'arcivescovo Agostino Casaroli, il quale aveva ricoperto sotto il
precedente pontificato un ruolo paragonabile a quello di «ministro degli
esteri» della Santa Sede. In quella occasione il Papa mutò anche il
«sostituto» della Segreteria di Stato, chiamando ad un incarico di
grande prestigio ed importanza uno spagnolo, il presule Martinez Somalo, ma non
procedette alle sostituzioni che un nuovo pontificato naturalmente comporta.
Segno che il Papa voleva ancora tempo per orientarsi nella complessa struttura
degli uffici vaticani che, però, aveva preso a visitare per conoscere
personalmente quanti vi lavoravano. Il suo interesse era rivolto all'esterno, a
diffondere il programma del pontificato, come dimostrò la pubblicazione
della sua prima enciclica, piuttosto anticipata rispetto all'uso.
LA PRIMA ENCICLICA
Normalmente fautori ed avversari sogliono
attendere questo primo documento (l'enciclica è una lettera indirizzata a
tutta la Comunità cattolica su argomenti riguardanti la dottrina o
particolari situazioni religiose e sociali) per misurare programma e
capacità del nuovo Pontefice. Suole così crearsi intorno
all'emanazione dell'enciclica una aspettativa che cresce col trascorrere del
tempo. Non fu questo il caso di Papa Wojtyla, il quale, a differenza di Paolo VI
che attese un anno prima di esporre pubblicamente le linee direttive del
pontificato, emanò la Redemptoris hominis cinque mesi dopo l'elezione.
Lui stesso disse che l'aveva cominciata a scrivere in novembre, nelle settimane
successive al conclave per esporre «quei pensieri che allora, all'inizio di
questa nuova via, urgevano con particolare forza del mio animo». L'aveva
scritta da solo, in polacco, senza il contributo di alcuno, e rilevava
compiutamente la sua personalità.
L'enciclica, infatti, dava
organicità e respiro ai temi trattati dal Papa a Roma e in Messico, a
cominciare dall'invito rivolto il giorno dell'inaugurazione del pontificato:
«Non abbiate paura. Aprite, spalancate le porte a Cristo». L'intero
discorso poggia sulla assoluta certezza che solo mediante una completa adesione
al Cristo l'uomo può trovare non solo la salvezza spirituale ma anche
materiale, se non altro liberandosi dalle pesanti minacce che il progresso
tecnologico, disgiunto da un uguale sviluppo morale ed etico, fa pesare su di
lui.
Un discorso condotto in prima persona singolare, accantonando il
tradizionale plurale, con molto pathos e perfino qualche squarcio poetico, da
cui discende la legittimità degli interventi della Chiesa in ogni aspetto
della vita umana, il compito di «cristianizzare» l'organizzazione
sociale e politica, la difesa della libertà religiosa come aspetto
preminente della libertà in senso assoluto e dei diritti umani; la netta
opposizione all'ateismo strutturato in un sistema politico e il conseguente,
accorato appello ai dirigenti dell'organizzazione sociale e pubblica «di
rispettare i diritti della religione e dell'attività della chiesa».
L'enciclica, generalmente accolta con favore, veniva pubblicata un mese e mezzo
prima che Giovanni Paolo II potesse soddisfare l'ardente desiderio di tornare in
patria.
L'annunzio del viaggio era stato dato con un comunicato ai primi di
marzo, al termine di un lungo, laborioso negoziato con il governo di Varsavia
condotto dal Vaticano e dall'episcopato polacco. Papa Wojtyla avrebbe voluto
trovarsi a Cracovia per il nono centenario del martirio di San Stanislao, primo
vescovo della diocesi, che cade il 13 maggio. «Avevo invitato Papa Luciani
a venire, adesso mi sono autoinvitato» disse in una delle telefonate ai
suoi collaboratori dopo l'elezione. Ma la presenza del Papa in coincidenza con
la festività di un santo martirizzato per la difesa del popolo contro
l'oppressione di un sovrano, contrastato prima e infine scomunicato, acuiva le
difficoltà di un regime messo in imbarazzo dalla richiesta di un ritorno
che già di per se stesso, data l'attesa popolare e la stretta
identificazione fra nazionalismo e cattolicesimo, avrebbe rappresentato il
trionfo della Chiesa cattolica sullo Stato socialista. Sarebbe stata inevitabile
l'analogia dei tempi remoti, quelli di Stanislao e del re Boleslao, con gli
attuali. Lo spostamento della data di maggio a giugno ed un programma
meticolosamente centellinato, furono le condizioni indispensabili perché
Papa Wojtyla ricevesse una lettera ufficiale del cardinale Wyszynski, a nome
dell'episcopato, che gli esprimeva la gratitudine dei presuli e del popolo per
il desiderio «di visitare la sua patria e la Chiesa della sua patria»,
nonché la comunicazione del presidente polacco Hanryk Jablonski di
«soddisfazione per la prossima visita in Polonia».
VIAGGIO IN POLONIA
Varsavia non accolse Giovanni Paolo II con la
clamorosa esultanza da tanti pronosticata, con le manifestazioni di entusiasmo
che il ritorno a casa di un polacco divenuto un «grande compatriota»,
come avevano scritto i giornali del regime, avrebbe giustificato. Nessuno si
aspettava l'esplosione di gioia di tipo messicano, se non altro perché in
Polonia la religiosità non possiede le componenti irrazionali
dell'America del Sud, ma era legittimo supporre che l'identificazione del
carattere cattolico con il carattere polacco, l'incidenza storica del fattore
religioso nella vita sociale del paese e l'acceso nazionalismo provocassero un
caloroso benvenuto.
Al contrario niente grida ed evviva da parte dei varsaviesi e
delle centinaia di migliaia di persone giunte da altre regioni, nonché
dall'Ungheria, dalla Cecoslovacchia, dalla Germania della est, ordinatamente
schierate in doppia, triplice fila ai lati del percorso fra l'aeroporto e la
cattedrale. Una immensa folla in paziente attesa da ore, malgrado l'afa di una
inaspettata, calda estate, obbediente agli ordini dei millecinquecento preti e
frati di Varsavia, i quali, coadiuvati da circa dodicimila volontari - studenti,
impiegati, gente di ogni estrazione sociale - avevano assunto la
responsabilità dell'ordine pubblico.
Nel mettere a punto gli ultimi
particolari della visita era stato stabilito che alle autorità civili
spettasse di mantenere l'ordine pubblico mentre quelle ecclesiastiche avrebbero
gestito in esclusiva la distribuzione dei biglietti di accesso ai riti sacri
presieduti dal Papa. La soluzione era apparsa soddisfacente alle due parti: lo
Statosi sarebbe messo al riparo da ogni critica, la Chiesa per la prima volta in
un regime comunista, avrebbe avuto la piena disponibilità di terreno
pubblico. Tuttavia su chi far ricadere la colpa nel caso in cui, fossero nati
incidenti? Le autorità ecclesiastiche di Varsavia s'erano assunte anche
il compito di curare l'ordine pubblico, ed avevano mobilitato preti, frati e
membri delle comunità parrocchiali.
Del resto quali incidenti
potevano verificarsi con un popolo cui era stato sufficiente far sapere dai
parroci che il Papa andava ricevuto con compostezza, senza alcuna forma di
trionfalismo, per adeguarsi alla richiesta? I parroci avevano persino vietato di
lanciare fiori verso Giovanni Paolo II, e gli abitanti di Varsavia avevano
obbedito deponendo con delicatezza garofani e gigli in fila continua
sull'asfalto, da ambo i lati della strada. Così quando il Papa, lasciato
l'aeroporto, dove era stato ricevuto dal presidente Jabloski, salito su un
minibus, come in Messico, era passato per i grandi viali controllati dagli
ecclesiastici, la folla aveva agitato bandierine vaticane ed applaudito con
discrezione. Da qualche parte, più tardi, si sosterrà che
l'atteggiamento dei varsaviesi, da loro stessi definito inconsueto, fosse
determinato dal clima di tensione, dalla paura. Forse questo timore albergava in
alcuni, ma non sembrò poi tanto diffuso: più valida era la
testimonianza della forza di persuasione posseduta dalla Chiesa in
Polonia.
L'incontro, puramente formale all'aeroporto, di Giovanni Paolo II
con il presidente polacco ebbe un seguito e acquistò sostanza nel momento
in cui il Papa, dopo il saluto rivolto ai fedeli nella cattedrale - durante il
quale additò il cardinale Wyszynski come la «chiave di volta»
della chiesa polacca - varcò la soglia del palazzo del Belvedere,
chiamato anche «piccola Casa Bianca» per essere costruito nel medesimo
stile e per svolgere lo stesso ruolo di quello di Washington nella vita del
paese. Ad attendere il Pontefice v'erano le più alte autorità
dello Stato, compreso Edward Gierek, il segretario del partito comunista
polacco, colui che allora, in pratica, governava il paese. Gierek, al cui
realismo politico si doveva il viaggio papale, assente all'aeroporto, si
intrattenne in colloquio privato con Giovanni Paolo II. Nessuno seppe, anche in
seguito, cosa fu detto nella sala Biedermeier del palazzo. La conversazione,
alla quale presero parte anche Jablonski e Wyszynski, restò riservata.
Pubblici, invece, lo scambio di discorsi che parvero essere come due parallele
destinate a non incontrarsi. Gierek mise in evidenza «l'alleanza di
amicizia e di cooperazione con l'Unione Sovietica» e si augurò che
il Papa condividesse con lui la gioia per i trentacinque anni di socialismo in
Polonia. Giovanni Paolo II evitò di accennare all'anniversario
dell'instaurazione del socialismo, si congratulò con il segretario
comunista per la completa ricostruzione del Castello reale di Varsavia -
«simbolo della sovranità polacca», disse - parlò del
diritto di ogni nazione alla autodeterminazione in politica denunciò il
«neo colonialismo» sia economico, sia militare.
L'uno s'era
limitato ad esaltare la Polonia di oggi e la sua appartenenza al mondo
comunista, l'altro s'era riferito soltanto al passato tributario del
cattolicesimo che non chiede vantaggi temporali. Il confronto proseguì
nel pomeriggio, col discorso della prima messa di Papa Wojtyla in Polonia, del
primo Pontefice che avesse oltrepassato la cortina di ferro.
Per celebrare
il rito le autorità comuniste avevano concesso piazza della Vittoria, la
più vasta di Varsavia, legata a molti ricordi storici, dove è
situata la tomba del Milite Ignoto. Non a caso l'altare su cui si ergeva la
croce alta sedici metri era stato posto proprio di fronte alla tomba, in modo da
unire idealmente, come è sempre stato nella travagliata storia di questo
paese, spada e croce. Non a caso Giovanni Paolo II, giunto sulla piazza, si era
genuflesso innanzi alla tomba e ne aveva baciato il freddo marmo prima di
recarsi sull'altare. Tutto s'era svolto in un profondo silenzio, quasi che nella
piazza non vi fossero quattrocentomila persone, quanti erano riusciti a trovarvi
posto. Una folla che poi seguì attentamente il rito liturgico, pregando,
rispondendo, partecipando intensamente a quanto si svolgeva sull'altare.
Il
groviglio d'emozioni che permaneva nei fedeli cominciò a sciogliersi non
appena il Papa, nell'omelia, ricordò come già Paolo VI avesse
desiderato andare in Polonia: glielo avevano vietato. Un primo applauso
sottolineò la stoccata al regime che quella visita aveva impedito. Solo
un anticipo di quanto accadde dopo aver udito dire da Giovanni Paolo II:
«La Chiesa ha portato alla Polonia Cristo... l'uomo non è capace di
comprendere se stesso fino in fondo senza il Cristo... e perciò non si
può escludere Cristo dalla storia dell'uomo in qualsiasi parte del globo,
sotto qualsiasi longitudine e latitudine. L'esclusione di Cristo dalla storia
dell'uomo...». L'applauso spezzò il discorso, divenne scrosciante,
ondate dietro ondate si susseguivano facendo trascorrere i minuti, cinque,
dieci, quindici. Da un lato della piazza s'era alzato il canto «Noi vogliam
Dio». Il Papa aveva smesso di leggere, con il capo chino aspettava senza
fare un gesto, dire una parola. Restava assorto in un pensiero che rivelò
l'indomani prima di lasciare Varsavia per intraprendere, il pellegrinaggio
religioso nei luoghi sacrilegati all'origine della fede e della coscienza
nazionale. Lo rivelò alle decine di migliaia di giovani che assistevano
ad una messa loro riservata.
«Da ieri sera sto pensando al significato
degli applausi che interrompono e concludono le mie parole», disse il Papa
ai giovani che avevano accolto con una lunga, lunghissima ovazione l'invito a
migliorare l'uomo con la «misura del cuore». «Dapprima mi sono
detto che è meglio che cessino altrimenti non si finisce più. Ma
stamattina mi è venuta una ispirazione, che mi diceva: tu devi parlare e
dialogare con loro, fare la predica con loro. Gli applausi non sono importanti,
importante è invece il momento, il punto in cui si fanno. Ieri per quasi
quindici minuti la folla ha applaudito quando ho pronunciato le parole Dio,
Cristo, uomo. Oggi quando ho pronunciato quelle di Spirito Santo, cuore, uomo. E
stato un applauso durato un po' meno di quindici minuti, ma altrettanto
insistente e significativo. Che cosa sta succedendo a questa nostra
società? Mi sembra che stia diventando una società
teologica».
L'ironica conclusione del Papa sottolineata
dall'ilarità degli studenti, non toglieva nulla al valore degli applausi
e al canto della folla «vogliam Dio», ripetuto pure dai giovani,
né al significato politico della domanda religiosa. Era più che
altro un abile modo per attenuare l'imbarazzo delle autorità comuniste
che non si aspettavano un così vistoso segno di protesta popolare,
immediatamente recepito anche fuori dai confini polacchi. Era accaduto, infatti,
che governo ed episcopato avessero concordato la diffusione televisiva sul piano
nazionale solo dei primi momenti della visita di Giovanni Paolo II, tra i quali
appunto la cerimonia religiosa di piazza della Vittoria. Per il prosieguo del
viaggio vi sarebbero stati soltanto trasmissioni regionali in ripresa diretta e
brevi compendi serali della giornata. La messa sulla piazza aveva quindi
raggiunto altri paesi dell'area socialista, provocando la reazione dei
responsabili sovietici, i quali corsero immediatamente ai ripari facendo
divulgare dalla loro rete televisiva, insieme con un breve filmato dell'arrivo
del Papa a Varsavia, il duro commento: «Vi sono ambienti nella Chiesa
polacca che tentano di sfruttare la visita per scopi antistatali».
Papa Wojtyla riceve il saluto del Presidente del Consiglio di Stato polacco Henryk Jablonski
GNIEZNO
Il brontolìo moscovita non impedì a
Giovanni Paolo II, che aveva raggiunto Gniezno in elicottero da piazza della
Vittoria - da cui durante la notte con incredibile, sospetta rapidità,
era stata smontata la grande croce e l'altare - di dichiarare uno degli
obiettivi del ritorno in patria. Sarebbe stato infatti ingenuo credere che
l'esule dalla Polonia per la designazione dei cardinali avesse voluto rivedere i
suoi luoghi per nostalgia. La nostalgia c'era, è evidente, e lo provarono
le lacrime subito asciugate nella cattedrale di Gniezno. Così come c'era
la commozione, talora nascosta da battute allegra: «A Roma fa molto caldo
ed io credevo, venendo in Polonia, di trovarvi molto fresco. Non è
così. Forse voi che lamentate d'aver freddo anche in luglio ed agosto, vi
siete detti: facciamoci un Papa e verrà il caldo». Ma nostalgia e
commozione non impedivano a Wojtyla di svolgere il progetto sottinteso
all'itinerario nell'est.
La visita a Gniezno, antica città la cui
storia si intreccia con quella dello Stato polacco fin dal suo inizio, aveva lo
scopo di una preghiera sul sarcofago di Adalberto, il santo che
evangelizzò gli slavi e dette inizio alla gerarchia ecclesiastica
polacca, ad una Chiesa che svolgendo un ruolo decisivo nella storia del paese
mantenne l'unità culturale del popolo malgrado gli smembramenti subiti.
Dunque un richiamo al passato del «primo Papa slavo» - come Giovanni
Paolo II si definì nella cattedrale di Gniezno - da rimeditare per
collegarlo con il presente e proiettarlo nel futuro: significava porsi quale
interlocutore privilegiato dei governanti di Varsavia e dell'area socialista
dell'est per conto dei cattolici europei latini e slavi. Il Papa «viene per
parlare davanti a tutta la Chiesa, l'Europa e il mondo di queste nazioni e di
questi popoli sovente dimenticati. Egli viene per indicare le strade che, in
diversi modi, conducono al Cenacolo della Pentecoste, alla Croce, alla
Resurrezione». Un dialogo anche forte e duro, proseguito durante la sosta a
Czestochowa, nel presiedere la conferenza annuale dell'episcopato
polacco.
Proprio in quella sede Giovanni Paolo II aveva affrontato dapprima
il tema della normalizzazione dei rapporti tra Stato e Chiesa in Polonia,
chiedendo il rispetto dei credenti e della Chiesa quale comunità
religiosa. «Ci rendiamo conto - disse - che questo dialogo non può
essere facile, perché si svolge tra due generi di concezione del mondo
diametralmente opposti, ma deve essere possibile ed efficace se lo esige il bene
dell'uomo e della nazione». Successivamente, quello dell'Europa, esortata a
superare le sue divisioni ideologiche, i disegni economici e politici
rifacendosi al cristianesimo.
Man mano che si inoltrava in Polonia
l'atteggiamento di Papa Wojtyla mutava. L'incontro con le moltitudini perdeva la
patina di forzata compunzione portata da Roma per divenire allegro e affettuoso.
I primi segni si erano avuti a Gniezno, con i giovani radunati sotto il balcone
del palazzo arcivescovile. Terminato il discorso, il Papa non aveva voluto
rientrare, cercando ogni possibile spunto per proseguire l'incontro. Per due ore
aveva cantato, incitando i giovani a far coro, scherzato, ascoltato i canti che
salivano fino a lui. E nessuno, né il segretario particolare, né
il cardinale Wyszynski, di volta in volta avvicinatisi per rammentargli con un
sussurro altri impegni, era riuscito a distaccarlo dai microfoni. Anzi il Papa
aveva coinvolto nel gioco delle battute scambiate con la folla anche il
cardinale. Ore che erano apparse una parentesi, attribuite all'euforia del
particolare uditorio che gli ricordava i ragazzi con cui usava compiere le gite
sui monti Tatra. «Montanaro, non sei triste allontanandoti dai tuoi
posti?», gli avevano cantato i giovani, e lui s'era unito al canto dei
montanari di Cracovia, riconoscendosi nell'abitante delle montagne trattenuto a
Roma.
CZESTOCHOWA
Ma non si trattava della parentesi di un giorno.
Anche a Czestochowa, nel grande monastero di Jasna Gora (la Montagna lucente)
che conserva l'icona bizantina, la Madonna Nera, madre di tutti i polacchi come
per i messicani quella di Guadalupe, Giovanni Paolo II non aveva esitato a
discorrere direttamente con le immense folle richiamate dalla sua presenza. Nel
corso della prima, grandiosa messa aveva interrotto la lettura dell'omelia per
segnalare la presenza dei presuli stranieri, s'era rivolto ai vescovi polacchi
dicendo loro: «Potrei chiamarvi uno ad uno con i vostri nomi di
battesimo». Aveva parlato di Wyszynski, invitando la gente ad applaudirlo;
aveva presentato il Segretario di Stato Casaroli e altri prelati che lo avevano
accompagnato in Polonia, concludendo: «Ho detto cose che non erano scritte,
prolungando la cerimonia. Voi direte: cosa ne dobbiamo fare di questo
Papa?» E la gente aveva risposto con un tradizionale canto augurale
polacco: «Cento anni devi vivere per noi». Inevitabile che Czestochowa
divenisse in quei tre giorni di sosta papale la meta di interminabili
pellegrinaggi, di grandiose udienze trasformate in feste religiose durante le
quali la gente si inginocchiava, cantava, pregava, di un continuo assedio a
stento trattenuto dalle alte mura del monastero fortezza. E non s'era giunti
alla fine dell'itinerario pontificio, alla tappa più colma di significati
rappresentata da Cracovia.
CRACOVIA
Dopo il conclave, il cardinale Wyszynski aveva
commentato l'adesione di Wojtyla alla designazione dei cardinali dicendo:
«È stato necessario un grande coraggio ed una grande rinuncia per stare
lontano dalla amatissima patria, dai pinnacoli del Wawel». Parlava della
collina di Cracovia sulla cui cima, contornata da bastioni e torri fortificate,
si ergono la cattedrale e il castello reale, un monumentale complesso che sposa
il gotico con il barocco; e già da solo, senza le altre decine di cupole
intorno o la rinascimentale piazza del mercato, rivela la suggestione
dell'antica fede dei sovrani polacchi. Fu naturale quindi che Papa Wojtyla
dedicasse la prima visita, arrivato nella sua città, senza percorrere la
strada che da Czestochowa porta a Cracovia, chilometri e chilometri inanellati
da un nastro di vessilli biancogialli e biancorossi (i colori polacchi) per
fargli festa, malgrado si sapesse che gli spostamenti avvenivano in elicottero,
ai pinnacoli del Wawel. Però la visita alla cattedrale, la genuflessione
e la preghiera dinanzi al sarcofago d'argento che conserva i resti di San
Stanislao, non furono determinati soltanto dall'acuto desiderio di ritrovarsi
tra le mura che lo avevano visto seminarista, vescovo, cardinale. L'altare
principale della cattedrale è chiamato «l'altare della patria»
per essere circondato dai ricordi più illustri e più sacri della
storia polacca. Ancora una volta il Papa polacco si richiamava al passato nella
speranza di persuadere a mutare il presente dei suoi connazionali.
Per la
verità fino a quel momento la speranza che i rapporti tra Stato e Chiesa
migliorassero non aveva ricevuto alcun incoraggiamento. Anzi i segnali giunti
dall'altra parte indicavano che l'irritazione andava aumentando. Da una
settimana l'intera Polonia non parlava e non pensava altro che al Papa. Nel
fuoco dell'entusiasmo per il ritorno dell'uomo che riassumeva la profonda fede e
il nazionalismo dei polacchi, tutto, regime e guai, sembrava annullato. Dal
canto loro le autorità governative avevano seguito il peregrinare di Papa
Wojtyla chiudendosi nel più assoluto riserbo, testimoniato dalle
asettiche cronache dei giornali. Infine era giunta l'avvertenza. Al termine di
una cronaca della visita papale, il settimanale ideologico del partito comunista
Politjca aveva scritto: «I discorsi del Papa sono letti ed analizzati non
solo dai credenti e non solo nel nostro paese». Poche, secche parole che,
come minimo, ipotecavano il successo politico del viaggio sottinteso a quello
religioso.
La pubblicazione avvenne alla vigilia di una giornata di forti
contrasti per il Papa, la visita al paese natale, Wadowice, e il pomeriggio,
all'infame luogo di morte voluto dai nazisti, Auschwitz. Nel primo l'accoglienza
festosa dei concittadini, al suono degli ottoni della banda municipale, con il
suo vecchio parroco, Edoardo Zacher, che accoglie il Papa all'ingresso della
chiesa, e gli ex compagni di scuola. Nel secondo i fili spinati intorno alle
costruzioni della vecchia fabbrica di tabacchi scelta da Himmler come uno dei
centri per il genocidio, la cosiddetta «soluzione finale» del problema
ebraico. Non era la prima volta che Wojtyla vi entrava. Da arcivescovo di
Cracovia più volte aveva superato il cancello su cui si legge la frase
scritta in ferro battuto Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi, il motto
della fabbrica divenuto sardonico per la particolare utilizzazione del luogo da
parte dei nazisti: Auschwitz, infatti, non è altro che la traduzione in
tedesco di Oswiecim, il grosso paesotto a pochi chilometri da Cracovia. Il Papa
vi si era recato in occasione della santificazione di Maximial Kolbe, il
francescano che aveva preso il posto nella cella della morte di un padre di tre
figli. E l'uomo per cui Kolbe aveva dato la vita era lì ad aspettare il
Papa che aveva sostato nella cella della morte del francescano per deporvi un
mazzo di garofani bianchi e rossi, inginocchiarsi, baciare il suolo.
Uscito
dalla cella, in uno dei blocchi rimasti così come li lasciarono i nazisti
in fuga (altri sono divenuti musei che custodiscono sconvolgenti documenti dello
sterminio, tra cui gli oggetti personali dei prigionieri, i cappelli, le
fotografie) Giovanni Paolo II aveva voluto percorrere la stradina che
dall'ingresso del campo giunge al «muro della morte»: un alto muro di
cemento dove venivano fucilati coloro i quali non venivano condotti nei
crematori. Poi aveva preso l'elicottero per superare i pochi chilometri che
separano Auschwitz da Birkenau, l'altro immenso lager sorto successivamente al
fine di accelerare l'annientamento degli «elementi nocivi» con il gas,
generalmente destinato alle donne. Erano occorsi molti altri forni crematori, in
maggioranza fatti saltare prima della fuga, per far scomparire quattro-milioni
di persone di 28 nazionalità.
A Birkenau, l'altare era stato eretto
al centro del campo - una area di 170 ettari e di 5 chilometri di circonferenza
- dinanzi al lungo binario su cui si fermavano i vagoni piombati. Sull'altare
una grande croce incoronata di filo spinato. Intorno decine e decine di migliaia
di persone che dalle prime ore del mattino avevano cominciato a riempire i
settori. Il sole e il verde dei prati portavano a dimenticare l'aspetto lugubre,
la geometria inquietante del filo spinato, le garitte, il lungo binario
proiettato verso il nulla. Ma bastava posare gli occhi sui più vicini
all'altare, su coloro, sacerdoti e laici, che avevano rimesso gli sdrucidi
vestiti a strisce bianche e blu dei prigionieri, quei vestiti con cui erano
usciti dai campi all'arrivo delle truppe sovietiche, per soffocare la voglia di
dimenticare. Al momento della recita del Mea Culpa, la folla ripetè le
parole pronunciate dal Papa: «Mia colpa, mia colpa, mia grandissima
colpa...», con un suono cupo di dolore.
«Con quale spirito
visiterà Auschwitz - aveva chiesto al Pontefice un giornalista sull'aereo
che lo portava a Varsavia - per giustizia o misericordia?». «Sempre
con misericordia», aveva risposto. Ma la misericordia non significa
dimenticare «questo Golgota del mondo contemporaneo», come dirà
Giovanni Paolo II nell'omelia, pronunciata a voce bassa, accorata, durante la
quale, dopo aver ricordato in particolare il sacrificio degli ebrei
(«Questo popolo che ha ricevuto da Dio il comandamento 'non uccidere' e
provato su se stesso in misura particolare cosa significa uccidere») e
quello del popolo polacco («Ancora un alto grido per il diritto della
Polonia ad un suo posto sulla carta dell'Europa. Ancora un doloroso conto per la
coscienza dell'umanità»), disse: «Ancora davanti ad un'altra
lapide scelgo di soffermarmi: quella in lingua russa. Non aggiungo alcun
commento. Sappiamo di quale nazione si parla. Conosciamo la parte avuta da
questa nazione nell'ultima terribile guerra per la libertà dei popoli.
Davanti a questa lapide non si può passare indifferenti».
Il
brano relativo ai russi non figurava nel discorso preparato in anticipo. Era una
aggiunta dell'ultimo momento che incontrava la piena soddisfazione dei dirigenti
politici polacchi e che attenuò o, addirittura, cancellò il loro
malumore. L'indomani il quotidiano del partito comunista Trybuna Ludu, riportava
una ampia cronaca della cerimonia e il discorso integrale del Pontefice. Nei
giorni precedenti invece l'organo comunista aveva avaramente misurato lo spazio
dedicato al «viaggio-pellegrinaggio» citando con scrupolo le
città visitate e scrivendo che il «figlio della nazione
polacca» era stato accolto «cordialmente sia dalle autorità sia
dal popolo». Il mutamento d'atmosfera lo si sentì concretamente
nelle ultime ore trascorse dal Papa in Polonia, tra i montanari del Trata, gli
studenti, gli amici delle riviste cattoliche di Cracovia, il mare di folla -
più di un milione di persone - presenti alla messa prima della partenza.
Manifestazioni accettate senza più irritazione per un consenso popolare
che partito e governo non avevano mai goduto nella forma espressa al Pontefice,
senza ufficiose accuse di integralismo ai discorsi papali, senza timori dovuti
all'eco presso gli altri regimi comunisti di un travolgente
entusiasmo.
L'ultima notte la folla s'era radunata intorno
all'arcivescovado, cantando «Stolat, stolat», l'augurio di campare
cent'anni. Il coro aveva raggiunto il Papa che dormiva nella sua vecchia stanza,
lo aveva svegliato, costretto ad apparire al balcone. «Volete veramente che
campi cent'anni?», domandò il Pontefice una volta calmatisi gli
applausi. «Sì», gli rispose un boato di voci. «Volete
veramente che mi mantenga in buona salute?», domandò ancora il Papa.
«Sì», tuonò la folla. «E allora andate a casa e
lasciatemi dormire».
La valutazione positiva del discorso di
Auschwitz, da parte delle autorità governative, che infine trovavano una
pagina di storia su cui concordare regime e Chiesa, si riflesse sul commiato di
Giovanni Paolo II da Cracovia e dalla Polonia, meno formale, più caloroso
dell'arrivo. A rendergli il saluto militare all'aeroporto distaccarono una
compagnia di alpini, significativo omaggio al «montanaro» che lasciava
i suoi monti. E fu udito questo dialogo del presidente Jablonski con il Papa.
«È stata una grande fatica?», domandò il capo dello Stato
polacco. «Sì - disse il Papa - ma ne valeva la pena». «Ho
saputo che è un poco raffreddato». «Ho parlato tanto».
«Ha visto come è verde la nostra terra?». «Proprio a
questo pensavo venendo qui, guardavo il panorama, guardavo i fiori. E proprio
bella la nostra Polonia».
Papa Wojtyla a Jasna Gòra
CREAZIONE DEI NUOVI CARDINALI E ANNUNCIO DEL VIAGGIO IRLANDA-STATI UNITI
«I cardinali sono un ghiribizzo del Papa, li
fa quando e come vuole lui», sogliono dire in Vaticano per spiegare come la
creazione dei porporati sia un fatto esclusivo del Pontefice. L'espressione
è vera fino ad un certo punto giacché anche i papi non possono
dimenticare situazioni ed esigenze, ignorare le attese e, talvolta, persino le
tradizioni. Una di queste vuole che il Papa appena eletto, nel mettersi lo
zucchetto bianco, doni quello rosso al prelato che ha svolto le funzioni di
segretario del conclave, anticipandogli la designazione a cardinale quale premio
per il lavoro compiuto. Giovanni XXIII compì il gesto con tale
rapidità che lo zucchetto finì sugli occhi del segretario del
conclave, monsignor Alberto di Jorio, rimasto immobile, quasi fulminato dalla
gioia. Paolo VI, invece, si infilò lesto lo zucchetto in tasca. Anche
Giovanni Paolo II aveva evitato di attenersi all'antico gioco, forse per
l'emozione del momento, forse perché gli era stato suggerito di meditare
su ogni passo. Ma nel creare i cardinali il 30 giugno, egli rinnovò la
tradizione: nella lista dei nuovi quindici cardinali figurava anche il nome di
monsignor Antonio Civardi, segretario del conclave da cui era uscito
eletto.
La nomina dei nuovi cardinali, in particolare modo la prima di un
pontificato, è una decisione che gli studiosi del mondo ecclesiastico e
la curia romana soppesano attentamente per trarne indicazioni e orientamenti
sulle scelte del nuovo Papa. In questo caso appariva evidente che Giovanni Paolo
II aveva proceduto secondo un abile dosaggio tra gli impegni presi chiamando a
Segretario di Stato un non cardinale, coprendo le sedi cardinalizie vacanti di
Torino, Venezia e Cracovia, ampliando l'internazionalità del collegio
cardinalizio; infine c'era il rispetto della tradizione. Infatti sei dei
quindici cardinali erano italiani, tutti con incarichi sempre connessi con la
porpora, dal Segretario di Stato Casaroli agli arcivescovi di Torino e Venezia,
Ballestrero e Cé, al nunzio apostolico a Parigi, Lambertini Righi, all'ex
«sostituto» della Segreteria di Stato, Caprio; due rappresentavano la
componente asiatica, un giapponese e un vietnamita, nell'assemblea cardinalizia;
uno, l'arcivescovo Corripio di Città del Messico, significava il
ringraziamento papale al paese che lo aveva accolto con tanto entusiasmo, mentre
la Polonia veniva ricordata dando il cappello cardinalizio non solo al
successore di Papa Wojtyla a Cracovia, che era scontato, ma anche ad un presule
polacco da anni a Roma, Rubin.
Solo uno dei quindici cardinali rimase
ignoto, perché in pectore, formula adoperata quando la persona scelta
opera in una situazione che non consente di rivelarne l'identità. Si
disse che era un lituano, ne circolò anche il nome, però la
conferma si avrà solo quando il Papa riterrà opportuno sciogliere
la riserva. Anche Paolo VI si riservò in pectore due cardinali: il nome
di uno fu in seguito rivelato, l'attuale arcivescovo di Praga, Tomasek; l'altro,
per la morte di Montini, non fu mai noto.
Per creare i suoi quindici
cardinali Giovanni Paolo II aveva superato il numero massimo stabilito da Paolo
VI, fissato a centoventi membri al di sotto degli ottanta anni, con diritto
cioè a partecipare al conclave. Per gli ultraottantenni non esiste
limite. Ma l'aver portato il numero degli inferiori agli ottanta anni, da 120 a
, non destò alcuna emozione. Con un Papa ancora al di sotto della
sessantina ed un pontificato prevedibilmente lungo, assai lungo, il collegio
cardinalizio sarebbe stato rinnovato più volte. E poi quella distinzione
fatta da Papa Montini tra cardinali cosiddetti vecchi e giovani per aver
compiuto o no gli ottanta anni, non aveva mai incontrato la soddisfazione degli
ambienti ecclesiastici. Anzi molti speravano che Giovanni Paolo Il abolisse la
distinzione, tornasse «ai buoni tempi antichi». Il Papa non lo fece:
tuttavia, nell'allocuzione pronunciata per la creazione cardinalizia
sottolineò il ruolo dei porporati, più esattamente del loro
organismo, chiamato con l'espressione caduta in disuso di Senato della Chiesa. I
critici interpretarono la definizione come un dissenso nei confronti della linea
seguita da Paolo VI, il quale aveva pensato, parlandone pubblicamente, di mutare
le prerogative del collegio dei cardinali, attribuendo anche a una
rappresentanza dei vescovi l'elezione del Pontefice. Era un giudizio affrettato,
tanto più che nella medesima allocuzione Giovanni Paolo II aveva
ricordato di aver scelto la fine del mese di giugno per la creazione
cardinalizia perché in quella data avveniva l'usuale incontro di
metà anno del suo predecessore con i porporati. E lui aveva voluto
seguire l'esempio dell'uomo, «al quale ci legano moltissimi altri
vincoli», anche facendo un rapporto, come era costume di Paolo Vi, di
quanto era accaduto nella Chiesa nei primi sei mesi dell'anno. Ma cosa era
accaduto salvo i suoi viaggi in Messico e in Polonia?
Il rapporto ai
cardinali sui viaggi fu piuttosto sommario, in special modo quello relativo alla
Polonia, le cui autorità furono nuovamente ringraziate per avere
consentito al Papa di rivedere la patria, «manifesta la rilevanza che
internazionalmente spettando ad una visita pontificia». Giovanni Paolo II
non poteva aggiungere altro, i commenti e le interpretazioni erano apparsi sui
giornali. «A Roma leggerò attentamente quanto scrivete», aveva
detto a Cracovia ricevendo i circa settecento giornalisti, compresi quelli
sovietici, che ne avevano seguito i passi. E di quella lettura doveva essere
restato soddisfatto perché tutti gli osservatori avevano rilevato la
sensazione che durante le giornate polacche una pagina era stata voltata, che lo
scontro ideologico verificatosi durante il suo peregrinare aveva senza dubbi
visto prevalere la Chiesa e non compromesso l'evoluzione positiva dei rapporti
con lo Stato.
Il soggiorno del Papa aveva avuto soprattutto un effetto
psicologico che impegnava il regime comunista a modificare la situazione per
giungere ad una normalizzazione con la Chiesa, peraltro ancora vista dalle due
parti in modo difforme. La Polonia in sostanza non sarebbe stata più come
prima.
I cardinali avevano piena consapevolezza di quanto era accaduto,
dell'accelerazione che Giovanni Paolo II aveva impresso alla vita internazionale
della Chiesa. Né si stupirono della quasi giustificazione addotta dal
Papa per i suoi viaggi: il richiamo a Paolo VI, al quale andava attribuito il
merito di avere introdotto nell'ufficio pontificale il contatto con i fedeli
recandosi presso di loro. L'accenno confermava le indiscrezioni sul prossimo
volo fuori d'Italia di Giovanni Paolo II, l'avanzata fase di preparazione di un
nuovo itinerario religioso-politico: sette giorni da trascorrere in Irlanda e
negli Stati Uniti.
L'annunzio ufficiale fu dato un mese e mezzo più
tardi con un comunicato de «L'Osservatore Romano» che però non
specificava quali zone dell'Irlanda il Papa avrebbe visitato, se per Irlanda si
intendeva solo quella parte che da mezzo secolo era divenuta repubblica
dell'Eire oppure anche il nord, il martoriato Ulster, tuttora regione inglese.
La genericità dell'indicazione era determinata dall'incertezza della
presenza papale nelle province insanguinate dalla guerriglia tra cattolici e
protestanti, dallo stillicidio di attentati terroristici che regolarmente
coinvolgevano l'esercito inglese. Il Papa desiderava recarsi anche nell'Ulster,
e probabilmente avrebbe superato tutte le obbiezioni che si muovevano al
progetto se lunedì 27 agosto, il «lunedì nero», non si
fosse verificato l'assassinio dell'ex viceré dell'India, Lord
Mountabatten, e di diciotto militari inglesi ad opera degli oltranzisti
cattolici irlandesi del nord. Quel giorno il Papa era appena rientrato dalle
montagne del Bellunese, dove aveva trascorso l'anniversario dell'elezione di
Luciani visitandone il paese natale, Canale d'Agordo, e Belluno, spingendosi
sulla vetta della Marmolada per benedire la statua in bronzo della Madonna
«Regina delle Dolomiti» e recitare l'«Angelus» a più
di tremila metri. Una sosta svoltasi sotto una bufera di neve, che non era
dispiaciuta all'uomo abituato a sciare nelle vallate dei monti Tatra. Una vera
avventura per i prelati del seguito, intirizziti dal freddo, mentre il Papa -
cui avevano fatto indossare una giacca a vento bianca - si muoveva completamente
a suo agio tra villeggianti e guide alpine che gli avevano donato un paio di
sci. «Mi piacerebbe molto usarli aveva commentato il Pontefice - ma prego
ogni giorno Dio di non essere indotto nella tentazione di tornare a sciare. Dio
benedica gli sciatori e... le loro gambe».
Il nuovo vescovo di Cracovia Monsignor Francesco Macharski
UNA SITUAZIONE DELICATA
Avuta la notizia dell'attentato Giovanni Paolo II
aveva inviato un personale messaggio di condoglianze alla regina Elisabetta,
parente dell'assassinato Lord Mountbatten, per «un atto di violenza che
è un insulto alla dignità umana». «Io lo condanno
fermamente - vera scritto nel messaggio - insieme con tutti gli altri atti di
violenza che hanno ieri provocato lutto e profonda sofferenza di numerose
famiglie». A tutti appariva ora evidente che il riacutizzarsi della
vertenza irlandese avrebbe fatto correre pericoli al Pontefice. Ma Papa Wojtyla
non voleva desistere dal progetto, sembrandogli ancor più necessario
superare il confine. A dissuaderlo fu l'arcivescovo di Armagh, Tommaso Ò Flaich,
uno dei cardinali creati in giugno.
Ò Flaich si trovava a Roma appunto per
definire l'itinerario del viaggio in Irlanda. Parlò a lungo con Giovanni
Paolo II. Disse che il clero nord irlandese sarebbe rimasto molto deluso di non
ospitare il Pontefice, lui stesso ne era profondamente addolorato, ma vivendo in
una diocesi attraversata dal confine valutava esattamente il rischio che il Papa
avrebbe corso attuando il proposito di recarsi nel «cuore caldo» del
paese, dove più sanguinosi e violenti si accendevano i conflitti. Certo -
proseguì il cardinale - gli Irlandesi rispettano il coraggio, e il
superamento del confine da parte del Pontefice per una sosta di poche ore ad
Armagh e magari in un borgo a pochi chilometri di distanza, Crossmaglen (nel
quale le truppe inglesi possono entrare solo con i carri armati) sarebbe stato
atto di coraggio, ma cosa poteva egli offrire come garanzia del rispetto degli
Irlandesi, oltre alla sua personale testimonianza? Troppo poco, quando la posta
del gioco era rappresentata dalla vita stessa del Papa.
L'appassionato
intervento del cardinale, il quale in un primo tempo aveva insistito a nome di
gruppi di cattolici e protestanti perché l'Ulster non fosse scartato dal
programma, convinse Giovanni Paolo II.
Nel lasciare Roma il cardinale
irlandese consegnò ai giornalisti una dichiarazione scritta:
«Abbiamo avuto una udienza di due giorni con il Santo Padre a Castel
Gandolfo. Abbiamo anche avuto degli incontri con il cardinale Casaroli e i
funzionari della Segreteria di Stato. I terribili fatti di quest'ultimi giorni
in Irlanda hanno portato un'ombra pesante su tutti i nostri incontri e
discussioni». Egli attribuiva così la rinuncia alla progettata
visita papale ad Armagh alla virulenta ripresa del terrorismo in
Irlanda.
Più facile, al contrario, si presentava l'organizzazione
del viaggio negli Stati Uniti, anche se non mancavano gli ostacoli da superare.
Il Papa aveva ricevuto un triplice invito, da parte di Kurt Waldheim, segretario
generale dell'ONU; dall'episcopato nordamericano e dal presidente Jimmy Carter.
L'internazionalità dell'ONU avrebbe dovuto avere la precedenza nel
programma, come era accaduto con Paolo VI quando nel 1965 s'era recato al
Palazzo di vetro. Però fu obiettato che il precedente non era valido:
Montini s'era trattenuto una sola giornata sul suolo americano e aveva quale
scopo principale di parlare ai rappresentanti dei governi. Il viaggio di
più giorni di Giovanni Paolo Il consentiva la messa a punto di un altro
itinerario che privilegiasse l'episcopato. Il dibattito fu placato da un
compromesso: il Papa sarebbe sceso a Boston per raggiungere subito dopo l'ONU,
nella cui sede si sarebbe trattenuto anche oltre il discorso all'assemblea,
visitando poi sei città, compresa Washington, ultima tappa destinata
all'incontro con Carter nella Casa Bianca. Sei città in sette giorni, un
percorso complessivo, tra Irlanda e Stati Uniti, di oltre 17 mila
chilometri.
Giovanni Paolo II in preghiera davanti alla Madonna di Loreto
NELL'ISOLA DEI SANTI
«Santo Padre e distinti visitatori, ora
potete fumare se lo desiderate»: l'avvertenza diffusa mediante i microfoni
all'interno dell'aereo che il mattino del 29 settembre 1979 portava il Papa a
Dublino, accolta con ilarità dai passeggeri, anticipò in un certo
senso l'atmosfera di semplicità e di cordialità in cui si
trovò avvolto il Papa durante i tre giorni trascorsi nell'«isola dei
Santi». A chiamare così l'Irlanda era stato Giovanni Paolo II
nell'accomiatarsi dalle autorità civili ed ecclesiastiche che assistevano
alla partenza. Una definizione più che giustificata per un popolo dalle
caratteristiche cattoliche non molto dissimili da quelle messicane o polacche,
cioè ancorato alla pratica religiosa quotidiana, e con un passato di
lotte sostenute per difendere la fede.
Era logico, quindi, che l'attesa per
il Papa fosse vivissima, che ai tre milioni di abitanti della repubblica
d'Irlanda se ne aggiungessero migliaia e migliaia provenienti dal nord soggetto
all'Inghilterra; che le strade di Dublino fossero invase da ritratti del
Pontefice, striscioni, manifesti murali, bandiere bianco-gialle. Ma non si
verificarono scene di fanatismo religioso o di devozione portata al parossismo.
Qualcuno in seguito dirà che ciò fu dovuto all'apprensione che
trapelava dietro la gioia, al timore che le organizzazioni paramilitari degli
oltranzisti protestanti del nord - i quali avevano giurato di vendicare la
strage del «lunedì nero» - compissero qualche gesto di rivalsa
nei confronti di Giovanni Paolo II. Non era da escludere.
L'aeroporto e
Dublino erano stati posti quasi in stato d'assedio: vietato il sorvolo della
città, proibito il traffico automobilistico per chilometri e chilometri,
strettissimo controllo sulle persone. Nessuno che avesse un pacco o una
valigetta poté accostarsi al Papa durante il tempo che rimase
all'aeroporto per rispondere al benvenuto del presidente Patrick Hillary, il
quale, salutandolo, aveva detto: «Finché l'Irlanda esisterà,
questa visita sarà ricordata». Persino le macchine da scrivere dei
giornalisti vennero «saggiate», battendone i tasti al fine di
accertare che non nascondessero ordigni pericolosi. Tuttavia è difficile
credere che il comportamento di un popolo possa venire tanto immediatamente
condizionato da timori peraltro nutriti a ben altro livello. Più semplice
e più giusto credere che nella reazione dei fedeli irlandesi ebbe un
ruolo preponderante la partecipazione emotiva. Almeno questo è ciò
che maggiormente emerse fin dal primo incontro della massa con il Papa a Phoenix
Park.
PHOENIX PARK E DROGHEDA
Almeno un milione di persone s'era radunato
nell'immensa area verde, in cui i boschi di querce e di pini si alternano a
vaste radure erbose, per assistere alla messa concelebrata dal Papa con cento
vescovi e cento preti sotto una gigantesca croce di ferro. Un atto liturgico che
valeva quale premio per una cattolicità che da secoli guarda a Roma con
fedeltà e dedizione al punto di aver corrisposto senza tentennamenti o
dubbi alla richiesta dei vescovi di tassarsi per far fronte alle eccezionali
spese necessarie per accogliere il Pontefice. Un rito seguito con assorta
attenzione che, al termine, mentre Giovanni Paolo II percorreva i viali in una
automobile scoperta, si è stemperata in migliaia di episodi colmi di
calore umano. C'è stata gente che piangeva di commozione per aver visto
il Papa da vicino, altri che lo accoglievano cantando l'inno della gioia. Un
ragazzo, riuscito a superare gli stretti cordoni di vigilanza che accompagnavano
il lento procedere dell'auto, ha offerto a Giovanni Paolo II una rosa. Il Papa
ha sussurrato commosso: «Che pensiero toccante», ed ha tenuto il fiore
nelle mani per diversi minuti.
Però, sebbene spettacolare, non fu la
cerimonia di Phoenix Park il momento culminante della giornata. L'attenzione
degli Irlandesi, e non solo la loro, doveva restare più attratta dal
raduno di Drogheda, la città dove nel 600 sbarcò Cromwell per
sconfiggere gli Inglesi, distante cinquanta chilometri dal confine con l'altra
Irlanda, quella del nord, in cui il Papa non aveva potuto mettere piede. A
Drogheda, infatti, attorno ad una collina su cui avevano eretto l'altare,
Giovanni Paolo II precisò il messaggio che era venuto a portare in
Irlanda.
Intorno a lui v'erano trecentomila persone, quasi tutte giunte a
piedi se non altro perché le strade erano vietate al transito per un
raggio di parecchi chilometri. Molti erano arrivati nel corso della notte con i
materassini di gomma e le provviste, sistemandosi entro l'enorme perimetro
circondato di filo spinato e sorvegliato da militari armati distanti l'uno
dall'altro dieci metri.
Una sorta di campo di concentramento che
documentava visivamente la situazione in cui vivono gli Irlandesi del nord e
l'urgenza del messaggio evangelico di pace riproposto dal Papa. «Fin tanto
che esistono ingiustizie in qualsivoglia dei settori che toccano la
dignità della persona umana disse Giovanni Paolo II - sia nel campo
politico, sociale, economico, sia nella sfera culturale e religiosa non
esisterà vera pace». Premessa indispensabile per chi, come il
Pontefice, intendeva smentire che il conflitto irlandese sia di natura religiosa
e invitare tutti a far cessare la violenza: gli uomini politici che debbono
affrontare le loro responsabilità e decidersi ad agire «per un
giusto cambiamento»; «coloro che sono scoraggiati dopo i molti anni di
violenze e di alienazioni perché tentino ciò che sembra
impossibile»; «i giovani che rischiano di rimanere irretiti dalle
organizzazioni terroristiche»; «gli uomini e le donne impegnate nella
violenza». L'appello a costoro fu il momento più appassionato del
discorso di Drogheda: «Faccio appello a voi, nel linguaggio di una
perorazione appassionata. In ginocchio vi imploro di allontanarvi dai sentieri
della violenza e di tornare alle vie della pace. Voi potreste reclamare di
essere in cerca di giustizia. Ma anch'io credo nella giustizia e cerco
giustizia. La violenza dilaziona soltanto il giorno della giustizia e ne
distrugge l'opera».
L'INCONTRO CON I VESCOVI
I temi del discorso di Drogheda furono in parte
approfonditi l'indomani nel piccolo porto di Galway durante la messa celebrata
per i giovani, e ancora a Dublino, nell'incontro con i presuli. Anzi fu proprio
con i vescovi che la requisitoria papale contro il terrorismo, coniugata insieme
con l'esortazione alla riconciliazione, ebbe un ulteriore sviluppo nel senso che
l'episcopato fu duramente richiamato ad uscire dalla passività, a dare
più incisività all'azione pastorale. «Durante gli ultimi due
secoli ricordò il Papa ai vescovi - la Chiesa in Polonia ha affondato in
modo specialissimo le sue radici entro l'anima della nazione. In parte la
ragione di ciò va ricercata nel fatto che i suoi pastori, vescovi e
preti, non hanno esitato a condividere drammi e sofferenze dei loro
concittadini». Più oltre: «I pastori, e specialmente i vescovi
devono riflettere con lungimiranza sul come prevenire le stragi, gli odi e il
terrore, sul come lavorare per la pace e preservare il popolo da quelle
terribili sofferenze». Ad aumentare il richiamo si aggiunse la rivelazione
che anche da parte di membri della gerarchia ecclesiastica irlandese era stato
sconsigliato il viaggio e che l'invito dei quattro arcivescovi cattolici era
stato seguito dai capi di Chiese non cattoliche, particolarmente dagli
anglicani, «segno di speranza molto promettente».
PARTENZA DALL'IRLANDA
Il week-end irlandese di Papa Wojtyla, da sabato a
lunedì, colmo di appuntamenti con le componenti della Chiesa, e con la
visita al santuario mariano di Knock, terminò a mezzogiorno inoltrato,
quando le campane di tutta Dublino suonarono a stormo e gruppi di ragazzi
ballarono e cantarono «alleluja» a ritmo di spiritual intorno
all'ospite sul piede della partenza. Quanti in Vaticano, alla vigilia, s'erano
chiesti con perplessità se fosse stata opportuna la sosta in Irlanda per
il prestigio del Pontefice potevano già concludere positivamente: almeno
uno su tre irlandesi aveva visto Giovanni Paolo II da vicino, partecipato a
celebrazioni che erano state al tempo stesso grandi feste popolari, ascoltato
parole che sarebbero rimaste impresse nei loro cuori. Il Papa s'era mosso con
indubbio equilibrio tra le esacerbate avversioni e l'appello agli eserciti
clandestini avrebbe avuto, forse, con il tempo qualche effetto sugli animi,
malgrado fosse stato discusso e respinto dai loro leaders. Del resto Giovanni
Paolo II lo aveva previsto, dicendo a Drogheda: «E anche se la mia voce non
fosse ascoltata, testimoni la storia che in un momento difficile nell'esperienza
del popolo d'Irlanda il Papa ha posto piede sulla vostra terra, ed è
stato con voi, ha pregato con voi per la pace e la
riconciliazione».
Papa Giovanni Paolo II con il Cardinale Ò Fiaich
L'ARRIVO NEGLI STATI UNITI
«Vengo a te, America, con sentimenti di
amicizia, reverenza, stima. Vengo come uno che già ti conosce e ti ama,
come uno che desidera che tu possa compiere il tuo destino di servizio al
mondo». Il saluto di Giovanni Paolo II nell'aeroporto di Boston, diffuso
dai giornali, trasmesso dalle reti televisive e radiofoniche non poteva non
elettrizzare un paese che, nelle preannunciate soste, s'era preparato da tempo
ad accogliere grandiosamente il visitatore. Lo si vide subito, fin da Boston,
inorgoglita d'essere stata scelta come città dell'atterraggio, anche se
doveva ospitarlo per neppure ventiquattrore. Lo si vide lungo il percorso dalla
periferia al cuore della città, delimitato da cinquemila barili vuoti di
ferro che sostenevano centotrenta chilometri di corda: un tragitto che
ripercorreva, simbolicamente, il cammino dei primi cattolici che sbarcarono nel
Massachsettes. Il seme di una Chiesa cresciuta rapidamente, divenuta forte, pure
sotto il profilo finanziario. Lo si vide passando per le strade di una
città, un tempo dominata dai protestanti ed oggi dai cattolici, campione
tipico di quella pentola di fusione che è il marchio di fabbrica
dell'America. In quell'enorme condominio che è Boston, non sempre
armonico, tra italiani, irlandesi, polacchi e un'altra dozzina di gruppi etnici,
Giovanni Paolo II ricevette le prime acclamazioni da circa due milioni di
persone schierate fino alla cattedrale di Santa Croce, una fortezza di pietra
che un tempo alzava le sue mura massicce nel cuore di un ghetto assediato da
forze diverse ed ostili.
Passando dinanzi a Little Italy, Papa Wojtyla
poté vedere le case ammantate dal tricolore (alcune ancora con lo stemma
sabaudo) e la statua di Santa Agrippina portata sul marciapiede per ricevere la
benedizione. A Kosciusko Circle gli striscioni parlavano polacco mentre a Kelly
gli evviva furono urlati in irlandese e a Robury in spagnolo. Un preambolo al
trionfo che doveva decretargli New York dopo il discorso all'ONU.
IL DISCORSO ALL'ONU
Nel 1965 il volo sull'oceano Atlantico di Papa
Montini per atterrare a New York, in un paese dove l'elezione di Kennedy era
stata salutata come fine dell'antico ostracismo ai cattolici, aveva destato
molto clamore: era trascorso meno di un secolo da quando Abramo Lincoln aveva
spedito un inviato a Pio IX per chiedergli di fare cardinale qualche presule
americano e l'inviato era stato accolto in Vaticano quasi fosse il
rappresentante dei pellirosse. Lo scopo del viaggio di Montini era di parlare
all'assemblea generale dell'ONU, peraltro minata da così profondi dissidi
che sostenerla poteva rappresentare un rischio. Paolo VI lasciò Roma per
una sola giornata, il breve tempo che potè sottrarre ai lavori del
concilio Vaticano Secondo; salì sul podio della grande aula e mise in
gioco due millenni di storia, il peso e il prestigio della Chiesa, per sostenere
un organismo di appena vent'anni.
Giovanni Paolo II non ebbe alcuna
esitazione nell'accettare l'invito di Waldheim né fece informare i
diplomatici accreditati presso la Santa Sede - come nel 1965 il suo predecessore
- che recandosi all'ONU intendeva dare «una nuova incontestabile prova
dell'immenso prezzo che la Chiesa cattolica e lui stesso attribuiscono alla pace
nel mondo». Gli era stata offerta una occasione di insistere sul tema
dell'uomo, al centro del suo pensiero e della sua azione di Pontefice, e lui
l'aveva accolta.
Ora, seduto su un'ampia poltrona sotto la cupola del
palazzo delle Nazioni Unite, una cupola che è il centro focale di una
architettura grandiosa e singolare insieme, fra l'assorta attenzione di duemila
delegati e di quattromila invitati, egli parla: con un discorso asciutto,
vigoroso, senza enfasi, scava nelle profonde motivazioni dei conflitti, dello
«spirito di guerra», che minacciano l'umanità. Parte
dall'appassionato appello di Montini per la pace e la riduzione degli armamenti
per andare oltre, denunciare coloro che ostacolano sotto vari pretesti il
processo di disarmo. Può la nostra epoca ancora credere che la
vertiginosa corsa agli armamenti serva alla pace? o non è piuttosto vero
che adducendo la minaccia di un nemico potenziale ci si riserva «a propria
volta un mezzo di minaccia per ottenere, con l'aiuto del proprio arsenale, il
sopravvento?». Punto centrale del discorso, l'affermazione che la minaccia
sistematica ai diritti dell'uomo è causata dalla maniera con cui i beni
materiali sono distribuiti nella società e sulla scena internazionale. Di
qui la condanna di atteggiamenti egemonico-imperialistici e la sollecitazione a
operare per dare vita a sistemi sociali, economici politici nei quali si tenda a
superare lo sfruttamento dell'uomo e si dia all'uomo non soltanto una parte equa
dei beni ma la capacità di essere protagonista del processo produttivo e
delle sue correlazioni sociali.
Giovanni Paolo II termina di parlare.
L'assemblea si scuote dal suo religioso silenzio con un prolungato applauso.
Nessuno può prevedere quale influenza avrà l'appello per il
disarmo, il rimprovero alle superpotenze che rischiano, dimenticando la strada
della ragione, di portare il mondo alla guerra. Ma certo a rafforzare le parole
di Papa Wojtyla, a sottolinearle, contribuì la realtà fisica di
una città come New York.
2 ottobre 1979: Papa Wojtyla parla dalla tribuna delle Nazioni Unite
NEW YORK, LA «GRANDE MELA» ANCHE PER WOJTYLA
Quel giorno a New York pioveva, e la pioggia di
solito attenua se non spegne gli entusiasmi. Non per New York. New York ebrea,
cattolica, protestante, agonistica era scesa nelle strade per fare ala al corteo
papale, dal Palazzo di vetro a Saint Patrick, e poi dalla cattedrale allo Yankee
Stadium per celebrare la messa. Tredici miglia di applausi, di sventolio di
bandiere, acclamazioni. Su un cartello, grande quanto la facciata di un
grattacielo, era scritto: «Ringraziamo il Signore per averci mandato un
uomo come questo». Così dallo splendente centro di Manhattan ad
Harlem, al South Bronx. Già, perché anche Harlem, sinonimo di
povertà, di ingiustizia, di violenza, ghetto dei neri di New York,
abitato da una folla che non si scuote per nessuna cosa al mondo e che non era
mai scesa ad applaudire nessuno, soprattutto un «uomo bianco», anche
Harlem, per la prima volta nella storia, s'era lasciata coinvolgere. Agli angoli
delle sue strade numerose orchestrine suonavano «alleluja» o
spirituals. La folla ne scandiva il tempo con il battere delle mani. Sui muri di
molte case, l'invito in vernice bianca: «fatti cattolico».
Il
giorno successivo i giornali di New York, e di molte altre città
americane, cominciavano a chiedersi cosa aveva attirato l'attenzione di milioni
di gelidi, distanti newyorchesi. Ma ancora non s'era assistito alla famosa
«ticker tape parade», il lancio di coriandoli che la città
accorda raramente a uno straniero, e neppure s'era assistito all'incontro del
Papa con ventimila teenagers al Madison Square Garden. Ventimila ragazzi che
dopo aver consegnato al Pontefice i loro doni - un paio di blue jeans, una
chitarra, una maglietta a mezze maniche con al centro stampata una grossa mela,
il simbolo di New York - si scatenavano dando vita ad un happening di canti,
cori, di discorsetti improvvisati, di battute scherzose alimentate da Giovanni
Paolo II.
FILADELFIA
«Good bye New York» aveva detto il Papa
prendendo l'aereo per Filadelfia, ringraziando la città che con il suo
entusiasmo, talora persino eccessivo, testimoniava il bisogno di una
spiritualità e di un messaggio, anche di una guida, ritrovate nell'uomo
venuto dalla Polonia. «Mancava una leadership morale», scrivevano i
giornali tentan di di analizzare cosa stava succedendo agli Americani.
«Tutto questo è dovuto», diceva il New York Times, «alla
delusione che un crescente numero di persone prova per questo mondo
secolarizzato, e all'abilità di Giovanni Paolo di raggiungere e toccare
la solitudine spirituale della folla». Ma fosse religione, curiosità
o crisi di civiltà, la gente di Filadelfia accorse ancora più
numerosa che a New York per ascoltare il Papa, il quale, giorno dietro giorno,
contestava e demoliva i capisaldi della morale corrente, occidentale e americana
in particolare, richiamando i valori della tradizione cattolica.
A
Filadelfia, sotto «Liberty Bell», la storica campana
dell'indipendenza, il Papa riprese ed ampliò il tema della
libertà, ripetendo che la libertà morale non è senza
confini, che non c'è vera libertà se si intaccano e danneggiano i
diritti degli altri. Ogni città riceveva Giovanni Paolo II mettendo in
evidenza i suoi aspetti più peculiari. Se New York aveva festeggiato
l'ospite coprendone l'automobile di coriandoli, Filadelfia lo accolse con mille
ragazze vestite da majorettes, abito dorato e cappello bianco, nonché
ragazzi nell'uniforme dei soldati della rivoluzione americana. Nello Iowa,
invece, nel cuore dell'America rurale, gli agricoltori di Des Moines - la
città del West, inserita nel turbinoso itinerario papale per una sosta di
alcune ore, prima della tappa di Chicago - gli agricoltori avevano lavorato
parecchie settimane al fine di preparare uno spiazzo capace di contenere mezzo
milione di persone. Se ne presentarono più di un milione, malgrado il
Middle West fosse a maggioranza protestante.
CHICAGO
«Da Filadelfia a Des Moines, da Des Moines a
Chicago. In un giorno ho visto gran parte del vostro spazioso paese e ho
ringraziato Dio per la fede e i nobili intenti della popolazione»,
esclamò il Papa mettendo piede a Chicago, dove lo attendevano
trecentoquarantacinque vescovi nordamericani. Un raduno che doveva essere un
confronto, se non altro per le inquietudini di una Chiesa percorsa da dubbi
sulla dottrina tradizionale, sollecitata da fermenti e tensioni. All'assemblea
dell'episcopato Papa Wojtyla dichiarò che non esistono vie di mezzo, che
la tradizione non si cambia, che il cattolico o è com'è sempre
stato o non è cattolico. Parole dirette ad affermare
l'indissolubilità del matrimonio, ratificare il divieto dell'uso dei
contraccettivi, negare giustificazioni all'omosessualità. Prese di
posizione dure che non influirono tuttavia sul successo popolare del viaggio,
né sull'entusiasmo della folla che, a qualunque credo o religione
appartenesse, si riconosceva nel «pellegrino polacco». Chicago,
infatti, non fu da meno con i suoi crisantemi - non considerati fiori dei morti,
negli Stati Uniti - che adornavano il pendio della collinetta nel Grant Park, il
parco centrale della città su cui si elevava l'altare per la messa,
concelebrata dal Papa e dai trecentoquarantacinque vescovi; con la marea umana
che cantava, come in Polonia, «noi vogliam Dio» e seicento preti che
distribuivano le comunioni.
Lo storico incontro tra Papa Wojtyla e Jimmy Carter
WASHINGTON
Un'eco pubblica dell'inquietudine della Chiesa
nordamericana si ebbe il giorno successivo a Washington, quando una suora,
Therese Kane, esponente delle religiose statunitensi, introdusse nel discorso di
benvenuto la richiesta di ammettere le donne «a tutti i ministeri della
nostra Chiesa», compreso il sacerdozio. Giovanni Paolo II non si aspettava
che venisse sollevata la questione della parità totale dei due sessi in
ogni ruolo all'interno della Chiesa, e soprattutto in modo tanto diretto. Il
Papa, che sedeva all'interno del santuario nazionale dell'Immacolata Concezione,
dove erano riunite cinquemila religiose, ascoltò l'appello senza battere
ciglio. Non rispose, però direttamente, ma nel leggere il discorso,
preparato da tempo, sottolineò come la Vergine sia onorata quale regina
degli apostoli pur senza essere inserita nella gerarchia della Chiesa, e non
fosse presente all'ultima cena, mentre si trovava ai piedi della croce, come a
prefigurare il silenzioso coraggio delle donne di ogni tempo. Un episodio
isolato di contestazione (una congregazione religiosa, poi, comprò una
intera pagina di un quotidiano per chiedere scusa al Papa), durante un soggiorno
che con la visita alla Casa Bianca raggiunse la vetta dell'apoteosi.
Per la
prima volta il capo della Chiesa cattolica romana veniva accettato come
interlocutore dal presidente di una repubblica nata affermando la più
assoluta libertà di culto e la più rigorosa separazione tra Chiesa
e Stato. «Questo è un giorno in cui dobbiamo ringraziare il
Signore», disse Carter in polacco nel discorso di benvenuto. A sua volta
Giovanni Paolo II: «È una grande gioia per me essere il primo Papa nella
storia a giungere nella capitale di questa nazione». Attorno a loro sul
prato, davanti all'elegante porticato della Casa Bianca, a rendere omaggio
all'uomo che aveva mobilitato le folle americane, v'erano ministri, senatori,
magistrati, generali, gli uomini più potenti di una delle più
potenti nazioni della terra. «Giovanni Paolo è il leader spirituale
del mondo», scrivevano i giornali, ripetevano i telecronisti e le radio di
tutti i continenti.
RITORNO A ROMA E ANNUNCIO DEL VIAGGIO IN TURCHIA
«Siete venuti per constatare se il Papa
è tornato. E tornato ed è molto grato alla Provvidenza che lo ha
condotto durante queste giornate e lo ha riportato a Roma. Delle altre cose
parleremo alla prossima occasione. Devo dire che fa caldo a Roma,
arrivederci». I romani che, eccitati dal trionfo americano, erano corsi in
piazza San Pietro, trovarono un Pontefice soddisfatto ma stanco. I nove giorni
trascorsi lontano dal Vaticano, seguendo un programma che non concedeva pause,
avevano fiaccato Papa Wojtyla. Durante il volo di ritorno, dalla base militare
Andrews di Washington a Fiumicino, il Papa era crollato in un sonno profondo.
Aveva un intenso bisogno di riposo e, al solito, accompagnato dal segretario, si
trasferì subito a Castel Gandolfo.
Il viaggio negli Stati Uniti era
quasi coinciso con il compimento del primo anno di pontificato, dodici mesi che
lasciavano sbalorditi per la rapidità con cui i popoli più diversi
avevano osannato il Papa polacco. In breve lasso di tempo, di solito dedicato
dai predecessori a guardarsi intorno, Papa Wojtyla aveva conquistato un
patrimonio di popolarità che Montini non era riuscito ad ottenere in un
quindicennio di attività. Sotto il profilo del successo personale il
consuntivo era eccezionalmente positivo: la sua spontaneità e il distacco
dagli usuali comportamenti avevano creato quello che negli Stati Uniti era detto
ormai il «fenomeno Wojtyla» e cioè una forte carica di
attrazione che si riversava sul papato e sulla Chiesa. Peraltro una Chiesa di
cui egli aveva dato una immagine forte, legata alla tradizione e alla disciplina
all'interno, capace di denunciare senza paura i mali della società
all'esterno.
A questo punto tutti credevano che Giovanni Paolo II avrebbe
concluso il 1979 dedicandosi alla normale attività, nel tran tran
giornaliero delle udienze e dello studio degli affari della Chiesa. Lui
però aveva tutti altri progetti, sopra ogni cosa non amava restare chiuso
nei suoi appartamenti. Così un poco oltre metà dicembre, una
domenica, prima di recitare l'«Angelus», alla gente radunata sotto la
finestra disse: «Oggi vorrei darvi la primizia di una grande notizia: alla
fine di questo mese andrò in Turchia. Mi recherò prima di tutto ad
Ankara, capitale di quel grande paese, dove incontrerò le autorità
di quella nazione e porgerò loro il mio omaggio. Poi ad Istanbul, per
rendere visita a Sua Santità il Patriarca Dimitrios I, e per partecipare
alle celebrazioni della festa di Sant'Andrea apostolo, il fratello di Pietro. In
questo modo il Fratello risponde all'invito del Fratello». Per rendere
più esplicito l'obiettivo del nuovo viaggio soggiunse: «Questa
visita è importante. Mostra la decisione del Papa, più volte
affermata, di portare avanti lo sforzo verso l'unità di tutti i
cristiani. Grandi progressi sono stati fatti, ma non possiamo accontentarci.
Dobbiamo realizzare pienamente la volontà di Cristo. Con le venerabili
Chiese ortodosse siamo alla vigilia di iniziare un dialogo teologico, in vista
di superare insieme le divergenze che esistono tra noi. Con questa visita voglio
mostrare l'importanza che la Chiesa cattolica dà a questo
dialogo».
Infatti in giugno una delegazione del patriarcato di
Costantinopoli, secondo l'antica denominazione di Istanbul, aveva portato al
Pontefice un messaggio di Dimitros, il successore del patriarca Atenagora
più volte incontrato da Montini, che informava come tutte le Chiese
ortodosse si fossero accordate per avviare un dialogo teologico con Roma al fine
di chiarire i motivi della divisione tra cattolici e ortodossi. Un dialogo
giudicato, non a torto, di capitale importanza poiché se l'esito
dell'incontro dovesse risultare positivo sarebbe superato l'ostacolo principale
all'unione.
Dunque un viaggio di natura squisitamente religiosa che poteva
suscitare grande interesse negli ambienti ecclesiastici ortodossi, i quali non
avevano dimenticato l'abbraccio scambiato tra Montini ed Atenagora una sera del
a Gerusalemme, sul monte degli olivi, ripetuto ad Istanbul quando Paolo VI
vi si era recato nel luglio del 1967, né la grandiosa accoglienza del
Vaticano al patriarca che restituiva la visita. Giovanni Paolo II continuava il
cammino intrapreso da Paolo IV, andava a rendere omaggio al mondo
ortodosso.
TURCHIA: GELIDO RITUALE
A differenza di Montini, che dodici anni prima
aveva potuto atterrare direttamente ad Istanbul, meta del viaggio, Giovanni
Paolo II fu costretto a scendere ad Ankara. Il governo turco non aveva voluto
sentire ragioni: doveva essere innanzi tutto una visita di Stato, poi, terminata
la parte ufficiale, l'ospite avrebbe potuto recarsi ad Istanbul, visitare Efeso,
vedere chi voleva. Dunque il Papa arrivò ad Ankara la mattina del 29
novembre, e si trovò innanzi ad un aeroporto deserto, salvo una piccola
schiera di autorità e il folto gruppo dl giornalisti e fotografi.
La
comunità cattolica di Ankara, assai modesta essendo il paese al
novantanove per cento mussulmano, sarebbe stata certamente presente se il
governo turco non avesse avuto una situazione pesante. Pur essendo ufficialmente
laica, la Turchia avvertiva l'influenza dell'islamismo predicato da Komeini e
per di più la lotta politica interna era contraddistinta da continui atti
terroristici. Gli stessi giornalisti ammessi nell'aeroporto, tenuto sgombro da
una fitta rete di soldati, avevano dovuto lasciarsi frugare ben quattro volte
prima di raggiungere la pista. Sicché Giovanni Paolo II non ricevette
alcun applauso o evviva: solo il gelido, rituale silenzio delle accoglienze ai
capi di Stato. Anche se poi il Papa, sceso dalla scaletta, appena stretta la
mano del presidente della Repubblica, Koruterk, ruppe il rigido protocollo con
un rapido prostrarsi in terra per baciare il suolo, dicendo «Per la salute
di vostra eccellenza e la prosperità della Turchia». Un gesto ormai
comune all'inizio dei viaggi papali, ma che colse di sorpresa le
autorità, le quali avevano concordato solo uno strappo all'etichetta: un
evviva ai soldati pronunciato in turco dal Papa.
In sostanza ad Ankara, per
tutto il resto del giorno, Giovanni Paolo II non poté far altro che il
capo di Stato, rendere visita al presidente della Repubblica, visitare il
mausoleo di Ataturk - il fondatore della Turchia moderna, ateo e anticlericale -
ricevere il corpo diplomatico, come se realmente egli fosse soltanto il sovrano
della Città del Vaticano e avesse quale scopo di rafforzare i rapporti
tra il suo Stato di quarantaquattro ettari e la Turchia. Non gli fu dato di
pronunciare alcun discorso, che del resto sarebbe stato vano dato il grande
disinteresse dei Turchi nei suoi confronti, né di muoversi liberamente
nella città. Solo l'indomani mattina, prima di salire sull'aereo per
Istanbul, poté avere un incontro con i pochi cattolici - cinquecento fra
italiani, francesi, tedeschi, spagnoli, polacchi - usufruendo della chiesetta
all'interno della ambasciata d'Italia. Un incontro di preghiera, svoltosi
all'interno di una sede extraterritoriale, che di conseguenza metteva al riparo
il governo da ogni polemica con i nazionalisti musulmani, i quali avevano
attuato una dimostrazione contro la presenza del Pontefice. Un gesto subito
bloccato dalla polizia ma che comunque aveva fatto rinforzare le precauzioni
prese per la salvaguardia dell'ospite: bisognava stare distanti dal Papa cento
metri, sessanta dei mille tiratori scelti mobilitati per l'occasione
precedevano, accompagnavano, seguivano Giovanni Paolo II.
Pellegrinaggio ecumenico di Papa Wojtyla a Istanbul
ISTANBUL
Lo stato di allarme di interi reparti di soldati
proseguì ad Istanbul, anzi divenne più massiccio o, almeno,
più evidente dato che nella città sul Bosforo il programma era
molto più folto di impegni. Innanzi tutto una visita nel modesto
complesso in cui vivono i patriarchi ortodossi, una messa celebrata nella
cattedrale latina e incontri con i capi spirituali di diverse comunità
religiose, un giro nella città con soste al famoso museo di Topkapi e a
Santa Sofia, la celebre basilica di Bisanzio trasformata in moschea quando la
capitale romana d'Oriente fu conquistata dai musulmani, e infine ridotta a museo
da Ataturk.
Era stato proprio a Santa Sofia che nel 1967 Montini aveva
compiuto un gesto accolto con ira dai Turchi. Guidato all'interno della
Basilica, Paolo VI s'era genuflesso, annullando tutte le trasformazioni del
monumento. Papa Wojtyla non poté farlo, si limitò a guardare i
celebri mosaici e ad una preghiera detta mentalmente. Tutto il viaggio fu
racchiuso nella lunga cerimonia ecumenica durante la quale Pontefice e Patriarca
annunciarono un «fatto concreto»: la designazione ufficiale delle
rispettive commissioni teologiche, le quali «sulla base di un ordine del
giorno preparato ed approvato dalle due Chiese» avrebbero iniziato quanto
prima il dialogo. Il soggiorno in Turchia si concluse ad Izmir, più
esattamente presso l'antica Efeso, tra le imponenti rovine che ricordano il
tempio di Artemide e i «misteri» che vi venivano celebrati in nome
della dea, i resti della basilica nella quale ebbe sede il terzo concilio
ecumenico della Chiesa, e, poco distante, la «casa della Vergine» dove
la tradizione vuole abbia abitato Maria, ospite dell'apostolo Giovanni. Una
sosta questa in piena consonanza con la devozione mariana di Papa
Wojtyla.
IL PAPA CONFESSA IN SAN PIETRO!
La mattina del 4 aprile 1980 Papa Wojtyla lasciava
i suoi appartamenti con un mantello nero indosso e, salito sull'automobile in
compagnia del segretario personale, si faceva condurre ad un lato della
scalinata che immette nella Basilica di San Pietro. Poi, con passo svelto,
entrava in chiesa, si dirigeva verso la crociera di destra, assumeva la stola
violacea, si infilava in un confessionale. In un primo momento nessuno
capì chi fosse quel sacerdote che, in pieno sole primaverile, se ne
andava coperto con un mantello e che aveva occupato un confessionale entro il
quale di solito siede un canonico polacco, cappellano nel corso della seconda
guerra mondiale delle forze del generale Anders. Ma le precauzioni prese per
mascherare la propria identità, come l'entrata nella Basilica a piedi,
non già mediante l'ascensore che collega il tempio con il palazzo
apostolico, furono ben presto rese vane.
Le prime a scoprire che nel
confessionale in noce, vecchio di duecento e più anni, vi era Giovanni
Paolo II furono alcune suore. Eccitate dalla novità, le religiose si
addensarono intorno al confessionale, pronte a genuflettersi dinanzi alla grata
del penitente. I loro gesti furono notati dal Papa, il quale mise fuori la testa
dal confessionale, dicendo: «Via voi, sono qui per i laici». E rimase
a confessare quanti s'erano ordinatamente messi in fila per un'ora e un
quarto.
Naturalmente la notizia del gesto compiuto dal Pontefice venne
presto conosciuta, però non destò soverchio interesse, anche se
era la prima volta che un Papa scendeva in San Pietro per confessare (Pio XII e
Paolo VI lo avevano fatto in circostanze eccezionali nel loro appartamento) i
comuni fedeli. Infatti fin dai mesi successivi all'elezione, Giovanni Paolo II
aveva dato dimostrazione che l'esercizio del pontificato non impedisce
l'amministrazione diretta dei sacramenti, battezzando, cresimando, impartendo la
comunione, ordinando sacerdoti, persino unendo in matrimonio.
Era accaduto
nel febbraio del 1979 quando una commessa di ventidue anni, Vittoria Janni, ed
un operaio elettronico di ventiquattro anni, Mario Maltese, avevano visto il
loro matrimonio benedetto dal Papa nella Cappella Paolina. Giovanni Paolo II
manteneva così la promessa fatta alla ragazza pochi mesi prima, quando
presente mentre il Papa visitava il presepe costruito dai netturbini di Roma, e
in particolare modo dal padre della giovane, s'era fatta avanti per esprimergli
il desiderio. Così quel giorno parenti e amici degli sposi, emozionati ed
anche un poco intimiditi dagli ambienti, avevano assistito al rito concluso con
una udienza particolare agli sposi, ai loro genitori e ai testimoni. «Posso
darle un bacio?», aveva chiesto la ragazza al Papa. «Perché
no?», era stata la risposta di Giovanni Paolo II, il quale aveva
abbracciato successivamente anche lo sposo.
Oramai nulla più stupiva
del Pontefice, la cui giovanile opera teatrale era stata messa in scena, le
poesie pubblicate in diverse lingue, i cori cantati insieme con le moltitudini
polacche registrati e raccolti in disco. Tutto, o quasi, il protocollo
dell'etichetta vaticana, subiva strappi e innovazioni. Il presidente della
Repubblica, Sandro Pertini, s'era sentito un giorno chiamare al telefono: era il
Papa che, in occasione dell'anniversario dell'incontro avuto nell'ottobre del
, lo invitava a pranzo. Logico, quindi, che rientrasse nella
normalità il viaggio in Africa, nonostante che le motivazioni non
apparissero evidenti come nei precedenti «pellegrinaggi».
TENEO TE, AFRICA!
Anche Paolo VI s'era recato in terra africana, in
Uganda, ma perseguiva un duplice scopo: consacrare l'altare dell'allora erigendo
santuario dei martiri ugandesi, partecipare ad una riunione dei vescovi del
continente. Papa Wojtyla, invece, sembrava non avesse obiettivi caratteristici
da raggiungere. Nell'annunziare la data e l'itinerario del viaggio - dal 2 al 12
maggio -, dieci giorni in sei paesi della fascia equatoriale, di cui quattro
appartenenti all'Africa francofona (Zaire, Congo, Alto Volta e Costa d'Avorio) e
due a quella anglofona (Kenya e Ghana), Giovanni Paolo II s'era limitato a
ricordare i molti legami, anche recenti, della Chiesa con il continente nero.
Tra l'altro la ricorrenza del centenario dell'inizio dell'evangelizzazione dello
Zaire. Particolare, tuttavia, che nessuno giudicava determinante, attribuendovi
semmai un valore complementare. Più soddisfacente era la spiegazione che
il Papa, avendo ricevuto innumerevoli inviti dagli episcopati africani, subito
avallati dai rispettivi governi, al punto di indurlo a compiere una sorta di
girotondo aereo per accontentarne alcuni, avesse sentito la necessità di
non trascurare un continente, di esaudire subito una attesa che avrebbe potuto
essere mortificata dalle previste innumerevoli visite in altre zone del mondo.
Dunque «un pellegrinaggio al cuore di quegli uomini e di quei popoli»
ed anche «quasi un prosecuzione degli Atti degli Apostoli» tra genti
che già «in notevole misura accettano il Vangelo», per usare le
sue parole alla vigilia della partenza.
ZAIRE: PRIMA TAPPA
La prima tappa fu Kinshasa, capitale dello Zaire,
il paese africano con la più numerosa comunità cattolica, dodici
milioni di battezzati, il 45 per cento della popolazione; e al medesimo tempo
uno dei paesi in cui le tensioni fra il governo postcoloniale e la Chiesa
avevano avuto fasi drammatiche. Dal 1972 al 1977 la cattolicità zairese
era stata provata da una serie di provvedimenti che avevano nazionalizzato
scuole ed ospedali, soppresso le festività religiose, proibito d'imporre
nomi del calendario cristiano ai bambini. Poi era sopravvenuta una fase meno
aspra, determinata dal fatto che il governo non riuscendo a gestire le scuole le
aveva restituite alla Chiesa, e i rapporti tra l'onnipotente presidente zairese
Mobutu con la gerarchia ecclesiastica, in particolare con il cardinale Malula,
avevano finito con normalizzarsi. Non solo: Mobutu, definito
«presidente-fondatore», forse per aver chiamato Zaire un paese via via
denominato Congo Belga, Repubblica Democratica del Congo, Congo-Kinshasa, da
quindici anni al potere, per rendere omaggio al Pontefice si fece trovare
all'aeroporto sposato di fresco. Appena ventiquattro ore prima aveva
regolarizzato la sua posizione prendendo in moglie la donna con cui conviveva,
madre di quattro figli ed in attesa del quinto.
«Saluto ciascuna delle
nazioni africane e mi congratulo con esse per aver preso nelle loro mani il
proprio destino», disse il Papa dopo essersi gettato in terra per baciare
l'asfalto. Le sue parole e quelle di Mobutu si persero nella confusione
scoppiata al suo apparire, tra il rullare dei tamburi che accompagnavano
piroette e salti, tanto progressivamente veloci da mozzare il fiato, dei
danzatori africani.
Accade sempre all'inizio dei viaggi pontifici che ci si
domandi quale consonanza potrà avere la visita presso la folla.
L'interrogativo era più che mai presente nel giungere a Kinshasa, sia per
il ricordo dell'atterraggio in Turchia, senza folle e senza fanfare, umile e
povero (ma forse più valido dei precedenti per i suoi risultati), sia
perché Giovanni Paolo II sbarcava in uno spicchio di mondo in cui
cristianesimo e colonialismo avevano avuto per secoli una comune identità
prima di lasciare il passo ad un esacerbato nazionalismo che aveva fatto
rifiorire i riti ancestrali e che sollecitava il cattolicesimo ad inserirsi
più profondamente nella cultura africana. La risposta cominciò ad
emergere con il calore e la voglia di comunicare degli Zairesi all'areoporto -
alcuni in maschere bianche su lunghi trampoli - e proseguì con la
muraglia umana lungo i trenta chilometri fino alla capitale; una popolazione
festosa che agitava fiori, frasche e bandierine; un nereggiare di teste e di
volti: cattolici, cristiani di altre confessioni, animisti. Fu confermata il
giorno successivo quando il Papa si addentrò nelle contraddizioni e nei
particolarismi zairesi ed africani.
Giovanni Paolo II somministra l'Eucarestia a una giovane africana
IL DISCORSO DI KINSHASA
La chiesa nella quale Giovanni Paolo II
aprì la seconda delle tre giornate dedicate allo Zaire, pur essendo una
delle principali di Kinshasa, non aveva alcuna pretesa architettonica. Un
edificio semplice, in mattoni rossi, costruito tra alberi rigogliosi che in
parte lo ricoprono. All'interno quadri di santi, di apostoli, di evangelisti
regolarmente neri, dipinti con ingenuità. Persino lo Spirito Santo
è rappresentato da una colomba nera, entro un festone di angeli anch'essi
neri. Cornice più che adatta alla celebrazione di una messa assai
singolare per un bianco, ritmata dal battere delle mani, da canti e, talvolta,
da un lungo grido gutturale per esprimere approvazione ed entusiasmo. Un esempio
della «africanizzazione della Chiesa», come dirà poi il
Pontefice ai vescovi, ponendo limiti al trapianto della dottrina cattolica nella
cultura. Giacché se da un lato la Chiesa in Africa deve certificare che
il cristianesimo portato dai missionari rappresentava soltanto una attuazione
storica ormai superata, dall'altro esiste il pericolo che la stessa fede sia
resa prigioniera della cultura locale.
Discorso proiettato verso il futuro,
rivolto alla gerarchia ecclesiastica, non per la folla, accampata pure intorno
all'edificio della nunziatura apostolica per vedere il Papa entrare ed uscire,
magari per «toccare questo santo uomo», come scrisse
«Elima», il quotidiano della capitale. Più facili ad afferrarsi
le parole dirette dal Papa agli sposi cristiani al fine di combattere la diffusa
poligamia, o quelle ai lebbrosi, l'accenno alla corruzione, una della cause che
rende lo Zaire (pur ricco di rame, manganese, uranio, diamanti, oro) povero e
dissestato economicamente.
Il richiamo alla corruzione divenne incisivo nel
discorso pronunciato da Giovanni Paolo II durante l'ordinazione di otto nuovi
vescovi di varie nazionalità africane. Una cerimonia imponente, officiata
dinanzi a centinaia di migliaia di persone, la cui esultanza si trasformò
in tragedia. Papa Wojtyla seppe soltanto nel pomeriggio che, all'alba, quando i
soldati avevano aperto un cancello che immetteva nella vasta spianata dinanzi al
palazzo sede del Parlamento, per l'ansia di conquistare i posti vicini
all'altare, eretto in cima alla scalinata, la folla aveva travolto e calpestato
più file di persone: nove morti e ottantasei feriti erano stati portati
via di nascosto prima dell'arrivo del Pontefice. Giovanni Paolo II avrebbe
desiderato visitare i parenti dei defunti e recarsi in ospedale. Gli fu detto da
Mobutu che era impossibile perché i costumi locali imponevano alle
famiglie di portarsi immediatamente a casa i morti per le onoranze funebri ed i
feriti erano stati quasi tutti dimessi. L'orgoglio di un governo presidenziale
non consentiva visite non programmate che avrebbero dato all'ospite una visione
assai più drammatica della povertà del paese.
REPUBBLICA POPOLARE DEL CONGO
«È stata una fatalità, poteva
accadere in qualsiasi altra parte del globo», si giustificò Mobutu
con i giornalisti, sul piccolo molo di Kinshasa dove aveva attraccato il
battello che doveva trasferire il Pontefice nel secondo dei paesi del periplo
africano: l'ex Congo francese, oggi sotto regime socialista. Tre chilometri
d'acqua che separano le due sponde e le due capitali, una navigazione di un
quarto d'ora che pure trasferisce in un altro mondo. Al di là del fiume
il Papa aveva lasciato una guardia d'onore in variopinte divise ottocentesche
per essere salutato a Brazzaville da soldati in tute a macchie di leopardo,
tutti egualmente armati con mitra di fabbricazione sovietica; e trovava un
popolo assai più vivace di quello zairese... Centinaia e centinaia di
persone che lo accompagnavano correndo a fianco della vettura papale mentre
altre migliaia, al suono di orchestrine, gli davano il benvenuto.
Una sosta
di poche ore, per dire messa sotto un sole rovente che bruciava i corpi, tra una
moltitudine a stento trattenuta da un fitto cordone di soldati. Un breve tempo
che permise al Pontefice di osservare una realtà meno sfasciata e
degradata di quella zairese. Poi di nuovo l'aereo per trascorrere la notte al
nord dello Zaire, in una delle più antiche missioni, quasi sul confine
con il Kenia.
NAIROBI: APPELLO DI PACE
Dalla cattedrale di Nairobi Giovanni Paolo II
rivolse un appello di pace a tutta l'Africa. Un invito che doveva
necessariamente precedere il discorso in cui affrontava organicamente i problemi
del continente. Punto centrale la dignità della persona che deve essere
difesa da ogni minaccia, dal neo colonialismo come dalla degenerazione delle
classi dirigenti, dalla discriminazione razziale (resa evidente dal saluto alla
recente indipendenza raggiunta dallo Zimbabwe, l'ex Rhodesia), come da ogni
forma di razzismo esercitata nei confronti degli immigrati dalle campagne nei
centri urbani, da uno Stato all'altro. Un discorso in cui parlò di
«nuova era» dell'Africa, necessariamente svolto nella capitale di uno
Stato, la cui evoluzione politica ed economica, la dimensione tribale convivente
con una società industriale avanzata, erano troppo evidenti per chi
proveniva dalle regioni intorno al fiume Congo. Facile notare l'efficenza e
l'organizzazione della visita, che certo non andava a scapito dell'entusiasmo
delle folle, e la libertà religiosa dei Kenioti che, se ha fatto
proliferare sette e «chiese libere», ha pure favorito lo sviluppo
della Chiesa cattolica e del cristianesimo.
Ma il trascorrere del Papa
intorno alla fascia equatoriale, l'entrare e uscire dai paesi, per certi versi
irridendo ai timbri sul passaporto, tabù della sovranità
nazionale, era troppo rapido per approfondire una situazione. Nairobi
ospitò Giovanni Paolo II solo trentasei ore, fitte di incontri spossanti,
di cerimonie e di riti che, a differenza del seguito, non sembravano piegare il
suo robustissimo fisico. Nel salire sull'aereo che doveva portarlo ad Accra
chiese con una punta di ironia ai prelati che lo accompagnavano, se almeno si
fossero un poco africanizzati...
ACCRA
Nella capitale del Ghana il vorticoso viaggio
papale assunse maggior spessore, se non altro per il visitatore che lo
attendeva, l'arcivescovo di Canterbury, Robert Runcie. Già a Nairobi Papa
Wojtyla s'era rivolto ai leaders delle religioni cristiane per sottolineare
l'urgenza di una «organica unità» giacché «la
divisione è uno scandalo per il mondo e specialmente per le giovani
Chiese in terra di missione». Ora il tema poteva essere affrontato con il
capo degli anglicani - «il papa rosso», come lo chiamavano i giornali
inglesi - che doveva inaugurare una nuova «provincia» della sua
Chiesa. Un colloquio privato assai positivo per la ricerca dell'unità tra
cattolici e anglicani. Un colloquio che si verificò dopo la più
folcloristica delle accoglienze ricevute dal Pontefice in Africa, quella di una
etnia, gli «Ashanti», che in forza della sua ricchezza e
dell'abilità commerciale di cui è dotata non ha serbato alcuna
traccia della colonizzazione inglese, salvaguardando tradizioni e strutture
sociali. Fu il re degli «Ashanti» con corona e innumerevoli bracciali
d'oro, seguito da un corteo di capi e sottocapi riparati da enormi ombrelli
variopinti - segno di grande dignità - ad attendere il Papa nello stadio
di Kumasi, cittadina nel cuore del Ghana, dove s'erano riuniti i vescovi del
Ghana e quelli provenienti dai paesi confinanti, Togo e Benin. Il re, Opoku Ware
II, aspettava Giovanni Paolo II seduto su un trono completamente d'oro, accanto
ai suoi dignitari, alcuni con elmi d'oro sovrastati da creste di penne. Poi, al
termine della messa, alla quale avevano assistito «ashanti»,
cattolici, protestanti e animisti, il lento muoversi del re sotto l'enorme
ombrellone, l'omaggio reso al Papa che lo attendeva sull'altare. Un pittoresco
spettacolo, una scena emersa dal profondo della storia, che non poteva essere
offerta né dagli abitanti del poverissimo Alto Volta, né da quelli
della evoluta Costa d'Avorio.
ABIDJAN
Lo squallore dell'Alto Volta era apparso anche
dall'aereo, nel sorvolare l'immensa distesa del Sahel, l'anticamera del deserto,
il regno della steppa assoluta. Ma si poteva leggere pure nei volti della gente
assiepata intorno al Papa, il quale aveva voluto quella sosta prima della Costa
d'Avorio per un unico scopo: «lo lancio d'un appello solenne al mondo
intero dando voce a chi non ha voce per chiedere di salvare le popolazioni della
regione del Sahel dal dramma della siccità». Un invito ad alleviare
le sventure di un popolo troppo misero ed affamato, la cui mortalità
infantile ha un tasso altissimo e la media della vita si aggira sui 38 anni. Una
realtà resa ancor più agghiacciante dai grattacieli e dal
benessere di Abidjan, la capitale della confinante ex colonia francese, Costa
d'Avorio. Era inevitabile che il Pontefice, calato in una città
cosmopolita di due milioni e mezzo di abitanti, in piena espansione industriale,
su un pezzetto di terra che del continente africano conserva poco più
della pelle nera degli abitanti, la foggia dei vestiti di una parte della
popolazione e la lussureggiante vegetazione, ammonisse a non lasciarsi
suggestionare dalle «visioni dell'uomo e della società che sono
parziali o materialiste e che minacciano di distogliere l'Africa da uno sviluppo
veramente umano ed africano». Una esortazione ripetuta ai giovani,
più di duecentomila, invitati a raggiungere un equilibrio tra le spinte
per un ritorno alle tradizioni e l'adozione delle forme occidentali di vita:
«Custodite le vostre origini africane. Salvaguardate i valori della vostra
cultura, edificate un modello originale tipicamente africano di armonia tra i
valori del passato culturale e i doni più accettabili della moderna
civilizzazione».
VIAGGIO IN FRANCIA
Insieme con i bagagli e gli innumerevoli doni,
zanne d'elefante, dipinti, oggetti tipici, il Papa portava con sé, la
sera del 12 maggio, rientrando in Vaticano, una ricca esperienza sul ruolo della
Chiesa cattolica in Africa, in un continente in via di trasformazione. I canti,
i ritmi, le maschere e gli altri attributi tradizionali africani, gli aspetti
esterni cioè dei dieci giorni del grande spettacolo erano oramai da
passare all'archivio, ma restava la sostanza, la realtà di un mondo che
Giovanni Paolo II aveva cercato di studiare osservando - anche durante le lunghe
cerimonie religiose - i volti della gente, le molte sfumature delle varie
accoglienze. Lo aveva confessato lui stesso, lasciando Abidjan: «Ho
imparato molte cose durante questo viaggio, non potete sapere quanto questo
periplo sia stato istruttivo». E durante il volo di ritorno, conversando
con i giornalisti, aveva detto: «L'Africa mi è parsa un grande
cantiere, da tutti i punti di vista. Con le sue promesse e anche, probabilmente,
con i suoi rischi. I metodi possono essere differenti e rivelarsi più o
meno adatti. Ma il desiderio di progredire è innegabile. Già
risultati sensibili sono stati ottenuti: l'istruzione si diffonde, malattie in
passato mortali sono state debellate, tecniche nuove sono state avviate, si
comincia a saper lottare contro certi ostacoli naturali.
Un rapido
consuntivo su cui si diffuse durante l'udienza generale. Tuttavia Giovanni Paolo
II non ebbe nei giorni successivi molto tempo per ripercorrere con la
meditazione le tappe compiute e i settanta discorsi pronunciati. In Vaticano,
infatti, aveva trovato una torta di trentacinque chilogrammi, offerta da un
pasticcere romano perché il 18 maggio festeggiasse il sessantesimo
compleanno, e il dettagliato programma dei quattro giorni da trascorrere a
Parigi e Lisieux.
Il desiderio di recarsi in Francia, più
esattamente nella capitale dove era stato nell'estate del 1947 - quando,
ordinato sacerdote, studiava all'Angelicum di Roma - e successivamente da
cardinale nel 1965, Papa Wojtyla lo aveva esternato all'arcivescovo di Parigi
cardinale Marty il giorno dell'inaugurazione del pontificato. Naturalmente il
cardinale s'era subito affrettato ad invitarlo, così come aveva fatto il
presidente della conferenza episcopale francese, il cardinale Etchegaray, ma si
pensava di dover aspettare fino al 1981, che il Pontefice cogliesse cioé
l'occasione del congresso eucaristico internazionale di Lourdes. Poi il Papa
stesso, in aprile, aveva dato notizia di aver accolto gli inviti ricevuti sia
dall'episcopato, sia dall'Unesco a recarsi in Francia «per una breve visita
pastorale, soffermandomi soprattutto a Parigi». Restava da concordare il
programma, raggiungere una intesa con i tre interlocutori, episcopato, governo
francese, Unesco. Un negoziato non facile, perché occorreva soddisfare
diverse esigenze, portato a termine mentre il Pontefice si trovava in Africa.
Dunque ora toccava al Papa preparare i discorsi tenendo ben presente che egli
avrebbe dovuto parlare non già ad una Chiesa «giovane» come
quella messicana o africana ma ad una Chiesa «anziana», turbata da una
crisi che egli stesso, nel messaggio ai Francesi prima della partenza,
chiamerà di «sviluppo», e muoversi ed agire dinanzi ad una
nazione più rivolta verso il vangelo laico dei diritti dell'uomo e della
giustizia che verso la religiosità.
Nessuno negava in quei giorni
che l'attesa era venata di diffidenza e di timori se non proprio di
ostilità. Soprattutto da parte degli ambienti cattolici progressisti, i
quali ritenevano che le posizioni riaffermate dal Papa in Messico, in Polonia,
negli Stati Uniti, la sua restaurazione della disciplina all'interno della
Chiesa e la sua inflessibilità dottrinale avrebbero favorito l'ala
tradizionalista. Altri invece opponevano Paolo VI al suo successore, il
Pontefice che un giorno aveva dichiarato di considerare la Francia come la sua
«patria spirituale» a Giovanni Paolo II, il quale non aveva ancora
compiuto alcun gesto nei confronti di un cattolicesimo che un tempo amava
sentirsi chiamare «il figlio primogenito della Chiesa». Timori,
perplessità, dubbi, ed anche una dose di indifferenza accompagnarono,
dunque, l'arrivo del Papa a Parigi nel pomeriggio di venerdì 30
maggio.
Giovanni Paolo II con Giscard d'Estaing
PARIGI È SEMPRE PARIGI
L'atterraggio dell'elicottero bianco-azzurro che
aveva prelevato Giovanni Paolo II all'aeroporto di Orly per depositarlo sulla
larga avenue degli Champs-Elysées, l'ingresso in Place de la Concorde
insieme con il presidente Giscard d'Estaing su un'automobile militare scoperta,
non suscitò le scene di travolgente entusiasmo viste in altre
città. La folla era enorme sia sugli Champs-Elysées, sia nella
piazza e molti applaudivano o sventolavano bandierine, tuttavia la riservatezza
e il controllo avevano la meglio. Forse fu colpa dell'ufficialità
dell'accoglienza da capo di Stato, della adozione di un protocollo che non
poteva non deludere quanti si aspettavano dal Pontefice quei gesti di
spontaneità che in altri luoghi gli avevano immediatamente conquistato
simpatia. Eppure il Papa, nel rispondere al saluto del presidente, aveva
ricordato il ruolo della Francia nel mondo e nella Chiesa. Ma anche quando
l'etichetta era stata messa un poco in disparte, nel senso che per recarsi da
Place de la Concorde a Notre Dame Giovanni Paolo II aveva preso posto
sull'automobile con a fianco solo il cardinale Marty, i «viva il Papa»
o «viva Jean Paul» erano apparsi fiochi rispetto all'imponente folla
assiepata dietro le transenne.
La prima giornata comunque s'era dipanata
senza toni falsi. Dopo il Te Deum nella cattedrale di Notre Dame la cui soglia
da centossettantasei anni non veniva più superata da un Pontefice e dove
avevano steso il medesimo tappeto adoperato per consacrare imperatore Napoleone;
dopo il rito a cui avevano partecipato il presidente della Repubblica, governo
al completo e delegazioni di tutti i partiti, compreso quello comunista, Papa
Wojtyla aveva celebrato una messa e parlato al clero parigino. Anzi, era stato
proprio nell'intrattenersi con i preti di Parigi che Giovanni Paolo II aveva
cominciato a dare prova di disinvoltura e di comunicatività.
L'aereo
papale era decollato da Roma con un'ora di ritardo a causa di un incidente
tecnico verificatosi sulla pista; sicché il Pontefice, terminata la messa
sul sagrato della cattedrale, avvertì i sacerdoti in attesa da molto
tempo all'interno del tempio che non avrebbe letto l'intero discorso, rendendosi
conto della loro stanchezza. Fu il segnale dell'applauso, cui ne seguiranno
molti altri sempre più convinti e calorosi quando il Papa dichiarò
di non trovarsi a Parigi per richiamare all'ordine o rampognare, ma al fine di
dire al clero di aver fede nel sacerdozio, conservare lo spirito missionario,
testimoniare l'unità ed invitarlo alla speranza.
L'entusiasmo
popolare non si accese neppure il secondo giorno. Una pioggia fitta, tenace,
accompagnata da una temperatura eccezionalmente bassa per la stagione, avevano
impedito all'ospite di percorrere le strade della capitale francese sulla
vettura scoperta. La gente aveva preferito restare in casa, vedere gli
spostamenti del Pontefice sugli schermi della televisione: l'ingresso di
Giovanni Paolo II all'Eliseo dove l'attendeva Giscard d'Estaing per un colloquio
privato ed un ricevimento, conclusione della parte ufficiale della visita; il
ritorno alla nunziatura per la colazione alla quale parteciparono venti
intellettuali, la messa nella Basilica di Saint Denis per i lavoratori e gli
immigrati.
Naturalmente gli schermi televisivi non poterono mostrare la
ressa scatenatasi nei saloni del palazzo presidenziale troppo esigui per
contenere i cinquemila invitati - uomini politici, corpo diplomatico,
autorità civili, militari, religiose, personalità dell'arte, della
cultura e della scienza - che il maltempo aveva scacciato dai giardini. Qualcuno
era svenuto, altri erano usciti dalle finestre.
Comunque né la
pioggia, né il freddo impedirono la domenica mattina a circa mezzo
milione di persone di recarsi sul campo d'aviazione del Bourget, a nord di
Parigi, per assistere alla messa all'aperto. In verità l'episcopato
francese, che aveva chiesto e ottenuto da tutti i quotidiani a tiratura
nazionale la pubblicazione gratuita dell'invito ai fedeli di partecipare al
rito, contava su una assemblea assai superiore. Tuttavia fu sufficiente lo
spettacolo di gente che, intirizzita dal freddo, sotto la pioggia battente,
assisteva impavida al rito celebrato dal Pontefice - tenuemente riparato da un
ombrello bianco - per constatare come la folla avesse cominciato a reagire
positivamente alla presenza di Papa Wojtyla. La conferma si ebbe la sera al Parc
des Princes, nel centro polisportivo dove cinquantamila giovani, dai 15 ai 25
anni, si ritrovarono intorno a Giovanni Paolo II.
Per l'incontro con i
giovani, il Papa aveva già preparato un discorso quando giunse in
Vaticano una proposta: i ragazzi avrebbero preferito un dialogo e inviavano una
serie di domande, complessivamente ventuno, entro le quali il Pontefice poteva
scegliere quelle a cui rispondere. Papa Wojtyla che, a Roma, a Castel Gandolfo e
nei viaggi, ha sempre privilegiato il contratto con i giovani («Coi giovani
- dirà più tardi - bisogna scherzare. Ma bisogna anche essere
molto seri e molto esigenti. Essi stessi vogliono che si sia esigenti con
loro») aveva accettato il dialogo puntando sulle domande più
importanti: la persona di Gesù Cristo, i temi delle sue conversazioni con
i capi di Stato, i mezzi per evitare la terza guerra mondiale, la Polonia, la
morale sessuale, l'unità dei cristiani, se la Chiesa che è
«occidentale» può essere veramente africana o asiatica. E
ancora domande sulla preghiera, sull'esercizio del pontificato, sulla
realizzazione del concilio Vaticano Secondo.
Era previsto che la
conversazione durasse un'ora, senonché, una volta entrato il Papa nel
grande stadio, mentre i giovani esplodevano in un tuonante «alleluia»,
tutti persero la cognizione del tempo: la kermesse andò avanti per due
ore e mezzo. Ogni gruppo, studenti liceali e universitari, membri delle varie
organizzazioni cattoliche - sui cui striscioni si leggeva «Papa, tutti ti
amano» - ebbe a disposizione il microfono per rivolgersi direttamente a
Giovanni Paolo II. Ci fu anche chi sfidò la platea - che commentava,
approvava, urlava agli improvvisati oratori - dichiarando di essere ateo e
chiedendo al Papa cos'era la fede. La richiesta del giovane ateo si prese nella
confusione ma non fu dimenticata. «Avreste dovuto tirarmi per la
sottana» disse poi Giovanni Paolo II al cardinale Marty «e ricordarmi
di dare una risposta a quel ragazzo. Cercatelo e ditegli di
scrivermi».
La festa giovanile terminò a mezzanotte ma il Papa
non volle rientrare subito nella sede della nunziatura. La giornata era stata
pesante e colma di emozioni: tra la messa sotto la pioggia del Bourget (nel
corso della quale tra l'altro Wojtyla aveva affermato che il motto della
Rivoluzione francese, libertà, eguaglianza, fratellanza, esprime
sostanzialmente concetti cristiani) e il tonificante dialogo con i giovani v'era
stata pure una riunione con i vescovi. Nel seminario di Issy-les-Moulineaux il
cardinale Etchegaray, un arcivescovo e un vescovo avevano illustrato al
Pontefice le difficoltà della Chiesa di Francia. Difficoltà non
ignorate da Papa Wojtyla, che aveva incentrato il discorso sul netto rifiuto sia
del progressismo, sia dell'integrismo; di coloro i quali «sono sempre
impazienti di adattare perfino il contenuto della fede, l'etica cristiana, la
liturgia, l'organizzazione ecclesiale, ai cambiamenti di mentalità e alle
esigenze del mondo» e, sull'altro versante, di quanti «rilevando
taluni abusi che noi siamo evidentemente i primi a riprovare e a correggere, si
irrigidiscono fissandosi ad un dato periodo della Chiesa». A mezzanotte il
Papa aveva voluto essere condotto a Montmartre, nella bianca chiesetta del Sacro
Cuore, per benedire dall'alto Parigi, quella città che l'indomani -
concluso l'incontro ufficiale con i delegati dell'Unesco - avrebbe lasciato per
una breve sosta a Lisieux prima di riprendere l'aereo per Roma.
Nessuno
può sapere quali pensieri passarono nella mente del Papa nell'osservare
dall'alto Parigi, le luci sfolgoranti di quei celebri locali notturni di Pigalle
che, in segno di rispetto, s'erano abbassate al suo passaggio verso Montmartre.
Parigi, laica ed ipercritica, non gli aveva dato il trionfo riscosso in altri
paesi. La crisi religiosa della vecchia Europa, i contrasti interni del mondo
cattolico avevano indebolito l'impatto del Pontefice e reso meno squillante la
sua voce. L'ascolto però, non era mancato. I giovani lo avevano acclamato
chiamandolo «atleta di Dio», i vescovi erano soddisfatti di non aver
trovato in lui il maestro di scuola che punisce ma un Papa che, pur dando
rigorose direttive religiose e disciplinari, s'era detto pronto a cercare
insieme le soluzioni ai loro problemi. Agli operai e agli immigrati aveva
parlato del lavoro e della giustizia, contro il capitalismo e il marxismo, e gli
applausi non erano mancati, soprattutto ogni qualvolta aveva reso omaggio ai
lavoratori. Dunque tutto sommato un viaggio positivo, che si arricchì poi
dell'appassionata supplica agli uomini di scienza raccolti nella sede
dell'Unesco perché lo aiutassero «a salvare l'umanità dalla
distruzione» e a «construire la pace nel rispetto dei diritti
dell'uomo». Mentre Lisieux, la sosta mistica dei quattro giorni in Francia,
rappresentò un invito a recuperare i valori dello spirito, la dimensione
interiore dell'uomo. «Francia, figlia primogenita della Chiesa, sei tu
fedele alle promesse del battesimo?», era stato l'interrogativo lasciato
dal Papa.
RAPPORTO ALLA CURIA
Ventiquattro ore prima di partire per il Brasile,
il giorno della festa di San Pietro e Paolo, Papa Wojtyla radunava intorno a
sé i cardinali e i membri della curia romana, sia ecclesiastici, sia
laici, per dare loro un quadro dell'attività svolta in venti mesi di
pontificato.
Nel passare in rassegna i fatti e le motivazioni che a quei
fatti avevano dato vita Giovanni Paolo II non dimenticava di puntualizzare che i
viaggi «sono visite compiute alle singole Chiese locali e servono a
dimostrare il posto che queste hanno nella dimensione universale della
Chiesa». Aggiungeva: «Sono viaggi di fede, di preghiera, che hanno
sempre a cuore la meditazione e la proclamazione della parola di Dio, la
celebrazione eucaristica, l'invocazione a Maria. Sono altrettante occasioni di
catechesi intinerante, di annuncio evangelico nel prolungamento, a tutte le
latitudini, del Vangelo e del magistero apostolico dilatato alle odierne
dimensioni planetarie». E proseguiva: «Tale, e soltanto tale, è
il fine del Papa pellegrino, sebbene taluni possono attribuirgli altre
motivazioni».
La spiegazione si rendeva necessaria. Il continuo andare
per il mondo del Pontefice - con quello in Brasile sarebbero stati sette i
viaggi in meno di due anni, mentre Paolo Vi ne aveva compiuti dieci in quindici
anni di pontificato - suscitava domande e perplessità. Cosa lo spingeva
ad abbandonare sempre più spesso il Vaticano, la cui struttura
verticistica richiedeva la sua presenza? Ad un intimo aveva detto: «Una
visita anche breve ad una Chiesa mi insegna su di esse più della lettura
di dieci relazioni». Ma altri supponevano che in Papa Wojtyla vi fosse,
almeno in parte il desiderio di essere conosciuto, di tenere sempre viva la
popolarità, anche se ciò comportava una fatica fisica che soltanto
la sua vitalità gli consentiva di sopportare. Una ulteriore prova era
data dal programma messo a punto per il Brasile: la visita a tredici
città dei ventidue Stati che compongono quella Repubblica, dodici giorni
spesi per percorrere il paese dal sud al nord, dormendo ogni sera in una
città diversa.
Ciò che rendeva perplessi, e faceva parlare
alcuni di turismo, era la mancanza di un'occasione precisa che richiedesse la
presenza del Papa. Per di più il Brasile stava attraversando una fase
politica troppo piena di incognite. La dittatura militare, salita al potere nel
con un golpe rivoluzionario, dopo sedici anni di governo ispirato alla
repressione, violenza e tortura, cominciava a riprendere il cammino democratico,
seppure per fini strategici non come risposta alle aspirazioni della base. Il
Brasile si trovava per così dire a metà del guado, con tutte le
tentazioni e gli inconvenienti che la posizione comportava, specialmente nei
confronti della Chiesa, la quale non dimenticando i giorni dell'odio, agiva da
pungolo. Verso quale approdo?
Questo primo nodo da sciogliere era reso
più complesso dalla posizione assunta dalla Chiesa - dopo le riunioni di
Medellín e di Puebla - di netto rifiuto e di denuncia delle ingiuste
strutture socio-politiche del paese. Denuncia anche collegiale da parte della
gerarchia ecclesiastica. Eccone un esempio: nel febbraio del 1980 uno studio
preparato dai vescovi, riuniti per sottolineare l'urgenza di una «giusta
riforma agraria», dava i seguenti dati: il 42,6 per cento delle terre
è in mano dello 0,8 per cento mentre il restante 53,5 per cento del
territorio è suddiviso tra migliaia e migliaia di contadini proprietari.
Lo studio concludeva: «Tale situazione è causa di gravissimi
problemi sociali che provocano uccisioni, espulsioni di contadini, traffico di
lavoratori ed una sempre maggiore concentrazione della proprietà terriera
nella mani delle grandi imprese».
Cosa avrebbe mai potuto dire un Papa
che aveva posto a centro del suo pontificato la difesa dei diritti dell'uomo e
che già in Messico aveva protestato per l'oppressione del popolo
latino-americano? Ma l'episcopato non era compatto: la suddivisione tra
«progressisti» e «integristi» (per usare le definizioni di
Papa Wojtyla a Parigi) passava dal campo sociale a quello ecclesiastico, persino
nei rapporti con Roma. La polemica interna toccava la scarsità di
vocazioni, che, specialmente al nord, aveva fatto chiudere i seminari, il
celibato del clero rispettato solo formalmente, il recupero di una
religiosità nella quale convivevano pratiche magiche, l'adozione di un
cattolicesimo tradizionale non fondato sulla persuasione. Solo un accenno al
lungo elenco dei problemi che Papa Wojtyla si portava con sé il mattino
del 30 giugno partendo per un paese vasto quanto l'Europa.
BRASILE: UN MONDO IN MOVIMENTO
Nel mettere piede a Brasilia, la capitale federale
dello Stato, il Papa ripeté il gesto di baciare il suolo. Era la
tredicesima volta che lo faceva, quanti erano stati i paesi visitati nei suoi
sette viaggi, e ne volle dare la spiegazione: «Un primo e silenzioso
ringraziamento per l'accoglienza». Lo disse rispondendo al saluto del
presidente della Repubblica Joao Baptista de Figueredo, dopo aver assistito a
tutte le formalità d'uso nelle visite ufficiali dei capi di Stato:
rivista dei reparti schierati, suono degli inni, colpi di cannone. Oramai non
c'è paese che rinunci ad accogliere il Papa innanzi tutto come sovrano
dello Stato della Città del Vaticano, anche se nelle trattative che
precedono i viaggi si tenta di sottrarlo a tali manifestazioni, sottolineando il
carattere pastorale della visita. Ma non c'è niente da fare: le
autorità politiche non rinunciano agli aspetti spettacolari
dell'avvenimento per certi versi autocelebrativo. Figurarsi poi il governo
brasiliano, che aveva chiesto ed ottenuto la sosta a Brasilia, una città
nata appena venti anni fa in mezzo alla foresta amazzonica, costruita dai
più famosi architetti e ingegneri del mondo seguendo arditissime linee
urbanistiche che tuttavia non riescono a cancellarne il senso di vuoto e di
desolazione.
Per evitare ogni tentativo di strumentalizzazione Giovanni
Paolo II aveva subito precisato di essere giunto esclusivamente per una missione
«pastorale e religiosa» auspicando che il Brasile, «paese per la
maggior parte cattolico» - di solito si dice paese cattolico - edifichi
«una convivenza sociale esemplare, superando gli squilibri e le
disuguaglianze nella giustizia e nella concordia, con lucidità e
coraggio, senza scosse e lacerazioni». Una sottolineatura, cui ne
seguì una seconda nel corso della messa all'aperto, celebrata sulla
«esplanada» dei ministeri, cioè tra i diciannove edifici dai
quali si governa lo sterminato paese. Dall'altare eretto nel grande spazio di
una città, la cui monumentalità (che nel passato brasiliano fu
associata alla magnificenza religiosa) ha avuto il suo momento di gloria, Papa
Wojtyla affermava che «la missione della Chiesa non può essere
ridotta al socio-politico ma consiste nell'annunciare ciò che Dio ha
rivelato riguardo a se stesso e al destino dell'uomo».
Queste
espressioni papali qualificavano subito il viaggio, nel senso che Giovanni Paolo
II intendeva insistere e persuadere della necessità di improrogabili
riforme cui bisogna giungere senza ricorrere alla violenza. Il monito divenne
più esplicito il giorno successivo, quando il Papa, compiendo parecchie
ore di volo, si soffermò dapprima a Belo Horizonte, poi a Rio de
Janeiro.
Il mezzo milione di persone che s'era raccolto a Brasilia per la
messa - la maggior parte uscita dai sobborghi della capitale o meglio dalle
baracche che avevano alloggiato temporaneamente gli operai durante la
costruzione della città - rappresentava l'avanguardia delle masse umane
richiamate dal rapido passaggio del Pontefice nella città brasiliana. Per
vedere il Papa, per gridargli i loro evviva erano discesi a Belo Horizonte da
ogni parte di uno Stato che nei primi anni del 700 con le sue ricchezze
minerarie, oro e diamanti, aveva costituito il fulcro del secondo ciclo
economico del Brasile, dopo la caduta della coltivazione dello zucchero. Quei
tempi dell'uragano aurifero, che aveva fatto dare nomi di follia ad alcune
città come Ouro Preto (Oro nero) e Diamantina, adesso fanno parte della
storia: le miniere non sono più così prospere da dar lavoro alle
migliaia e migliaia di giovani che, nell'angoscia e nella disperazione per le
drammatiche condizioni economiche, s'erano stretti intorno al Pontefice anche
attribuendogli poteri miracolosi. Non per nulla, come a Brasilia, lo avevano
accolto con croci e bandiere e con una canzone in cui lo si chiamava «Joao
de Deus», Giovanni di Dio.
«PAPA RE RE RE!»
«Aperti alla dimensione sociale dell'uomo voi
non nascondete la vostra volontà di trasformare radicalmente le strutture
sociali che a voi si presentano ingiuste», aveva detto Giovanni Paolo II,
cogliendo l'insofferenza di una generazione meno brasiliana delle precedenti,
nel senso che alla passività e all'accettazione dei fatti compiuti si va
sostituendo la piena consapevolezza dei propri diritti. Ma ciò non deve
avvenire attraverso «la lotta e l'odio tra i gruppi sociali, nell'utopia di
una società senza classi che si rivela ben presto creatrice di nuove
classi». Una esortazione che, almeno sul momento, sembrò essere
condivisa non soltanto per gli applausi che sottolineavano le sue frasi, e lo
sventolio delle bandierine, ma per l'entusiasmo che esplose una volta terminato
il discorso. Tanto più che Giovanni Paolo II, come in Messico, in
Polonia, negli Stati Uniti, aveva contribuito ad alimentare l'entusiasmo dei
giovani cantando insieme con loro, divertendosi. Talora la folla urlava:
«Papa re, re, re», un grido ritmato che dicono accompagni negli stadi
di calcio brasiliani i grandi giocatori.
A Rio de Janeiro, poi, l'esultanza
e gli osanna salirono ancora di tono.
Non s'era mai vista una città
abitata da oltre sette milioni di persone aspettare con impazienza il calare del
sole per salutare un uomo. Il Papa giunse, con l'aereo posto a disposizione dal
presidente Figueredo, al crepuscolo; già lo sfavillio delle luci di
Copacabana, Gloria, Ipanema e Botafogo, per citare alcune delle famose spiaggie,
nonché l'illuminazione della statua del Cristo Redentore sulla cima del
Corcovado davano a Rio l'aspetto di visione notturna delle cartoline postali.
Uno spettacolo che il Papa poté vedere per qualche attimo: a terra
l'attendeva un imponente altare che ricordava le caratteristiche piramidi
precolombiane, circondato da almeno un milione di persone, e dopo la messa,
ancora altri impegni, fino a notte alta.
Rio de Janeiro è l'unica
città brasiliana che ospitò il Papa per quasi due giorni, il tempo
indispensabile ad esaurire un fittissimo programma che includeva la visita ad
uno degli aspetti più vergognosi della società civile, quali sono
le «favelas», gli agglomerati di catapecchie nelle quali vivono decine
di migliaia di persone. Non ha importanza che a Giovanni Paolo II sia stato
fatto vedere il meno squallido di questi villaggi, dove non casualmente il nero
della pelle è in grande prevalenza. Non ha importanza che si sia trattato
di una «favela», quella di Vidigal (una delle centocinquanta di Rio de
Janeiro) in cui lo Stato si era affrettato nei giorni precedenti a costruire una
scalinata per entrarvi, portare luce e telefono, compiere le prime
formalità di legge che dovrebbero dare in futuro ai quindicimila abitanti
la proprietà del fazzoletto di terra sul quale hanno eretto le loro
baracche, Il Papa percepiva egualmente il problema della povertà:
«Tra voi sono molti i poveri. E la Chiesa in terra brasiliana vuole essere
la Chiesa dei poveri», disse agli abitanti che lo avevano accolto cantando
a ritmo di samba una canzone - «Saluto al Papa» - composta per
l'occasione.
L'ANELLO IN DONO AI POVERI
Le drammatiche condizioni di vita di quella gente
erano così evidenti che Papa Wojtyla, toltosi l'anello, lo dette al
parroco perché lo vendesse e ne distribuisse il ricavato. Un gesto
improvviso e inaspettato che testimoniava quanto la realtà avesse
commosso il Pontefice, il quale non può non essersi chiesto, salendo in
vetta al Corcovado per salutare con un messaggio il Brasile, fino alla grande
statua del Cristo Redentore (restaurata in tutta fretta dal governo spendendo
quattro miliardi di lire), le cause che impediscono ad un paese raffigurato
giustamente come un eden di essere tale anche per gli uomini. «Dio è
brasiliano», dicono gli abitanti con orgoglio per indicare le ricchezze
potenziali nascoste nel loro suolo, ma se lo sfruttamento di queste ricchezze
è fatto da pochi, il Dio del quale parlano è impastato di
egoismo».
Non meno significativo fu l'abbraccio tra il Papa e un
operaio nello stadio del Morumbi di San Paolo, non appena l'operaio, Waldemar
Rossi, terminò di leggere un saluto nel quale chiedeva libertà di
associazione sindacale, partecipazione al processo produttivo, trasformazioni
sociali. Nello stadio ad attendere Giovanni Paolo v'erano più di
centocinquantamila lavoratori dell'industria metalmeccanica e metallurgica della
«grande San Paolo», la megalopoli di dodici milioni di abitanti che ha
perso nel tempo ogni caratteristica brasiliana per divenire con la selva dei
suoi grattacieli (superiori come numero alla stessa New York) una tipica
città industriale. Una moltitudine di operai che non si mosse dalle
gradinate neppure quando cominciò a piovere, pronta a rompere il
religioso silenzio con cui ascoltava il discorso papale con boati di consenso
sentendo dire dal Pontefice: «La persistenza dell'ingiustizia, la mancanza
di giustizia minaccia l'esistenza della società di dentro e di
fuori». Dal di dentro «quando nella distribuzione dei beni ci si
affida unicamente alle leggi economiche della crescita e del maggior lucro
quando i risultati del progresso toccano solo marginalmente, o non toccano
affatto i vasti strati sociali della popolazione; essa esiste anche mentre
persiste un abisso profondo tra una minoranza molto forte di ricchi e la
maggioranza di coloro che vivono nella necessità e nella miseria».
Centocinquantamila persone che trattenevano il Papa con le loro ovazioni e ne
accompagnavano l'uscita cantando: «Piangiamo perché tu te ne vai e
in noi rimane la nostalgia».
FINE DEL VIAGGIO
Dopo la tappa di San Paolo fu la volta delle
città del sud, Porto Alegre e Curitiba, la cui allegria ed esultanza non
erano contrappuntate, o in misura assai ridotta, dalla speranza che il Papa
potesse risolvere, con la sua sola presenza, i problemi brasiliani. Questo
accadde nelle soste successive della lunga, estenuante maratona, quando dalle
ricchezze agricole e dai prosperi allevamenti del sud si passò alla
povertà e alla fame del nord. Le ore di aereo parvero realmente poche
rispetto al profondo contrasto fra le due zone del Brasile, quasi due mondi, non
solo dal punto di vista geologico ed economico, ma persino climatico. Al sud,
nelle terre dei gauchos e delle estancias, ai confini dell'Argentina e
dell'Uruguay, l'inverno è inverno, come in Europa, mentre al nord le
stagioni mutano soltanto sul calendario. Il calore dei tropici è
pressoché costante.
Nelle città del Rio Grande do Sul o del
Paranà il portoghese rappresenta la seconda lingua per italiani,
polacchi, tedeschi delle successive ondate di emigrazione; al nord è
l'unificante idioma di un popolo condannato alla miseria dalla siccità.
Contrasti netti, rimasti tali malgrado la sosta di ventiquattro ore in Salvador
de Bahia, la «culla del popolo brasiliano», come la definì il
Papa.
La tappa di Bahia non fu dettata da necessità tecniche o anche
solo fisiologiche, sebbene ogni sera Giovanni Paolo II apparisse sempre
più provato per l'accumularsi della stanchezza di un massacrante viaggio
che gli imponeva di percorrere giornalmente 1250 chilometri. Papa Wojtyla si
fermò a Bahia perché nel Brasile ufficialmente cattolico vi sono
milioni di fedeli che accolgono in un unico pantheon divinità pagane e
santi, le prime sovente celati sotto i nomi dei secondi, e perché la
preziosa bellezza della città - la faccia negra del Brasile - nasconde la
miseria di uomini e donne, i quali, chiusa la fase della ricchezza prodotta
dalle piantagioni di canna da zucchero, credono nel progresso e nella
industrializzazione. Speranze condivise anche dagli abitanti dello Stato di
Pernambuco e degli altri sette Stati ai quali appartiene il «sertao»,
la fascia di territorio tre volte più vasta dell'Italia soggetta alla
disgrazia di poche giornate di pioggia all'anno e ad un clima che fa prosciugare
i fiumi, rende polverosi i campi, striminzite le bestie, le piante, le persone.
A queste persone, i «campesinos», il Papa parlò. Helder Camara,
l'arcivescovo di Recife, capitale dello Stato di Pernambuco, aveva fatto erigere
l'altare al disopra di un ponticello dell'autostrada, avanti ad una spianata
dove fino a qualche anno fa sorgeva una «favela». «Basterà
che il Papa si guardi un poco intorno per vederne altre», s'era detto. Del
resto Giovanni Paolo Il era ormai in grado di riconoscere da lontano le contorte
macchie di questi agglomerati umani. Dopo quella di Rio al Pontefice ne era
stata fatta vedere una seconda a Salvador de Bahia, chiamata
«a/agados» perché le casupole sorgono su pali piantati in una
putrida laguna e le strade sono formate da rudimentali passerelle.
Ai
«campesinos» accorsi dall'interno del «sertao» Papa Wojtyla
non poteva che ripetere quanto era andato dicendo fin dal primo giorno della
visita: «La Chiesa è dalla parte dei poveri... la organizzazione
sociale è al servizio dell'uomo e non viceversa... una situazione nella
quale la popolazione, anche quella del mondo rurale, vede che la sua
dignità non è rispettata porta alla rovina poiché lascia il
campo aperto ad altre iniziative ispirate dall'odio e dalla violenza». Cosa
poteva aggiungere arrivando a Teresina, la capitale del Piauì, lo Stato
più povero del Brasile, se non leggere a voce alta e con tono amaro le
parole scritte sul grande cartellone che la folla tendeva verso di lui:
«Padre, il popolo ha fame»?
La realtà brasiliana e
l'immagine che se n'era fatta indussero il Papa a riscrivere in parte il
discorso da lui preparato per l'incontro con i vescovi. Non a caso Giovanni
Paolo II aveva atteso, la vigilia del ritorno a Roma, di giungere nella
città di Fortaleza, dove aveva anche celebrato la messa inaugurale del
congresso eucaristico nazionale, per parlare ai centonovantotto presuli
brasiliani. Se l'adunata fosse stata tenuta all'inizio del viaggio,
probabilmente egli non avrebbe avvertito la necessità di rivedere il
testo del discorso alla luce delle esperienze vissute nei precedenti undici
giorni, dopo aver osservato un paese profondamente segnato da contrasti sociali
e da disuguaglianze regionali. E probabilmente vi sarebbe stata quella
sconfessione dell'operato della gerarchia ecclesiastica che si attendevano gli
ambienti governativi e in genere l'establishment brasiliano. Al contrario Papa
Wojtyla, pur non tacendo i rischi che corre la Chiesa brasiliana, quali la
possibilità di una polarizzazione tra la Chiesa popolare e quella
gerarchica, tra la ricerca teologica e l'insegnamento dei vescovi, la confusione
tra la pastorale e l'attività socio-politica che spetta al laico, lodava
la povertà e la semplicità dei vescovi, appoggiava vigorosamente
l'attività svolta dalla conferenza episcopale
brasiliana.
L'episcopato, o meglio il suo organismo collegiale, usciva
rafforzato dal viaggio papale, anche se non erano mancati moniti ed esortazioni
ai vescovi: l'invito a dare grande spazio a tutte le questioni connesse con la
vita religiosa, il rinnovamento della liturgia, le vocazioni, la formazione dei
giovani; il distinguo già espresso nelle piazze e nelle strade, la
volontà di non sostituirsi alle autorità pur essendo dovere della
Chiesa di manifestarsi a favore del popolo, dei poveri, della lotta contro le
ingiustizie e le violazioni dei diritti umani. Niente di nuovo rispetto a quanto
già detto in Messico, la divisione del sociale dal politico. Solo che
questa distinzione appare piuttosto ardua nel mondo brasiliano, in cui i due
campi sono strettamente connessi.
Il giorno successivo, lasciata Fortaleza
dove per vedere il Papa s'era scatenata una ressa simile a quella verificatasi a
Kinshasa che aveva provocato tre vittime, l'estenuato viaggiatore toccava la
punta estrema del Brasile: Manaus, la capitale dell'Amazzonia, più di un
milione e mezzo di chilometri quadrati di selva e di fiumi; una piccola
città che ancora ricorda in alcuni edifici la tramontata ricchezza
dell'epopea della gomma, estesa lungo acque nere sotto l'eterna umidità
dell'estate. Malgrado l'irrespirabile temperatura, 40 gradi all'ombra, Giovanni
Paolo II celebrava la sua ultima messa in territorio brasiliano su un altare
costruito a forma di canoa per indicare che il rito era particolarmente
riservato agli Indios, decimati e scacciati dalle loro terre. Ed anche gli
Indios erano lì con i doni per l'uomo che aveva proclamato il loro
diritto di possedere i luoghi dove avevano vissuto generazioni di antenati,
«di abitare nella pace, nella serenità, senza il timore - vero
incubo - di essere sloggiati a beneficio di altri». Offrirono al Papa
oggetti tipici e prodotti dell'Amazzonia, fibra tessile, stuoie di paglia e un
arara, un pappagallo dalle piume variopinte.
Papa Wojtyla tornava a Roma
dopo aver compiuto un viaggio di 40 mila chilometri e aver pronunciato 54
discorsi per un totale di 32 ore. La sua immagine pubblica di leader mondiale
usciva rafforzata dalla visita in Brasile. Nessuno dei precedenti soggiorni
fuori d'Italia, neppure quello in Messico durante il quale governo e
attività politica erano stati messi in mora, aveva visto riunite intorno
a lui tanti milioni di persone, come in Brasile. Era stato esaltato, chiamato
«Giovanni di Dio», «Papa re», «Papa gaucho»,
«Papa nostra guida», «Papa nostro fratello». Invocazioni
più che grida: adesso tornava a Roma, al Vaticano, alla sua «Sede
naturale», portando negli occhi l'immagine fisica di quelle nazioni
sterminate, e nel cuore l'impegno di non dimenticare nemmeno per un giorno
l'immensità e la profondità dei loro bisogni materiali e
spirituali.
IL SINODO DEI VESCOVI
Alla fine di settembre, dopo oltre un mese e mezzo
trascorso a Castel Gandolfo, periodo nel corso del quale aveva ripreso gli
incontri serali con i giovani delle organizzazioni cattoliche italiane e
straniere, Giovanni Paolo II rientrava a Roma per dare vita ad una importante
riunione: la quinta assemblea generale del Sinodo dei vescovi.
Il Sinodo
è un organismo centrale della Chiesa, convocato e presieduto direttamente
o indirettamente dal pontefice, composto dai membri dell'episcopato eletti dalle
varie Conferenze episcopali nazionali al fine di esaminare un determinato tema
ed offrire al papa suggerimenti. Istituito nel settembre del 1965 da Paolo VI,
il quale aveva colto e anticipato l'esigenza, espressa dal Concilio Vaticano
Secondo, di creare un organismo in grado di partecipare al governo centrale
della Chiesa, il Sinodo ha ordinariamente poteri consultivi.
Giovanni Paolo
II, che per più anni aveva fatto parte, come cardinale arcivescovo di
Cracovia, del Consiglio della Segreteria generale - organo permanente di una
struttura i cui membri decadono al termine di ciascuna assemblea - era
consapevole dell'importanza della riunione, chiamata a discutere la crisi della
famiglia cristiana nel mondo contemporaneo. A lui era toccato confermare il tema
scelto dal suo immediato predecessore, Papa Luciani, il quale a sua volta s'era
limitato a indicare l'argomento più insistentemente richiesto dai vescovi
nella lista presentatagli dal Consiglio, di cui appunto era stato membro
l'arcivescovo Wojtyla. Un tema di grande attualità, giacché in
tutti i paesi del mondo l'istituto familiare è divenuto un simulacro di
quello che era un tempo: il calo delle celebrazioni matrimoniali sia religiose
sia civili, l'aumento delle unioni libere, le interruzioni della gravidanza, la
diminuzione delle nascite hanno sconvolto il modello tradizionale della
famiglia. Come opporsi a tale lacerazione? Quale deve essere la fisionomia della
famiglia cristiana?
A CONSULTO SULLA FAMIGLIA
Giovanni Paolo II, il quale attribuisce grande
valore al lavoro sinodale - aveva già indetto due Sinodi particolari, il
primo per dirimere le vertenze tra i sette vescovi olandesi, il secondo per dare
un successore al cardinale ucraino arcivescovo di Leopoli, Giuseppe Slipyi -
assisteva a tutte le sedute generali, prendendo accuratamente appunti su quanto
veniva detto nell'aula. Un mese di dibattiti che avevano fatto emergere le
differenti esperienze e i diversi contesti culturali, a seconda della
provenienza dei presuli, e conseguentemente espresso soluzioni e linee operative
talora anche in contrasto. Non v'erano soltanto cardinali e vescovi ad assistere
ai lavori. Papa Wojtyla aveva voluto che fossero presenti anche sedici coppie di
coniugi di vari paesi e continenti, in grado di portare un personale contributo
alla discussione. E proprio da una coppia africana era nato un problema
organizzativo: trovare una persona che potesse badare al loro bambino di pochi
mesi, condotto a Roma non sapendo a chi affidarlo.
Uno dei punti
maggiormente trattati dai vescovi riguardava l'approfondimento della famosa
enciclica di Paolo VI sulla contraccezione, Humanae vitae, il documento
cioè che ribadisce il divieto di usare anticoncezionali. Da qualche parte
si sollecitava una maggiore comprensione delle difficolta in cui si imbattono i
coniugi cattolici per rispettare la proibizione o si faceva presente l'alto
tasso di natalità, l'esplosione demografica nei paesi del Terzo Mondo. Ma
l'assemblea unanimamente finì col respingere ogni ipotesi di revisione
dottrinale e pratica, accettando solo che fossero meglio illustrati ai fedeli i
fondamenti, il senso e la portata dell'enciclica. Così come ha rifiutato
ogni attenuazione della proibizione di concedere i sacramenti ai divorziati
risposati, i quali però non debbono essere esclusi dalla comunità
dei fedeli e vanno trattati in ogni caso con comprensione fraterna.
Al
termine dei lavori Papa Wojtyla tracciò un bilancio dell'esame compiuto
dal Sinodo, «in modo sincero e libero», riaffermando
l'indissolubilità del matrimonio, la difesa della vita prenatale, la
validità della famiglia nella quale la donna «non sia costretta ad
un lavoro fuori casa per motivi economici». In sostanza il contestato
modello della famiglia cristiana ne usciva rafforzato. Lo affermarono anche i
vescovi in un messaggio in cui, pur riconoscendo le problematiche situazioni
nelle quali vivono molti coniugi, invitavano i cattolici «a crescere nel
difficile cammino verso una sempre maggiore fedeltà ai comandamenti
divini».
PRIMO VIAGGIO IN GERMANIA
Ancora prima dell'inizio del Sinodo, in agosto,
Papa Wojtyla aveva annunziato di voler compiere in novembre una visita pastorale
nella patria di Lutero. E mentre i vescovi erano riuniti a Roma, la diplomazia
della Santa Sede aveva preso contatti con le autorità della Germania
federale per stabilire modalità e tempi del nuovo pellegrinaggio.
L'occasione del viaggio era data dal settimo centenario della morte di
Sant'Alberto Magno, il grande filosofo medievale proclamato da Pio XII patrono
delle scienze naturali, la cui tomba è a Colonia. Ma in realtà il
Papa voleva ancora una volta affrontare i problemi di una Chiesa solidamente
inserita nella tradizione cristiana avendo di fronte la non meno rocciosa Chiesa
riformata protestante. Bisognava dunque tenere presente anche il rapporto con i
cristiani evangelici e, sul piano politico, la situazione di un paese spaccato
in due dopo l'ultimo conflitto mondiale.
Una difficoltà protocollare
fu superata dopo non pochi colloqui e ripetuti viaggi a Bonn dell'arcivescovo
americano Paul Marcinkus, cui è affidato il compito di concordare sul
luogo l'itinerario dei pellegrinaggi: riguardava gli incontri del Papa con le
autorità. Di solito Giovanni Paolo lI visita soltanto il capo dello
Stato, e riceve collettivamente membri del governo e parlamentari. Ma nella
Germania federale, accanto al presidente della Repubblica vi è il
cancelliere, che esercita un potere di gran lunga superiore a quello del primo
ministro o del presidente del consiglio di altri paesi. Fu trovato un
compromesso tra la richiesta del cancelliere Helmut Schmidt, il quale avrebbe
desiderato avere il Papa suo ospite, e quella del Vaticano, che non volendo
creare precedenti insisteva per una udienza collettiva riservata al governo.
Giovanni Paolo II avrebbe visto dapprima il presidente Karl Carstens nel
castello di Brühl e, successivamente, in un'altra sala del medesimo
castello, il cancelliere Schmidt.
ECUMENISMO E RIFORMA
Altra questione da sistemare era quella
dell'incontro del Papa con i capi della Chiesa luterana, i quali desideravano
molto più di un contatto formale; volevano una lunga conversazione nel
corso della quale porre domande e ricevere risposte sul tema dell'ecumenismo.
Richiesta non semplice da esaudire nel corso di un programma di cinque giorni,
colmo di visite alle molteplici istituzioni cattoliche e di celebrazioni.
Comunque anche questo aspetto del soggiorno fu soddisfacentemente risolto, e la
Germania occidentale cominciò ad attendere il Papa.
Un'attesa
contraddistinta da polemiche, dopo la pubblicazione, per iniziativa
dell'episcopato tedesco, di un volumetto sulla Chiesa in Germania, che
comprendeva un capitolo non molto benevolo nei confronti di Martin Lutero. Le
reazioni di parte protestante furono così vivaci che l'episcopato
cattolico chiese scusa per quanto aveva lasciato pubblicare, impegnandosi ad una
nuova edizione riveduta e corretta,del volume. L'episodio, tuttavia, non ebbe
alcuna incidenza sulla cordialità con cui venne poi accolto il Papa,
così come non ne ebbe il cattivo tempo che, secondo le previsioni grande
ombrello bianco coprì il Papa, accompagnandolo, dopo il rituale dei colpi
di cannone, degli inni e della rivista alle truppe schierate, sul piccolo podio
a fianco del presidente Carstens. Davanti a Giovanni Paolo II diverse migliaia
di persone furono subito divertite da una sua battuta: "Perdonatemi se non vi ho
portato altro che la pioggia". Gli altri fedeli, una massa di oltre
duecentomila, lo attendevano sullo spiazzo erboso del Butzweiler Hof, intorno ad
un grande altare. Né la pioggia, né il vento avevano impedito alla
gente di attendere per ore il Papa, di acclamarlo al suo arrivo in un'automobile
sulla quale era stata innalzata una specie di cabina trasparente degli
osservatori, avrebbe finito per trattenere i Tedeschi a casa, davanti allo
schermo televisivo.
A COLONIA CON L'OMBRELLO
La mattina del 15 novembre, quando Giovanni Paolo
II, primo pontefice che metteva piede nella patria di Lutero dopo la Riforma,
scese all'aeroporto di Colonia, pioveva e faceva freddo. La puntuale ed
efficientissima organizzazione tedesca - la quale aveva ingaggiato anche un
gruppo di meteorologi per studiare le condizioni climatiche - non si
trovò impreparata. Unte di modo che egli potesse, ritto in piedi,
salutare la folla senza bagnarsi.
Al termine della prima giornata,
distribuita tra la celebrazione della messa, la visita alla tomba di Alberto
Magno, il colloquio con scienziati e studenti, e gli incontri ufficiali nel
castello di Brühl, a breve distanza da Bonn, i Tedeschi risultarono
conquistati dall'ospite. Per alcuni aveva giocato il suo ripetuto accenno, sia
nel discorso all'aeroporto, sia in quello rivolto al presidente Carstens nel
castello, alle «sofferenze» provocate dalla divisione della Germania e
alla necessità di trovare «una pacifica e doverosa soluzione in
un'Europa unita»; per altri l'essersi presentato come un pastore alla
ricerca dell'intesa ecumenica; per la folla in generale, oltre al suo fluente
tedesco, un inaspettato gesto di Giovanni Paolo II.
Era accaduto al termine
dell'omelia pronunciata nel corso della messa: il Papa aveva ricordato il
rapimento avvenuto pochi giorni prima di Caterina Beker, una bambina di 11 anni,
figlia di un industriale, chiedendone la liberazione con parole
accordate.
A MAGONZA CON LUTERO
Da Bonn, dove il Papa aveva trascorso la notte, a
Osnabrück, una città di centocinquantamila abitanti in cui lo
attendevano i cattolici profughi dalle regioni dell'Europa dell'est: altre
diecine di migliaia di persone, anch'esse incuranti della pioggia e del freddo.
Una breve tappa prima di proseguire in elicottero per la storica sede di
Magonza, verso il dialogo con i rappresentanti della Chiesa luterana evangelica
e poi con quelli di altre confessioni. Il «vertice», come lo
definirono i giornali tedeschi, svoltosi nel museo della cattedrale, vide di
fronte sette esponenti evangelici e sette cattolici. Il primo a prendere la
parola fu il presidente del Consiglio della Chiesa evangelica: «Lei sta
visitando il paese della Riforma, che ebbe per scopo di condurre i cristiani sul
retto cammino e di chiamarli al rinnovamento, perché la loro vita fosse
una continua conversione... È in questo spirito che noi oggi dobbiamo e
possiamo incontrarla». Parole che entravano subito nel pieno del discorso
dei rapporti tra cattolici e protestanti, tutt'altro che rifiutato da Giovanni
Paolo II: il quale non solo propose, ed ottenne, di istituire una commissione
mista per il dialogo tra evangelici e cattolici, ma volle esprimersi su Lutero
con grande rispetto. «Ricordo - disse - che nel 1510/1511 Martin Lutero
venne a Roma come pellegrino, ma anche come uno che cercava la risposta ad
alcuni suoi interrogativi. Oggi io vengo a voi, eredi spirituali di Martin
Lutero e vengo da pellegrino, per fare di questo incontro, in un mondo mutato,
un segno di unione nel mistero centrale della nostra fede». Fu la
dichiarazione che più doveva impressionare gli ambienti protestanti,
creando intorno al cordiale «vertice» un'atmosfera altamente
positiva.
A FULDA CON I VESCOVI
Man mano che il Pontefice si addentrava nel
territorio tedesco, il calore della folla aumentava: merito anche della
disinvoltura di Giovanni Paolo II e delle sue conversazioni corali. «Siamo
dalla tua parte», gli avevano gridato i giovani la prima sera a Bonn, dopo
il ricevimento del presidente della Repubblica. E lui pronto: «Quale? La
destra o la sinistra?». Oppure a Osnabrück, l'interruzione del canto
finale della messa per dire: «Concedete ancora una parola al Papa. Spero
che non siate tutti bagnati fino alle ossa». Piccoli episodi, messi in
evidenza e commentati dalla stampa e dalla televisione tedesca per esaltare la
modestia e la grande umanità del visitatore.
A Fulda, una cittadina
di ottantamila abitanti nel cuore della Germania, la quarta giornata della
visita papale doveva essere dedicata ai vescovi, ai sacerdoti, ai diaconi, ai
seminaristi, ai laici impegnati nella pastorale. Una serie di discorsi folti di
inviti a testimoniare la fede, di esortazioni all'amore, volte a ribadire il
valore del celibato sacerdotale. I vescovi erano soltanto sessantanove;
mancavano quelli dell'altra Germania, i quali, sebbene invitati, avevano
rinunciato a chiedere il visto alle autorità comuniste al fine di non
rischiare un rifiuto che avrebbe danneggiato ulteriormente i rapporti tra le due
Germanie. Dopo Fulda, ecco il santuario mariano di Altötting, in cui si
venera una modesta scultura gotica di legno scuro, ricoperta di ricchi doni e di
pietre preziose dalla devozione popolare. E infine, a Monaco, il cuore della
Germania cattolica.
IL TRIONFO DI MONACO
La capitale della cattolicissima Baviera s'era
preparata con cura per ricevere Papa Wojtyla. Nel Theresienwiese, il luogo
stesso dove in settembre, durante la tradizionale festa della birra, s'era
verificato un terribile attentato terroristico che aveva causato la morte di 13
persone e oltre 200 feriti, era stato eretto un imponente altare, tale da
consentire a circa 800 mila persone di seguire la celebrazione della messa.
Giovanni Paolo II, giunto in treno dal santuario mariano nel quale aveva parlato
ai teologi, non poteva non ricordare il tragico attentato: «Dove
finirà questo mondo che è diviso in blocchi militari, in popoli
ricchi e poveri, in Stati liberi e totalitari?». Ad ascoltarlo c'erano
soprattutto giovani, festosi ed entusiasti, felici di stringersi intorno
all'ospite che consumava tra loro le sue ultime ore in Germania.
Cinque
giorni, ventiquattro discorsi, nel corso dei quali Giovanni Paolo II non aveva
esitato ad affrontare il problema della divisione della Germania, quello della
scandalosa separazione tra cristiani cattolici e protestanti, e ancora, il
sotterraneo astio che gli poteva derivare dall'essere polacco, una
nazionalità mai eccessivamente amata dai tedeschi. Al termine poteva
dirsi soddisfatto, ricordando i volti di quanti lo avevano acclamato malgrado le
avverse condizioni del tempo, il ponte gettato, seppure ancora esile, verso la
sponda protestante; la concorde visione dei problemi politici mondiali con le
autorità di Bonn. Rientrando a Roma, dirigendosi come al solito a Castel
Gandolfo per ristorarsi dell'estenuante fatica compiuta, Papa Wojtyla non
supponeva che di lì a pochi giorni avrebbe dovuto mettersi nuovamente in
cammino per un dolorosissimo ufficio, una sorta di «Via Crucis» tra le
montagne italiane dell'Appennino meridionale; il programma delle prossime
settimane prevedeva soltanto la pubblicazione della seconda enciclica del suo
pontificato, la Dives in misericordia, Dio ricco di misericordia, che completa
la Redemptor hominis, emanata nel marzo del 1974 e dedicata all'uomo, alla sua
causa, alla sua dignità, ai pericoli che lo minacciano.
IL VIAGGIO NELLE ZONE TERREMOTATE
Ma la sera di lunedì 24 novembre, dinanzi
alle immagini del teleschermo che mostra vano i paesi distrutti dal sisma del
giorno precedente, Papa Wojtyla decideva di recarsi sui posti della tragedia.
Normalmente il Pontefice non lascia il Vaticano, neppure per visitare le
parrocchie romane, senza aver dato notizia in precedenza delle sue intenzioni
alle autorità italiane, le quali provvedono alla scorta e talvolta,
quando c'è da percorrere molti chilometri, all'elicottero. Ma data
l'urgenza con cui Giovanni Paolo II voleva testimoniare la partecipazione al
dolore della Campania e della Lucania, fu appena possibile abborracciare un
itinerario. La mattina di martedì 25 non si trovò neppure il
potente elicottero dell'areonautica militare usualmente posto a disposizione di
Giovanni Paolo II. Il Papa, accompagnato dal cardinale Segretario di Stato
Casaroli e da due alti prelati, fu condotto in auto fino alla pista di Ciampino,
per imbarcarsi su un aereo militare che lo avrebbe portato fino all'aeroporto di
Capodichino. Di lì, un normale elicottero gli avrebbe fatto raggiungere
Potenza.
Non accade quasi mai che un Pontefice si rechi sui luoghi di un
disastro mentre ancora le macerie fumano di polvere e ancora si scava con le
mani fra gli ammassi di ruderi per tentare di strappare qualche creatura umana
alla lunga agonia dei sepolti vivi. Paolo VI aveva atteso più di un mese
e mezzo prima di visitare Firenze alluvionata. L'unico precedente, per un certo
verso, era rappresentato dall'apparizione di Pio XII tra le case bombardate del
quartiere romano di San Lorenzo, durante il secondo conflitto mondiale: una
presenza che volle anche significare protesta e richiamo al rispetto verso una
città che la diplomazia vaticana aveva ottenuto fosse considerata
«aperta» da ambedue gli schieramenti avversari.
«LA SOFFERENZA E LA PREGHIERA»
L'elicottero depositò Giovanni Paolo II
vicino all'ospedale di San Carlo. E subito il Papa, accompagnato dal vescovo di
Potenza, ne volle visitare le corsie, soffermandosi con l'uno e con l'altro dei
feriti. «Vengo per mostrarvi che sono vicino a voi, per darvi un segno di
quella speranza che per l'uomo deve essere un altro uomo»: parole
pronunciate con sgomento nell'atrio stesso dell'ospedale. Poi, di nuovo
sull'elicottero per sorvolare i paesi distrutti, e in automobile a Balvano, un
paesino in cui la chiesa era crollata seppellendo tra gli altri uno stuolo di
bambini che si preparavano alla prima comunione. Sullo spiazzo antistante le
prime tende sistemate per dar ricetto ad una popolazione chiusa in un disperato
silenzio, il Papa s'era inerpicato su un tavolo: «Uno mi ha detto: questa
gente così colpita non può più nemmeno pregare. Ma io vi
dico che voi pregate con la vostra sofferenza. Sono convinto che pregate
più di tanti che pregano a parole, perché portate davanti al
Signore la vostra immensa sofferenza, le vostre vittime, specialmente i giovani
e i bambini che sono morti in chiesa». Da Balvano in elicottero ad
Avellino, nel campo sportivo, tra le centinaia di persone in attesa di trovare
ricovero nelle tende. Un'automobile lo portava attraverso la città, tra
negozi serrati e case abbandonate perché lesionate o per paura, fino
all'ospedale. Qua e là, gruppi di uomini e donne con il volto spento, gli
occhi smarriti, che si rendevano conto della inaspettata presenza del Papa
quando già egli era passato. L'ospedale di Avellino, giudicato inagibile,
era stato evacuato: c'era solo il pronto soccorso, allestito sotto alcune tende,
e i medici al lavoro. La folla intanto s'era raccolta intorno al Pontefice, una
folla che non gridava, non applaudiva, si limitava a guardarlo, toccandogli le
mani. Solo al campo sportivo, prima che risalisse sull'elicottero per tornare a
Roma, gli gridarono: «Santo Padre, ci aiuti lei. Dica che facciano presto,
che ci ridiano le nostre case!» Papa Wojtyla, per vincere la commozione, si
copriva con una mano la fronte, nascondendo il volto e gli occhi pieni di
lacrime.
ATTENTATO A ROMA
«Hanno ammazzato il Papa» è la
prima notizia. In piazza S. Pietro un silenzio di ghiaccio, la gente sfolla
stravolta, ma lentamente. Non vuole più sapere, né vedere. Dopo
l'intervento delle Forze dell'ordine, tutti i fedeli si raccontano l'accaduto.
«Gli hanno sparato ma l'hanno soltanto ferito. E grave; ma è
vivo».
Alle 17,17 del 13 maggio 1981 durante l'udienza generale in
piazza S. Pietro, Giovanni Paolo II è ferito. Il Papa stava dando la mano
ad una ragazza vestita di bianco. In quell'attimo, da una distanza di circa tre
metri, una mano tesa che impugna una pistola ha sparato.
Due proiettili lo
raggiungono: uno all'addome, uno al gomito destro; lo trasportano in
autoambulanza al Policlinico Gemelli.
La gente stenta a credere. Ma la
notizia è vera. E, in quel momento, mentre «la voce» della sala
operativa della Questura continua a sguinzagliare dovunque le pattuglie, colui
che ha commesso l'atto incredibile, che ha sparato contro l'Uomo della
bontà, della pace, dell'amore, della vita, è già stato
catturato.
L'intervento delle Forze dell'ordine lo ha sottratto ad un quasi
certo linciaggio. Senza che accenni ad una qualunque resistenza, viene portato
al Commissariato, e sottoposto ad un primo interrogatorio.
Chi è?
Perché ha compiuto un simile gesto? Si dice che sia la stessa persona che
aveva minacciato il Papa in Turchia alla fine del 1979. L'attentatore, un certo
Mehmed Alì Agca, afferma di essere evaso dalla prigione per assassinare
il Papa durante il suo soggiorno ad Istanbul.
In tasca gli trovano la
rivendicazione dell'attentato: «Uccido il Papa per protestare contro
l'imperialismo dell'Unione Sovietica e degli Stati Uniti e contro i genocidi che
stanno mettendo in atto in Salvador e in Afghanistan».
Dopo vari
interventi chirurgici Giovanni Paolo II è dimesso dal Policlinico
Gemelli, per fare ritorno in Vaticano.
L'APPUNTAMENTO A FATIMA
Quasi un mese dopo, il Papa è pellegrino in
Portogallo, e precisamente nel piccolo paese di Fatima dove il 13 maggio 1917
tre pastorelli della conca di Iria - Francisco e Jacinta Marto e Lucia Dos
Santos - ebbero per la prima volta la visione della Madonna, visione che si
rinnovò poi il giorno 13 di ogni mese, fino all'ottobre, quando avvenne
alla presenza di settantamila persone contemporaneamente al verificarsi di
fenomeni straordinari come la rotazione per dieci minuti del disco solare. A
Fatima si era già recato in pellegrinaggio il pontefice Paolo VI nel
, in occasione del cinquantenario delle apparizioni. Sbarcando all'aeroporto
di Lisbona il Papa dichiara: «Sono in Portogallo per realizzare un sogno da
molto accarezzato. Questo mio pellegrinaggio ha un motivo dominante: Fatima. In
direzione di Fatima o nel ritorno da Fatima porto nel cuore il cantico delle
azioni di grazia di Nostra Signora per avermi Dio salvato la vita,
nell'attentato sofferto il tredici maggio dell'anno passato». Oltre un
milione di fedeli giungono in pellegrinaggio dopo giorni di marcia da tutto il
Paese; ai più, sfugge il gesto inconsulto di un uomo in abito talare che
si getta sul Papa ai piedi dell'altare; è armato di baionetta, si chiama
Fernandez Krohn, è un prete spagnolo anticonciliare seguace di monsignor
Lefebvre, che però condannerà il suo atto di «cieco
fanatismo». Ancora una volta Giovanni Paolo II l'ha scampata bella, grazie
alla evidente protezione della Madonna alla quale tanto spesso e volentieri si
raccomanda.
VISITA ALLA CHIESA «ULTIMOGENITA»
Il 13 maggio 1981 segna inevitabilmente una
frattura nell'attività del Papa, il cui organismo, duramente provato,
deve riprendersi con una lunga convalescenza, trascorsa prima al Policlinico
Gemelli di Roma (fino al 14 agosto), e poi nella quiete di Castelgandolfo. Da
tutto il mondo gli sono giunte le affettuose espressioni di solidarietà
dei cristiani più umili e più importanti, ed egli ne ha tratto
spunto per meditare in solitudine severa e serena, preparandosi a riprendere
l'attività appena le forze glielo permetteranno. Il primo pellegrinaggio
apostolico di Giovanni Paolo II dopo la sosta forzata ha avuto per meta
l'Africa, ossia quella comunità cristiana che - pur essendo antichissima
in certe sue espressioni - oggi viene definita come «la Chiesa
ultimogenita».
Prima tappa del Papa è la Nigeria, dove incontra
migliaia di fedeli nella capitale Lagos venerdì 12 febbraio, festa di
Santa Eulalia, «colei che parla bene».
Il cristianesimo si
diffuse in Africa a partire dalla seconda metà del Il secolo, in diretta
conseguenza della dominazione romana, penetrando in profondità solo a
Est, nella versione monofisita copta (cioè «egiziana»). Nel 340
si convertì al cristianesimo il re Eana, sovrano del regno di Aksum. Un
secolo più tardi vi si affermò l'eresia donatista, ma dopo il
Concilio di Calcedonia del 451 l'Egitto rimase fedele al monofisismo della
locale Chiesa Copta. Nel V secolo i Vandali v'introdussero l'arianesimo,
combattuto da missionari bizantini, i quali penetrarono nella Nubia durante il
VI secolo, suscitandovi un regno cristiano durato fino al secolo XV. Bloccata
dall'espansionismo islamico, la diffusione del cristianesimo nell'interno del
Continente nero riprese solo con i missionari giunti al seguito dei coloni
spagnoli e portoghesi. Il Papa rievoca brevemente le tappe della recente
cristianizzazione del Paese nel suo discorso ai fedeli di Lagos: «Nel corso
del tempo, - dice, - e in armonia col profondo mistero del piano di Dio, la
Buona Novella della salvezza è giunta finalmente in Nigeria, raggiungendo
prima il regno del Benin, circa cinque secoli or sono». Quel primo
tentativo di evangelizzazione alla fine si è arenato, e il lavoro
permanente di diffusione della fede dovette attendere fino al 1863, quando i
padri della Società per le Missioni Africane raggiunsero Lagos. Poi nel
i Padri dello Spirito Santo si spinsero fino ad Onitsha, e un po'
più tardi la Società per le Missioni arrivò a Lokoja e
Shendam.
LA COLLABORAZIONE COI MUSULMANI
Il Papa, sempre attento alle situazioni storiche e
reali, si congratula coi fedeli e col clero della Nigeria anche per le
iniziative che li vedono operare in comune coi membri di altre religioni,
soprattutto con i Musulmani, per la promozione della pace, dell'unità e
dei diritti umani. Parlando poi ai membri del Governo, egli sottolinea con forza
il carattere esclusivamente religioso di questo suo secondo pellegrinaggio
pastorale africano. Il giorno seguente, ad Onitsha, Giovanni Paolo II predica
sulla famiglia cristiana e poi si rivolge in particolare ai giovani, dopo aver
amministrato i sacramenti del battesimo e della confermazione a un nutrito
gruppo di catecumeni. Agli infermi accolti nell'ospedale San Carlo Borromeo di
quella località, il Papa ricorda la visita che vi fece il suo
predecessore Paolo VI quando esso era ancora in costruzione. A Enugu parla ai
seminaristi della nazione nigeriana, consolandosi per la vita e il vigore della
loro giovane Chiesa, e a Kaduna, il giorno 14, impartisce a un gruppo di essi il
sacramento dell'ordine sacerdotale. Infine, dopo la recita dell'Angelus, dedica
la Nigeria alla Madonna. Sempre a Kaduna, il Papa ha tenuto un importante
discorso rivolto ai capi religiosi islamici, chiedendo loro di trasmettere un
saluto particolare ai molti milioni di musulmani di questo grande Paese, e
sottolineando che il Cristianesimo e l'Islam hanno molte cose in
comune.
VANGELO E CULTURE
Dopo aver parlato agli universitari nella tappa di
Ibadan, il Papa si sofferma, in un discorso rivolto ai vescovi della Nigeria,
sul problema della inculturazione del Vangelo nella vita delle diverse
comunità, confermando che «la Chiesa veramente rispetta la cultura
di ogni popolo. Offrendo il Vangelo, la Chiesa non intende né distruggere
né abolire quanto c'è di buono e di bello. Difatti essa riconosce
tanti valori culturali e tramite il potere del Vangelo purifica e introduce nel
culto cristiano alcuni elementi delle consuetudini di un popolo. La Chiesa viene
a portare Cristo; non viene a portare la cultura di un'altra razza». Queste
parole risultano drammaticamente importanti se si considera la distanza
culturale tra chi le ha pronunciate e chi le deve ascoltare; il Papa non si
nasconde certo le difficoltà che possono sorgere, le diffidenze, le
diversità di linguaggio da vincere e da superare. Alla fine dell'omelia
egli non perde l'occasione di ribadire l'importanza della confessione
individuale dei peccati, elemento che potrebbe risultare particolarmente ostico
in un modello culturale come quello africano.
L'ARRIVO NEL BENIN
Mercoledì 17 febbraio 1982 il Santo Padre
passa nel vicino Stato del Benin. Qui il Papa bacia la terra e saluta gli
esponenti del clero locale con alla testa il cardinale Gantin, poi ricorda il
grande seminario di Ouidah, inaugurato esattamente nello stesso giorno di
sessantotto anni prima, e i piccoli seminari di Adjatokpa, di Djimé, di
Parakou. Anche i religiosi contemplativi del Paese, come i Trappisti di
Kokoubou, i Benedettini di Zagnanado, i Trappisti di Parakou e le Benedettine di
Toffo ricevono il saluto e il ricordo del Papa, il quale termina la sua vibrante
omelia con un'invocazione nella lingua locale: «E ni kpa Mawu - E ni kpa
Gesù Cristù - E ni kpa Maria» (Iddio sia lodato - Sia lodato
Gesù Cristo - Lodata sia Maria).
IL PASSAGGIO NEL GABON
Lo stesso giorno 17 il Papa passa nel Gabon, e
subito ammette francamente: «L'Africa è un continente così
vasto che dovrei viaggiarvi senza sosta per poterlo visitare tutto!». In
particolare, parlando ai fedeli di Libreville, Giovanni Paolo II tiene a
ricordare la sua prima visita pastorale in Africa nel 1980, che gli
lasciò ricordi indimenticabili. Egli rende poi omaggio alla memoria di
monsignor Jean-Rémy Bessieux, evangelizzatore del Gabon: «Fu lui a
dare inizio - dopo lo sbarco al Forte d'Aumale il 28 settembre 1944 - all'epopea
missionaria e al decollo culturale del vostro Paese, primo dei Paesi dell'Africa
nera a ricevere il Vangelo», dice il Papa, e ringrazia i Padri Salesiani,
Spiritani, Claretani e «Fidei donum» che recano un così
prezioso contributo. Alla folla assiepata nello stadio di Libreville il Papa
impartisce la sua benedizione in compagnia dell'arcivescovo Monsignor
Anguilé, non senza aver ricordato il nome del primo sacerdote cattolico
nato in questa terra, Monsignor Raponda-Walker.
ULTIMA TAPPA: LA GUINEA EQUATORIALE
Giovanni Paolo II conclude il suo viaggio africano
con una rapida visita in Guinea Equatoriale, l'ex colonia spagnola indipendente
dal 1968, dove tiene due discorsi, il primo nell'isola che è sede della
sua capitale Malabo, e il secondo a Bata, in piazza della Libertà, dove
gli è al fianco il vescovo Rafael Maria Nzé, capo della Chiesa
guineana. Prima di concludere la celebrazione della S. Messa nella città
di Bata, il Santo Padre ha pronunciato l'atto di consacrazione della Guinea
Equatoriale alla Vergine Maria. Ancora tre discorsi e un'omelia nel Gabon, con
un incontro ecumenico a Libreville, in cui si compiace dei buoni rapporti che
intercorrono tra la Chiesa cattolica e la Chiesa evangelica, e infine il grande
discorso di saluto al continente africano, dal quale il Papa si congeda citando
un proverbio in lingua mbédé che dice: «Otcwi Holwodo mvudu a
nde ha moni» («la mente sogna l'uomo che ha visto»), e
così conclude: «L'uomo africano ha soprattutto il senso del mistero,
del sacro, dell'assoluto. Anche se qualche volta questo istinto ha bisogno di
essere purificato ed elevato, è una ricchezza invidiabile. Ciò che
era relativamente facile risolvere a livello di villaggio, di tribù, di
etnia, deve ora trovare la sua soluzione umana in relazioni molto più
vaste, a livello nazionale e anche internazionale. È un programma difficile,
che esige un'etica trasposta. Ne va della qualità degli uomini e della
loro civiltà». La sera di venerdì 19 febbraio il Papa
è di ritorno a Roma.
SAN GIUSEPPE IN FABBRICA
Per la festa di San Giuseppe artigiano, patrono
del lavoro, Giovanni Paolo II compie un gesto delicato e significativo,
recandosi in visita pastorale tra i lavoratori di Rosignano Solvay, in provincia
di Livorno. All'ingresso della Solvay, un grande striscione gli reca il saluto
degli operai della fabbrica: «Ben tornato dove hai lavorato»,
c'è scritto, in ricordo degli anni trascorsi dal giovane Karol Wojtyla
durante la guerra come operaio del Complesso Solvay, stabilimento di prodotti
chimici sito a Borek Falecki, un sobborgo di Cracovia (cfr. vol I, «Da
Cracovia a Roma», pagg. 38-42). Il Papa consuma il pranzo insieme ai 2.800
operai dello stabilimento di Rosignano, servendosi di un vassoio di ferro uguale
a quello di tutti gli altri: «Sono solidale con voi perché mi sento
partecipe dei vostri problemi, avendoli condivisi personalmente», dice ai
suoi commensali, guadagnandone immediatamente la simpatia e la confidenza. Nel
pomeriggio la visita del Papa si estende all'intera città di Livorno, che
lo accoglie con il consueto entusiasmo popolare, recandosi a salutarlo lungo il
percorso. Giovanni Paolo II ha colto l'occasione di questa visita per rinnovare
il suo monito sulla dignità umana nel lavoro, collegando la sua enciclica
Laborem exercens alla celebrazione del novantesimo anniversario della grande
enciclica Rerum Novarum di Leone XIII sullo stesso argomento.
APRILE ALLA STAZIONE DI BOLOGNA
Per la prima volta dopo l'Unità d'Italia un
Papa si reca a Bologna, la città delle due Torri governata da
un'amministrazione social-comunista ininterrottamente sin dalla fine della
guerra. È dalle sette del mattino che decine di migliaia di fedeli sono
cominciati ad affluire in Piazza Maggiore per sentire la parola del Papa, il
quale nel corso di questa intensa giornata bolognese pronuncerà otto
discorsi, denunciando la «grande illusione del pensiero materialista
contemporaneo». Nel celebre e suggestivo santuario della Madonna di San
Luca, egli parla ai seminaristi dell'Emilia-Romagna ricordando loro - tra gli
altri - il Servo di Dio Mons. Vincenzo Tarozzi, direttore spirituale del
seminario «Dodici Apostoli» di Bologna, morto nel 1918, mentre alle
autorità civili ricorda, dei sette Pontefici che la città ha dato
alla Chiesa, Gregorio XIII, celebre per la riforma del calendario, di cui
ricorre il quarto centenario, e Benedetto XIV, Prospero Lambertini, già
arcivescovo di Bologna e figura emblematica del suo magistero giuridico. Ma
è alla Stazione centrale della città, verso sera, che pronunciando
l'ultimo discorso il Papa raggiunge il momento più commovente della sua
visita: egli ricorda infatti le ottantacinque vittime del barbaro attentato del
agosto 1980: «Il ricordo e il peso di quella orrenda strage - dice il
Papa - sono tuttora profondamente incisi nella nostra coscienza di cittadini e
di cristiani». Sulla via del ritorno, il corteo papale si ferma per una
visita al cimitero militare polacco di San Lazzaro di Savena, e quindi compie
anche una sosta - non prevista - al vicino cimitero di guerra tedesco, unendo
tutti i morti innocenti nella misericordia e nella pietà. È la sera del
aprile, Domenica «in Albis».
ENTUSIASMO INGLESE
Venerdì 28 maggio 1982 il Papa è
all'aeroporto inglese di Gatwick, accolto da Sua Grazia il Duca di Norfolk, per
iniziare una visita di sei giorni in Gran Bretagna, in un momento, dice subito,
in cui l'attenzione del mondo è concentrata sulla delicata situazione del
conflitto nel Sud Atlantico. Si tratta della guerra delle Falkland, che gli
Argentini chiamano Malvine e rivendicano alla loro sovranità. Nella
veneranda Cattedrale di Canterbury, Giovanni Paolo II celebra una memorabile
funzione ecumenica con l'arcivescovo Runcie, Primate della Chiesa Anglicana,
separata da Roma da quattro secoli e mezzo grazie alla volontà del re
Enrico VIII e alla sua ragion di Stato. Nella cattedrale cattolica di
Westminster il Pontefice ricorda i monaci di San Benedetto, fondatori della
vicina Abbazia, i vescovi John Fisher e Richard Challoner, il cancelliere San
Tommaso Moro. A Soutwork celebra l'Unzione degli Infermi, e ricorda «coloro
che hanno sofferto e sono morti durante il conflitto armato nell'Atlantico
Meridionale». Ai religiosi d'Inghilterra e del Galles dice: «Voi
continuate degnamente una tradizione che risale agli albori della storia del
cristianesimo in Inghilterra. Agostino e i suoi compagni erano monaci
benedettini. Luoghi come Canterbury, Jarrow, Glastonbury e St. Albans sono segni
del ruolo che i gruppi monastici svolsero nella storia d'Inghilterra! Uomini
come Bede di Jarrow, Boniface di Devon divenuto l'Apostolo della Germania, e
Dunstan di Glastonbury, Arcivescovo di Canterbury nel 960; donne come Hilda di
Whitby, Walburga e Lioba, e molte altre - sono nomi famosi nella storia inglese.
Né possiamo dimenticare Anselmo o Nicola Breakspear, nato a Abbots
Langley, che divenne Papa Adriano IV nel 1154». All'aeroporto di Coventry,
infine, ricorda la città devastata dalla guerra, che i bombardamenti
tedeschi fecero assurgere a fama sinistra con la nascita del neologismo
«coventrizzare». Altre tappe del Papa furono Liverpool, Manchester,
York, e poi Murrayfield, Edimburgo e Glasgow in Scozia: nell'omelia di
Bellahuston Park fa i nomi dei vescovi scozzesi come Robert Wishart di Glasgow,
e di quelli medioevali, Wardlaw, Turnbull, Elphinstone, oltre a ricordare i
grandi studiosi come Duns Scoto, Riccardo di San Vittore e John Major, che
onorarono la patria. Dopo aver parlato anche ai giovani del Galles, il Papa
riparte dall'aeroporto di Cardiff il 2 giugno 1982.
NEL CUORE DEL CONFLITTO
Mentre si sviluppa con sempre maggiore violenza la
guerra per le Falkland-Malvine, Giovanni Paolo II arriva in Argentina per una
visita pastorale di due giorni, solo otto giorni dopo aver lasciato la Gran
Bretagna. Nella capitale della guerra il Papa si presenta come pellegrino di
pace, e prega per le vittime di ambedue le parti in lotta. Le madri dei
«desaparecidós» lo invocano nella grande Plaza de Mayo. Ai
Vescovi, raccolti nel santuario di Lujan, cuore mariano della nazione argentina,
ricorda la solenne eucarestia che aveva voluto celebrare in San Pietro insieme
coi pastori dei due Paesi coinvolti nel conflitto, che ebbero anche a
sottoscrivere una Dichiarazione comune. Con questa ulteriore invocazione di
pace, estesa ai governanti dei due Paesi con una pressante richiesta di aderire
al desiderio e alle aspirazioni dei loro popoli, Giovanni Paolo II si
accomiatava dall'Argentina il sabato 12 giugno.
ANNO SANTO DELLA REDENZIONE
A Brescia, il 26 settembre, il Papa, che aveva
voluto ricordare le vittime della stazione di Bologna, s'inginocchia in Piazza
della Loggia per commemorare anche quelle di un'altra strage rimasta impunita,
prodotta dalle bombe del 28 maggio 1971. Giovanni Paolo II si era recato in
visita a Concesio per rendere omaggio alla memoria del papa Paolo VI nella sua
terra. Nei due giorni della visita tiene nove discorsi, l'ultimo dei quali al
Campo di Marte davanti a duecentomila persone. In quest'occasione ricorda ai
giovani la parola di Padre Giulio Bevilacqua, l'ardente «cardinale
parroco», «l'incomparabile maestro e amico di intere generazioni di
bresciani». Meno di un mese dopo, il Pontefice apre in Roma i lavori del
secondo «plenum» del Sacro Collegio riunito durante il suo
pontificato. Per quattro giorni la discussione verte sulle importanti e gravi
questioni delle finanze vaticane e sulla riforma della Curia. Al termine, il
Papa - con un annuncio a sorpresa - proclama il prossimo 1983 «Anno Santo
Straordinario della Redenzione», in quanto 1950° anniversario della
passione e morte del Signore. Era il pomeriggio di venerdì 26 novembre:
il Papa era appena ritornato da un breve viaggio in Sicilia (sabato e domenica),
nel corso del quale, ai giovani siciliani angosciati da problemi gravi e
pressanti come la disoccupazione e la violenza mafiosa, aveva detto, esortandoli
a pensare coraggiosamente un mondo nuovo: «Non conformatevi a questo tempo.
Cristo è il Dio della speranza, della novità e del
futuro».
AI GIOVANI DI SPAGNA
Sono parole che riecheggiano quelle pronunciate
pochi giorni prima alla gioventù spagnola, durante la lunga permanenza e
predicazione del Papa in quel Paese (31 ottobre - 9 novembre 1982). Agli
universitari di Madrid, il 3 novembre, il Papa aveva lanciato un appello a
«costruire l'utopia di un mondo nuovo, più giusto e più
umano». Scrive Luigi Accattoli, commentando i due cicli di discorsi in
Sicilia ed in Spagna: «È ormai abituale, in tutti i viaggi del Papa,
l'appello ai giovani in nome dell'utopia e della speranza. Ma in questi due
viaggi, necessariamente diversi per ambiente, problemi, parole e gesti, fa
spicco la continuità dei discorso ai giovani. Di più: in ambedue i
viaggi il Pontefice ha scelto gli incontri con i giovani per pronunciare le
parole più cariche di coinvolgimento soggettivo... Agli spagnoli ha
parlato di "lotta contro la massificazione", descrivendo il modo in cui i
cristiani possono convertirsi in "trasformatori efficaci e radicali del mondo".
"Sconfiggete il grigio disfattismo", ha detto ai siciliani, invitandoli a
partecipare "a questa grande ricostruzione umana, sociale, morale, spirituale
della vostra Sicilia"... Due viaggi segnati dalla situazione difficile di due
popoli. Due comunità cattoliche in forte trapasso. Un triplice appello
del Pontefice: ad essere fedeli alla grande tradizione religiosa ricevuta dalla
storia, a mobilitare tutte le energie della comunità in una nuova
evangelizzazione, a scommettere tutto nella costruzione di un mondo nuovo.
Così possono essere riassunti ambedue i viaggi. Comprese le condanne del
terrorismo basco e della mafia». A Barcellona e al Santuario di Montserrat,
poco prima di concludere il suo viaggio, Giovanni Paolo II aveva anche pregato
in catalano: «Us preguem, oh Pare, que en aquesta Basilica, a on demora el
Teu Fill Jesucrist, Fill de Maria, atorguis abundosament la pau, la concordia i
el goig a totes les tribus pregrines del nou Israel» (Ti preghiamo, o
Padre, in questa Basilica in cui risiede il tuo Figlio Gesù Cristo,
Figlio di Maria, di concedere copiosamente la pace, la concordia e la gioia a
tutte le tribù pellegrine del nuovo Israele).
PELLEGRINAGGIO A RIETI
L'anno 1983 si apre con un pellegrinaggio del Papa
a Rieti per concludere l'Anno Francescano, celebrativo dell'ottavo centenario
della nascita del Poverello di Assisi, patrono d'Italia. «Qui, attorno a
Rieti, - dice Giovanni Paolo II nel suo discorso del 2 gennaio, domenica, festa
dei Santi Basilio Magno e Gregorio Nazianzeno ci sono ben quattro celebri luoghi
francescani: Poggio Bustone, particolarmente amato dal Santo; poi Greccio, dove
Francesco nella notte di Natale dell'anno 1223 ideò e realizzò il
primo Presepio della storia; inoltre Fonte Colombo, il cui inviolato silenzio
mistico favorì al Santo la stesura della Regola; e infine il Santuario di
S. Maria della Foresta, che accolse Francesco negli ultimi anni della sua vita,
malato agli occhi, e dove, secondo alcuni studiosi, risonarono per la prima
volta gli ineguagliabili accenti del Cantico delle Creature». Il Papa
ricorda altresì un curioso precedente: il viaggio del suo predecessore
Clemente VIII in questi stessi luoghi, nel lontano 1598, per incoraggiare i
lavori di bonifica relativi alla Cascata delle Marmore, e ne trae l'insegnamento
che «non si può credere in Cristo e poi disinteressarsi del contesto
materiale della vita dell'uomo». Il Papa ricorda poi con trasporto i suoi
precedenti pellegrinaggi in questa terra: il primo nel 1946, ancora giovane
studente all'Ateneo «Angelicum» di Roma, allorché fece il giro
dei santuari francescani; e il secondo quando, già Vescovo di Cracovia,
venne anche ad ammirare il «superbo Terminillo», da buon amatore della
montagna qual'è sempre stato. «Pertanto, non vengo qui come
forestiero», conclude affettuosamente, prima d'impartire la Benedizione
Apostolica.
IL NUOVO CODICE
Il giorno seguente, il Papa partecipa a un'altra
solenne e importante cerimonia, questa volta di rilevanza storica nell'esistenza
della Chiesa: la presentazione del nuovo Codice di Diritto Canonico,
«Corpus riveduto e aggiornato contenente le norme della legislazione
generale» destinata a reggere la vita dell'istituzione ecclesiastica.
Perché un Codice giuridico nella vita della Chiesa?, si domanda il Papa.
E risponde citando la storia del Popolo di Dio nell'Antico Testamento,
«allorché il patto d'alleanza del Dio d'Israele si configurò
in precise disposizioni culturali e legislative, e l'uomo cui fu affidato il
ruolo di mediatore e profeta tra Dio e il suo popolo, cioè Mosé,
ne divenne simultaneamente il legislatore». Già nel primo Medioevo,
ricorda il Papa, la vita della Chiesa era regolata da un complesso di norme e di
leggi che divenne ampia e articolata legislazione canonica. Fra le tante
illustri figure storiche di canonisti e giuristi, sarà opportuno nominare
almeno il monaco Graziano, autore del Decretum ovvero «Concordia
discordantium canonum», che Dante colloca nel quarto Cielo, tra gli spiriti
sapienti, in compagnia di Sant'Alberto Magno, di San Tommaso d'Aquino e di
Pietro Lombardo, teologo di Novara autore dei Libri quattuor sententiarum
compilazione terminata attorno al 1152. Pertanto, conclude il Papa,
«benché tutti i fedeli cristiani partecipino dell'ufficio regale,
profetico e sacerdotale del Capo, tuttavia i chierici e i laici ricevono
distinte funzioni in ordine alla loro sociale attività funzioni regolate
e tutelate per volontà di Cristo dal sacro diritto (jus sacrum), in modo
che si provveda al bene comune di tutta quanta la Chiesa».
DICIOTTO NUOVI CARDINALI
Un mese più tardi, mercoledì 2
febbraio, Presentazione del Signore, Giovanni Paolo II tiene a Roma il secondo
Concistoro del suo pontificato, imponendo la berretta cardinalizia a diciotto
nuovi porporati. Il Papa ne sottolinea l'«affetto collegiale» e la
internazionalità: «I Membri che si aggiungono al Senato della Chiesa
sono chiamati dall'Africa, dall'America, dall'Asia, dall'Europa, dall'Oceania.
Tra questi si sono Presuli non solo di sedi insigni per antica tradizione
cattolica, ma anche di nuove Chiese, come quella di Abidjan, di Bangkok, di
Lubango». Tra i nuovi eletti, un particolare momento di commozione al nome
di Jozef Glemp, arcivescovo di Varsavia e Primate di Polonia, e di Carlo Maria
Martini, gesuita, biblista, da poco nominato Arcivescovo di Milano. Ricevono la
porpora anche l'arcivescovo di Parigi Jean-Marie Lustiger e il famoso teologo
gesuita francese Henri de Lubac, quest'ultimo col titolo diaconale. Anche il
vescovo di Berlino è creato Cardinale di Santa Romana Chiesa. Il
più vecchio dei nuovi porporati è l'ottantasettene Julijans
Vaivods, Amministratore Apostolico di Riga, in Lettonia, una repubblica
socialista sovietica. Il saluto dei nuovi Cardinali viene espresso, anche a nome
dei colleghi, da Sua Beatitudine Antoine Pierre Khoraiche, Patriarca di
Antiochia dei Maroniti. «Sarebbero stati più numerosi coloro che nel
Sacro ordine sono degni e più numerose le sedi arcivescovili e vescovili
degne - avverte il Papa con paterno affetto - ma ci è sembrato di non
dover trasgredire la regola stabilita da Paolo VI con la quale si stabilisce che
il numero dei Padri Cardinali che hanno facoltà di partecipare alla
elezione del Pontefice Romano non superi le centoventi
persone».
LA PASSIONE DI MANAGUA
Mercoledì 2 marzo 1983, festa di San
Simplicio, Giovanni Paolo II parte per il Costa Rica, prima tappa del suo nuovo
pellegrinaggio di pace. Visiterà il Nicaragua, Panama, El Salvador,
Guatemala, Honduras, Belize e Haiti. Il primo messaggio papale ai popoli
centroamericani si eleva da San José di Costa Rica, «a difendere
l'uomo e al tempo stesso a tenere alta la bandiera della pace senza ricorrere
alla violenza». Si era sperato che, in onore del viaggio pontificiale,
sarebbero state sospese le esecuzioni capitali previste in Guatemala: esse
invece avvengono regolarmente all'alba, quando sei giovani accusati di
terrorismo vengono fucilati malgrado la commutazione delle pene richiesta
ufficialmente dal Vaticano. Ma è soprattutto nella tappa di Managua,
capitale sandinista del Nicaragua rivoluzionario, che il viaggio del Papa assume
toni di imprevista drammaticità: Giovanni Paolo II riceve regolarmente
gli onori militari, ma slogan sandinisti e rimproveri di folla lo
perseguiteranno per tutta la durata della sua visita, fino a culminare in una
scenata davvero inaudita, quando durante un incontro del Papa con le
autorità di governo lo si costringe ad ascoltare - cosa ch'egli
farà con pazienza ma con viso severo e aggrondato - un'interminabile
arringa rivoluzionaria, mentre poi le grida della folla e degli attivisti
politici quasi gl'impediranno di parlare a sua volta liberamente, tanto che la
sua voce si leverà imperiosa a chiedere e imporre doverosamente
«silenzio! silenzio!» per farsi ascoltare anche a dispetto di un quasi
sabotaggio tecnico. Nella Giunta di Governo di ricostruzione nazionale sono
presenti anche alcuni sacerdoti cattolici con rango di ministri, e tra essi uno
è di fama mondiale: il poeta padre Ernesto Cardenal. Quando il ministro
Cardenal si inginocchia davanti al Papa per baciargli l'anello, il Papa sottrae
ostentatamente la mano e la solleva in gesto di paterno ma fermo rimprovero.
Più tardi Giovanni Paolo II avrà modo di ribadire la sua condanna
delle divisioni all'interno della Chiesa romana: «Quando il cristiano -
dice nell'omelia tenuta venerdì 4 marzo ai Vescovi del Paese - qualunque
sia la sua condizione, preferisce qualsiasi altra dottrina o ideologia
all'insegnamento degli Apostoli e della Chiesa, quando si fa di codeste dottrine
il criterio della nostra vocazione, quando si prova a reinterpretare secondo le
loro categorie la cateschesi, l'insegnamento religioso, la predicazione, allora
si debilita l'unità della Chiesa». Una Chiesa divisa, una Chiesa
«carismatica» o peggio ancora «popolare» affiancata e
contrapposta a quella che si raccoglie attorno al legittimo Vescovo,
rappresenta, per il Papa, un'illusione «assurda e pericolosa». Questo
esplicito ammonimento sigilla la tempestosa tappa di Managua.
ALLA TOMBA DI ROMERO
L'altra tappa «scottante» di questo
lungo viaggio papale è quella El Salvador, dove Giovanni Paolo II arriva
il 6 marzo nonostante le voci di attentati preannunciati contro la sua persona e
la situazione politica esplosiva, stretta tra il rilancio della guerriglia e gli
ultimatum del presidente Reagan. Parlando nella Cattedrale il Papa ricorda che
dentro le sue mura venerande «riposano i resti mortali di Mons. Oscar
Arnulfo Romero, zelante Pastore che l'amore di Dio e il servizio ai fratelli
portarono fino al sacrificio stesso della vita in forma violenta, mentre
celebrava il Sacrificio del perdono e della riconciliazione». L'Arcivescovo
di San Salvador mons. O. A. Romero, da sempre schierato contro l'arbitrio e la
violenza, il 23 marzo 1980 aveva pubblicamente esortato i militari salvadoregni
a «non obbedire agli ordini contrari alla legge divina», ed era stato
assassinato due giorni dopo da un gruppo di terroristi mentre celebrava la messa
nella Cattedrale. Ai suoi funerali, il 30 marzo, avevano preso parte 400.000
persone, ma una sparatoria aveva provocato altri 40 morti e 250 feriti. Oltre a
ricordarlo nell'omelia, Giovanni Paolo II si recherà a pregare in
raccoglimento sopra la sua tomba, e proclamerà: «È urgente
seppellire la violenza, che tante vittime ha fatto in questa e in altre
Nazioni».
A MILANO DOPO 465 ANNI
Dalla sua diocesi di Milano il cardinale Montini
era partito per diventare Papa, ma nonostante il fervido desiderio più
volte espresso non aveva più potuto tornarvi. Così l'arrivo di
Giovanni Paolo II, venerdì 20 maggio 1983, per il Congresso eucaristico
nazionale, rappresenta un'ennesima occasione storica: per la prima volta dopo
ben 465 anni un Pontefice romano rimette piede nella città di
Sant'Ambrogio. (L'ultimo ad arrivarvi era stato Martino V, Oddone Colonna, che
laboriosamente era venuto a capo dello scisma di Occidente e aveva convocato un
Concilio a Pavia). L'entusiasmo dei Milanesi fu grande, specie degli operai e
dei giovani, attorno al Papa che celebrò una messa all'aperto nel
quartiere popolare del Gallaratese, poi si recò a Desio e Seregno, in
Brianza, incontrò i seminaristi di Venegono in provincia di Varese, e
infine fu acclamato - nonostante il maltempo - da duecentomila giovani cattolici
accolsi all'autodromo di Monza. Durante questo soggiorno in Lombardia il Papa
tiene diciassette discorsi, parlando tra gli altri sia agli operai di Sesto S.
Giovanni sia agli imprenditori riuniti alla Fiera Campionaria. Recitato
l'Angelus sulla piazza del Duomo, Giovanni Paolo II stabilisce un altro primato
assistendo, alla sera, ad un concerto sinfonico in suo onore diretto dal maestro
Riccardo Muti: è il primo Papa che occupa una poltrona del teatro alla
Scala.
POLONIA, ANCORA UNA VOLTA
Il mese dopo Karol Wojtyla riesce finalmente a
coronare un sogno che vagheggiava almeno da un anno, e al quale aveva dovuto
rinunciare a causa della tensione politica: visitare una seconda volta, da Papa,
la sua Polonia, come già aveva fatto pochi mesi dopo la sua elezione
(cfr. alle pagine 61-75 di questo volume). La partenza è il 16 giugno, un
giovedì, festa di Sant'Aureliano vescovo: appena giunto all'aeroporto di
Varsavia-Okecie, un bacio al suolo della Patria è il suo fervido saluto.
«Vengo nella Patria, - dice con emozione - e la mia prima parola, detta nel
silenzio e in ginocchio, è stata un bacio a questo suolo: un suolo
natale. Seguendo l'esempio di Paolo VI, faccio così all'inizio di ogni
visita pastorale, in onore di Dio Creatore, e dei figli e delle figlie della
terra nella quale giungo. Il bacio deposto sul suolo polacco ha però per
me un significato particolare. È come un bacio dato nella mani della madre,
poiché la Patria è la nostra madre terrena...». E così
prosegue, indicando i termini del suo nuovo viaggio: «Vengo a Jasna Gora. A
Jasna Gora si va in pellegrinaggio, e perciò saranno un pellegrinaggio
tutti questi giorni, che mi sarà dato di trascorrere nella mia terra
natale. In relazione al Giubileo, milioni di persone in Polonia fanno il
pellegrinaggio a Jasna Gora. Desidero essere uno di loro». La visita dura
otto giorni, e milioni di Polacchi acclamano ancora una volta il Papa ritornato
alla loro terra. La tensione politica esistente nel Paese è testimoniata
da un evento: Giovanni Paolo II riceve il sindacalista di Solidarnosc, Lech
Walesa, solo in un incontro privato e segreto. Due saranno invece gl'incontri
ufficiali col generale Jaruzelski, padrone del Paese. «Chi si batte per la
libertà è già santo», afferma solennemente il Papa,
che si reca per prima cosa alla tomba del Cardinale Stefano Wyszynski,
giustificandosi per non aver potuto partecipare al suo funerale, il 31 maggio
del 1981: «Non son potuto venire a Varsavia, allora, a causa dell'attentato
compiuto alla mia vita nel giorno 13 maggio, che causò alcuni mesi di
ricovero all'ospedale». Esaltando la memoria del Cardinale Stefano,
«questo intrepido servo della Chiesa e della Patria», Wojtyla allude
esplicitamente alla durezza del regime militare che s'è dovuto imporre in
Polonia: «La Provvidenza Divina gli ha risparmiato i dolorosi avvenimenti
che si collegano con la data del 13 dicembre 1981». Ma alle autorità
civili e militari che governano il suo Paese non rinuncia a scandire una parola
di audace speranza: «Che questo difficile momento possa diventare una via
di rinnovamento sociale, l'inizio del quale è costituito dagli accordi
sociali stipulati dai rappresentanti delle autorità dello Stato con i
rappresentanti del mondo del lavoro... Non cesso di sperare che quella riforma
sociale, molte volte annunciata, secondo i princìpi elaborati con tanta
fatica nei giorni critici dell'agosto 1980, e contenuta negli accordi,
verrà gradualmente attuata». Sono gli accordi sottoscritti da Lech
Walesa nelle sue giornate gloriose, e poi duramente disattesi dal governo
comunista. E l'incontro semiclandestino del Papa con Walesa avrà, questa
volta, anche una conseguenza drammatica fuori di Polonia, nel cuore stesso del
Vaticano: proprio commentando a caldo quell'incontro, il Vice-Direttore
dell'Osservatore Romano, don Virgilio Levi, illustre prefatore dei nostri
volumi, affermerà che il sindacalista di Solidarnosc è stato
sacrificato «al miglior bene comune» dandolo per politicamente
liquidato, e suscitando una tempestosa reazione che si concluderà con le
sue «dimissioni», immediatamente accettate dal Papa.
Un caso che,
nella storia recente del Vaticano, non ha precedenti. L'incontro con Jaruzelski
avviene alla Palazzina del Belvedere, a Varsavia. Alle parole del Papa: «La
Polonia soffre», il Generale risponde con durezza: «Si dice che la
Polonia soffre. Ma chi calcola l'immensità delle sofferenze umane che si
è riusciti ad evitare?». E al Papa, come a tutti i Polacchi, non
rimane che la sopportazione cristiana e la speranza.
Papa Wojtyla s'intrattiene col generale Wojciech Jaruzelski
IL VIAGGIO A VIENNA, 300 ANNI DOPO LA CACCIATA DEI TURCHI
Parlando ai capi polacchi, Giovanni Paolo II aveva
accennato a «questo momento storico, allorché ricordiamo i 300 anni
dell'assedio di Vienna». Ed è nella capitale austriaca che il Papa
si reca sabato 10 settembre per una visita di quattro giorni. Nel suo primo
discorso, tenuto sulla Piazza degli Eroi (la Heldenplatz), il Pontefice ha
ricordato «con particolare commozione il re polacco Jan Sobieski alla guida
delle truppe di soccorso alleate che liberarono Vienna» dall'assedio dei
Turchi nel 1683. E ne trae spunto per un'affermazione decisa e inequivocabile:
«Ci sono casi - proclama - in cui la lotta armata è un male
inevitabile a cui in circostanze tragiche non possono sottrarsi neanche i
cristiani» È la riconferma della tradizionale dottrina della «guerra
giusta», forse sorprendente in un momento in cui da tante parti s'invoca
concordemente la pace nel terrore di un possibile sterminio atomico, ma non
inattesa in un Papa battagliero e «medioevale» come Wojtyla, che
rivendica in quest'occasione la propria visione storico-teologica di un'Europa
cristiana unita ideologicamente «dall'Atlantico agli Urali, dal Baltico al
Mediterraneo», unita e formata dalla fede in Cristo, al di là e al
di sopra di contingenti divergenze politiche, come quelle che oppongono gli
Stati occidentali e liberaldemocratici al «blocco
comunista».
LA PREGHIERA COI LUTERANI E IL PERDONO AD AGCA
L'anno si chiude con un gesto spettacolare: l'11
dicembre il Papa si reca, primo Pontefice della storia, a visitare la Chiesa
protestante di via Toscana in Roma, la Christus Kirche, e in occasione del
cinquantesimo anniversario della nascita del grande riformatore si affianca al
pastore luterano Christoph Mayer in una preghiera comune. È un contributo
all'unità, un atto di splendida umiltà e insieme intransigenza,
tipico dello stile del Papa. Il quale aprirà l'anno nuovo, il 1984, con
un gesto ancora più toccante e - per i mezzi di comunicazione di massa -
sensazionale, anche se in realtà non fa che concretizzare il comandamento
cristiano e dare un esempio che certamente il Papa è proprio il primo a
dover dare a tutta la Chiesa: recandosi in visita nel carcere di Rebibbia, a
Roma, per gli auguri di Natale e Capodanno, s'incontra in una spoglia celletta
della prigione con il suo potenziale assassino, quel giovane turco di nome
Alì Agca che nel maggio di tre anni prima ha sparato contro di lui in
piazza San Pietro. Tra il killer e la vittima si instaura un misterioso,
dolcissimo rapporto d'amore; appartati in un angolo, i due uomini - così
diversi, così lontani per età, caratteri fisici e morali, gusto,
educazione, nazionalità, lingua, abitudini, destino - si stringono l'uno
all'altro, anzi è il Papa che stringe a sé il giovane Alì e
quasi lo «confessa», gli mormora parole pacate e lo ascolta
attentissimo, fino a dargli una specie di benedizione (o forse è
Alì che si porta alla fronte la mano del Papa, in un gesto di commovente
sottomissione). Tutti i giornali e le televisioni del mondo diffondono queste
immagini e le trovano straordinarie, sconvolgenti, uniche: anch'esse passano
all'archivio del nostro tempo inquieto, e nella biografia, nella singolarissima
umana avventura di questo Pontefice così straordinario.
Karol Wojtyla durante la sua permanenza all'ospedale Gemelli
L'incontro di Papa Wojtyla a Rebibbia con il suo attentatore Alì Agca
SULLA SOGLIA DI UN NUOVO ANNO
Celebrando la Santa Messa per la Giornata mondiale
della pace, il 1° gennaio 1984, il Papa ha sottolineato come una causa
ultima e fondamentale si trovi al fondo delle varie cause e dei differenti
meccanismi che accompagnano i processi dello sviluppo della civiltà
contemporanea: tale causa è rappresentata dal fatto che si sta perdendo
la coscienza della radicale fratellanza degli uomini e dei popoli. Quale
realtà, si chiede il Papa, riscontriamo sul nostro pianeta all'inizio di
questo nuovo anno? «Non è forse essa in profondo contrasto con la
verità circa l'universale fratellanza degli uomini e dei popoli? Il mondo
d'oggi è sempre più irretito da tensioni che si manifestano in
modo lacerante... Tra Est e Ovest le relazioni sono giunte ad un contrapporsi
radicale di posizioni, con l'interruzione - che speriamo temporanea e la
più breve possibile - dei negoziati sulle riduzioni degli armamenti
nucleari e convenzionali. Intanto, la diffidenza reciproca moltiplica i nefasti
effetti delle lotte ideologiche ed esaspera i già gravi conflitti locali,
da cui le varie nazioni, alcune delle quali molto piccole, sono quotidianamente
insanguinate. Nell'altra direzione tra Nord e Sud, il fossato che separa i Paesi
ricchi dai Paesi poveri si è ulteriormente allargato con la recente crisi
economica. Secondo gli esperti, ad un rallentamento dell'uno per cento
nell'espansione economica delle nazioni più industrializzate corrisponde
un impoverimento, almeno dell'uno e mezzo per cento, nei Paesi in via di
sviluppo. L'indebitamento di questi, che ha raggiunto dimensioni catastrofiche,
dà la misura del divaricante peggioramento di tali contrasti economici.
Ma l'aspetto più preoccupante è rappresentato dai contrasti che ne
derivano nella situazione dell'uomo. Nei Paesi ricchi migliorano la salute e
l'alimentazione, in quelli poveri invece mancano i mezzi alimentari di
sopravvivenza ed imperversa la mortalità, specialmente infantile... La
minaccia della catastrofe nucleare e la piaga della fame si affacciano
agghiaccianti all'orizzonte come i fatali cavalieri dell'Apocalisse... Quali
sono, ci domandiamo, le cause profonde di questi fenomeni? E perché il
livello delle minacce e delle piaghe non diminuisce, ma cresce? L'umanità
si pone queste domande con inquietudine sempre più grande» conclude
il Papa, e suggerisce come causa fondamentale l'affievolirsi del sentimento
fraterno tra gli uomini, che sono fratelli perché sono tutti figli di
Dio: «Quanto più cerchiamo di eliminare la consapevolezza di questa
paternità, tanto più noi cessiamo di essere fratelli, e di
conseguenza tanto più si allontanano da noi la giustizia, la pace e
l'amore sociale». Nello stesso giorno di capodanno del 1984 Giovanni Paolo
II, rivolgendosi all'Angelus ai fedeli presenti in piazza San Pietro, li esorta
a considerare «che il nostro destino non dipende tanto da ciò che
accade fuori di noi, ma quanto da ciò che ciascuno decide nell'intimo
della propria coscienza e s'impegna ad attuare nella concretezza della propria
vita», e termina augurando loro un anno di pace, la pace «che nasce da
un cuore nuovo». La pressante preoccupazione della Santa Sede per la pace
mondiale verrà ribadita dal Papa nella sua allocuzione al corpo
diplomatico pronunciata il 14 gennaio: «In un certo numero di Paesi sovrani
che hanno già la loro storia come nazione e che avevano realizzato la
loro unità, la pace interna rimane purtroppo precaria, per altre ragioni,
poiché essi debbono far fronte a devastanti ribellioni armate. Che costo
enorme, in sprechi di beni di necessità vitale, in rovine di ogni tipo,
in violenza, in perdite di vite umane, senza contare le opposizioni cariche di
odio che rimangono!... Non c'è un giorno da perdere, siamo convinti che
questo è un dovere fondamentale di tutte le parti interessate, e se
qualcuno volesse sottrarsi alla necessità dei negoziati, si renderebbe
gravemente responsabile davanti all'umanità e alla storia... La Chiesa
chiama ad agire con amore, con spirito di fraternità, di servizio, come
essa ha imparato da Cristo; essa è sicura che senza questa disposizione
le grandi parole di pace, di giustizia, di solidarietà rischiano d'essere
come dei cembali che risuonano senza produrre altro effetto... Il cristiano - ha
affermato con forza il Papa - non crede nella fatalità della storia.
L'uomo, con la grazia di Dio, può cambiare la traiettoria del
mondo».
L'incontro di Giovanni Paolo II con Ronald Reagan
IL NUOVO CODICE
Verso la fine del mese di gennaio, il Papa ha
rivolto un discorso ai membri della Sacra Romana Rota in occasione
dell'inaugurazione dell'anno giudiziario, cogliendo l'occasione per lumeggiare
la forza innovatrice del nuovo Codice di diritto canonico entrato in vigore da
circa due mesi. «Nella riforma del diritto processuale canonico - ha detto
Giovanni Paolo II ai suoi giuristi - ci si è sforzati di venire incontro
ad una critica molto frequente, e non del tutto infondata, concernente la
lentezza ed eccessiva durata delle cause. Accogliendo pertanto una esigenza
molto sentita, senza voler intaccare né diminuire minimamente le varie
garanzie offerte dall'iter e dalle formalità processuali, si è
cercato di rendere l'amministrazione della giustizia più agile e
funzionale, semplificando le procedure, snellendo le formalità,
accorciando i termini, aumentando i poteri discrezionali del giudice, ecc... Nel
nuovo Codice, specialmente in materia di consenso matrimoniale, sono state
codificate non poche esplicitazioni del diritto naturale, apportate dalla
giurisprudenza rotale... Ma la preoccupazione di salvaguardare la dignità
e l'indissolubilità del matrimonio non può fare prescindere dai
reali ed innegabili progressi delle scienze biologiche, psicologiche,
psichiatriche e sociali; in tal modo, si contraddirebbe il valore stesso che si
vuol tutelare, che è il matrimonio realmente esistente, non quello che ne
ha solo la parvenza...» In forza della autorevolezza che gli viene anche
dall'approvazione da parte dell'episcopato, il nuovo Codice di diritto canonico
si può considerare, secondo il Papa, quasi come l'ultimo documento del
Concilio ecumenico Vaticano II e il suo coronamento.
TRA I PUGLIESI
Il 26 febbraio il Papa si reca a visitare la
Puglia per la seconda volta, dopo la visita compiuta nell'ottobre del 1980 a
Otranto per venerare i suoi santi martiri. Parlando a Bari, Wojtyla rievoca la
gigantesca figura del suo patrono, quel San Nicola che nel quarto secolo fu
vescovo di Myra in Asia Minore, da dove il suo culto si è diffuso in
tutta la cristianità. «La sua figura - nota il Pontefice - non cessa
di essere un punto particolare di incontro tra l'Oriente e l'Occidente, il che
ha assunto un significato nuovo in questo tempo di accresciuti sforzi
ecumenici». Riprendendo quindi una non dimenticata osservazione scritturale
del suo predecessore, Giovanni Paolo II ha ricordato che «sin dall'inizio
Dio ha circondato l'uomo con un particolare amore. E questo amore ha
caratteristiche paterne e materne insieme, come lo testimonia il profeta Isaia
(49, 15)... E la paternità di Dio fu una particolare ispirazione per il
vescovo di Myra - conclude il Papa - la paternità, ma anche questa
maternità di cui parla il profeta». Recitando l'Angelus coi fedeli
baresi, il Papa coglie poi l'occasione geografica della stretta vicinanza con
l'Albania per sottolineare la funzione del capoluogo pugliese come ponte
proiettato oltre il mare Mediterraneo, proprio verso quel Paese così
vicino eppure tanto lontano, dove i cristiani «non possono manifestare
esternamente la loro fede, diritto fondamentale della persona umana», e
affida tutti gli Albanesi alla protezione della Madonna.
APPREZZAMENTO PER LUTERO
Al principio di marzo, il Papa offre un nuovo
esempio della sua personale approvazione per gli sforzi di quanti, tra i
cattolici e tra gli evangelici, si adoperano per superare e ricomporre le
dolorose ferite inferte alla unità della Chiesa in un recente passato.
«Nei vostri sforzi - dice alla commissione congiunta cattolico-luterana -
è cresciuta tra di voi un'atmosfera di stretta affinità ed
è cresciuto anche uno spirito di solidarietà con coloro che
soffrono per la divisione; i frutti del vostro lavoro sono ampiamente
riconosciuti in tutto il mondo cristiano. Molti riflettono, studiano ed
esaminano i documenti comuni da voi redatti. Che le vostre relazioni
contribuiscano al movimento verso l'unità cristiana... Quattro anni fa
ebbe luogo la celebrazione dell'anniversario della presentazione del documento
confessionale luterano alla dieta di Augusta nel 1530. Avete notato con profonda
soddisfazione un accordo su alcune centrali verità di fede. Ciò
che ci unisce e ci accomuna ci incoraggia nella speranza di raggiungere
l'unità anche in quegli ambienti di fede e di vita cristiana nei quali
siamo ancora divisi. Nell'anno commemorativo, appena trascorso, della nascita di
Martin Lutero, abbiamo potuto constatare che gli sforzi di ricerca
evangelico-cattolici ci offrono un quadro più completo della
personalità e dell'insegnamento di Lutero, ed anche una visione
più adeguata dei complicati eventi storici del sedicesimo secolo. Si
tratta di elementi importanti per la riconciliazione e la comune crescita
insieme di cattolici e luterani. Sono pietre miliari sul lungo e difficile
cammino che ci fa progredire. Non cesseremo mai di cercare nuove
opportunità per la graduale realizzazione di quell'unità per la
quale Cristo ha pregato alla vigilia della sua morte sacrificale», conclude
il Papa.
CELEBRAZIONE DI GREGORIO MENDEL
Sempre in marzo, il Papa si è associato
all'omaggio reso all'abate Gregorio Mendel (1822-1884), monaco agostiniano e
fondatore della genetica con le sue scoperte sulla trasmissione dei caratteri
ereditari nel «pisum sativum». Giovanni Paolo II ha sottolineato la
fecondità dell'incontro fra scienza e fede:
«Sull'esempio del
suo maestro, Sant'Agostino, seguendo la propria vocazione personale Gregorio
Mendel, nell'osservazione della natura e nella contemplazione del suo Autore,
seppe in un medesimo slancio congiungere la ricerca della verità con la
certezza di conoscerla già nel Verbo creatore, luce seminata in ogni uomo
e rifulgente nell'intimo delle leggi della natura, che lo studioso pazientemente
decifra... Con Gregorio Mendel, il ramo della scienza indicato oggi come
genetica aveva così iniziato il suo sviluppo. Da allora ad oggi, delle
unità ereditarie, dette geni circa vent'anni dopo la sua morte, si
dimostrò la reale esistenza, si determinò la localizzazione in
particolari strutture cellulari, si definì la natura, si analizzò
la struttura, si comprese la funzione. Oggi si riesce a costruirle in
laboratorio... Gregorio Mendel aveva intravisto qualcosa del futuro quando, nel
presentare i suoi risultati, sottolineava che essi davano la soluzione di una
questione che, in vista della storia dell'evoluzione delle forme organiche, non
è di piccola importanza. L'uomo incomincia oggi ad avere nelle mani il
potere di controllare la propria evoluzione. La misura e gli effetti, buoni o
no, di questo controllo dipenderanno non tanto dalla sua scienza quanto
piuttosto dalla sua sapienza, scienza e sapienza che sono in modo quasi
emblematico armonizzate in Gregorio Mendel».
IL VENTUNESIMO VIAGGIO
Poco dopo la Pasqua, il Papa intraprende il suo
ventunesimo viaggio apostolico, che lo porterà in Asia e in Oceania:
Corea, Papua Nuova Guinea, Isole Salomone, Thailandia. Scrive in proposito il
padre Giuseppe Pittau s.j.: «Ogni viaggio del Papa ha qualcosa di comune,
eppure ha sempre qualcosa di radicalmente diverso, come sono diversi i Paesi
visitati. È lo stesso Papa che porta l'unico messaggio di Cristo e presenta la
stessa Chiesa universale, ma porta questo messaggio e presenta questa Chiesa in
lingue e accenti diversi e arricchisce la Chiesa universale con una conoscenza e
una stima delle singole Chiese locali... Con la visita del Papa molte Chiese,
soprattutto le Chiese giovani, sentono per la prima volta la gioia e l'orgoglio
di essere non solo parte integrale e necessaria dell'unica Chiesa, ma anche
Chiese con caratteristiche e responsabilità specifiche che contribuiscono
alla ricchezza di tutta la Chiesa... Ogni viaggio del Papa è anche un
viaggio di dialogo e inculturazione. In tutti i discorsi del Papa c'è un
profondo senso di rispetto e stima per i valori e la tradizione religiosa e
morale dei popoli dell'Asia e dell'Oceania. Già fin dal suo primo
discorso in Corea, parla con ammirazione del Buddismo e del Confucianesimo e
porge gli auguri ai buddisti nell'occasione delle celebrazioni per commemorare
la nascita di Buddha. Mostra questo spirito di dialogo specialmente in
Thailandia quando visita il Patriarca buddista... In Corea e Oceania ha lodato
lo sforzo missionario dei protestanti e degli anglicani. È stato un dialogo con
la cultura dei Paesi visitati. Ciò che il Papa ha detto è
profondo, ma più che le parole sono i suoi gesti e le sue opere che hanno
impressionato profondamente i vari Paesi visitati. La Chiesa parla tanto di
inculturazione, ma il simbolo più bello di questa inculturazione è
lo sforzo che fa Giovanni Paolo II nel mostrare concretamente il suo profondo
rispetto per la cultura e la lingua del posto». Allo scalo tecnico
obbligato di Fairbanks, in Alaska, il Papa incontra il presidente Reagan di
ritorno da un viaggio in Cina, e sottolinea la funzione che l'Alaska è
venuta assumendo, di «crocevia del mondo» (come tappa della cosiddetta
«rotta polare») e di «cuore del Nord dorato», rilevando come
in quel grande Stato si parlino 65 lingue e le persone delle più diverse
estrazioni sociali vi convivano con Aleuti, Esquimesi e Amerindi. Viaggiando poi
dall'Alaska alla Corea, sulla stessa rotta lungo la quale il 1° settembre
dell'anno prima un jumbo coreano era stato abbattuto da un caccia sovietico, il
Papa ha voluto ricordare tutti i passeggeri che in quella circostanza drammatica
perdettero la vita, raccomandandone le anime a Dio. Ai lavoratori coreani, che
lo ascoltavano a Pusan, ha rammentato che Gesù fu lui stesso un
lavoratore manuale, «e anche la maggior parte dei suoi discepoli e seguaci:
pescatori, agricoltori e operai. Così, quando parla del regno di Dio,
Gesù usa costantemente termini connessi con il lavoro umano... e paragona
la costruzione del regno di Dio al lavoro manuale dei mietitori e dei
pescatori».
Il pontefice scende la scaletta di un aereo, durante uno dei suoi numerosi viaggi
SVIZZERA: UN VIAGGIO DIFFICILE
Salutati con la consueta cordialità i
sempre prediletti giovani di Comunione e Liberazione, che il 13 maggio erano
andati a fargli gli auguri («mi rallegra il fatto che voi... portate sempre
più bambini. Il vostro movimento, pur rimanendo giovanile, diventa nello
stesso tempo familiare, diventa giovanile nella seconda generazione»), il
Papa ha affrontato nella seconda settimana di giugno un difficile viaggio in
Svizzera, la cui preparazione era stata salutata da qualche ostinata
manifestazione di ostilità, come ricorda il padre Georges Cottier o.p.:
«Il successo della visita pastorale che Giovanni Paolo II ha effettuato in
Svizzera non era affatto certo in partenza. Lasciamo da parte i gruppuscoli
estremisti che si screditano da soli. Ma presso numerosi protestanti
l'atteggiamento era più che riservato: le reazioni recenti, di violenza
imprevista, contro l'eventualità di un vescovo a Ginevra, le critiche
alle prese di posizione nette in materia d'etica coniugale e d'aborto, cui
s'assommano quelle per gli accenti posti sulla devozione mariana, la
discriminazione in favore del Sommo Pontefice che sarebbe stata rappresentata -
si pensava - dalla sua visita al Consiglio federale, costituivano altrettanti
motivi di questa reticenza. Reticenza condivisa da un certo numero di cattolici,
a partire dai preti, sofferenti di quel complesso antiromano così ben
analizzato da Hans Urs von Balthasar... Bisogna riconoscere che la maggior parte
delle domande poste sia dai teologi che dai preti sono state deludenti
(perché ad esempio questa insistenza sul celibato?); esse riflettono quel
ripiegamento tremebondo su di sé e quell'incertezza caratteristici delle
società occidentali opulente». A questo giudizio severo
converrà ricordare che tuttavia si trattava di domande poste, nessuno
potrà mai giudicare con quanta ansia e quanto dolore, da preti e da
teologi cattolici, ai quali forse la «papolatria» di cui ogni tanto si
compiace fare sfoggio una parte della gerarchia cattolica non è
più sufficiente.
SETTEMBRE CANADESE
Il 9 settembre, una domenica, il Papa parte per il
Canada, e si trova a recitare per la prima volta in aereo la consueta preghiera
domenicale dell'Angelus, cosa che non manca di far notare ai presenti e agli
ascoltatori della Radio Vaticana che seguono il pellegrinaggio. Sorvolando la
località di Gaspé, dove nel 1534 l'esploratore Jacques Cartier
piantò la prima croce sul suolo canadese, Giovanni Paolo II saluta con
commozione quel simbolo dell'evangelizzazione di 450 anni or sono, nonché
gli Amerindi e Inuit che abitano quelle terre da tempi immemorabili. La
preghiera dell'Angelus verrà quindi ripetuta dal Papa nella cattedrale di
Québec, grazie allo sfasamento del fuso orario. In quell'occasione il
Papa fa atto di venerazione per la tomba del beato François de Laval,
primo vescovo del Québec e di tutta l'America del Nord, da lui stesso
elevato agli onori degli altari nel 1980: «François de Laval si
unì nel 1639 ad una Chiesa nascente», dopo aver «conosciuto in
Francia la vitalità di una cristianità che si stava rinnovando
sotto l'impulso di numerosi fondatori e di numerosi uomini di grande
spiritualità». Il giorno seguente, parlando agli Amerindi e agli
Inuit, Giovanni Paolo II ci tiene a congedarsi da loro con un saluto nella
lingua Inuit: «Ilannaarivapsi tamapsi naglijauvusi jiususinut» (Siete
miei amici, siete tutti amati da Dio), soggiungendo: «La Chiesa è
l'Apatagat di Dio per voi». Il lungo viaggio del Papa si conclude a Ottawa
il 20 settembre.
A CHI APPARTIENE LO SPAZIO?
Dopo aver celebrato, il 29 settembre, festa di San
Michele arcangelo, il trentennale di Comunione e Liberazione ringraziando
monsignor Giussani per la sua indefessa attività («la vostra
presenza sempre più consistente e significativa nella vita della Chiesa
in Italia e nelle varie nazioni, in cui la vostra esperienza inizia a
diffondersi, è dovuta a questa certezza, che dovete approfondire e
comunicare»), il Papa parla il 2 ottobre ai membri della Pontificia
Accademia delle Scienze su un tema di grande attualità: «Ora che lo
spazio è visitato dall'uomo e dalle sue macchine, la domanda è
ineludibile: a chi appartiene lo spazio? Non esito a rispondere che lo spazio
appartiene all'umanità intera, che esso è qualcosa a vantaggio di
tutti. Così come la terra è per il vantaggio di tutti e la
proprietà privata deve essere distribuita in modo tale che a tutti gli
esseri umani sia data una porzione adeguata dei beni deLla terra, allo stesso
modo l'occupazione dello spazio con satelliti o altri strumenti deve essere
regolata da giusti accordi e patti internazionali che mettano in grado l'intera
famiglia umana di goderlo e di usarlo». Un'altra importante direttiva
antropologica viene impartita dal Papa ai suoi scienziati: «La trasmissione
di cultura non deve identificarsi con l'imposizione delle culture dei Paesi a
tecnologia avanzata a quelli in via di sviluppo. I popoli con antiche culture,
anche se talvolta ancora in parte analfabeti ma dotati di una tradizione orale e
simbolica capace di trasmettere e di preservare le loro culture, non devono
essere vittime di un colonialismo culturale o ideologico che distrugge quelle
tradizioni. I Paesi ricchi non devono tentare, mediante l'uso degli strumenti a
loro disposizione e in particolare la moderna tecnologia spaziale, di imporre la
loro cultura alle nazioni più povere».
SULLE ORME DI COLOMBO
Il 12 ottobre 1984, tradizionale Columbus Day per
gli Stati Uniti, il Papa è ancora una volta in America Latina per un
viaggio-lampo di ventiquattr'ore a Porto Rico e Santo Domingo, così
commentato dall'arcivescovo di Medellín, cardinale Alfonso Lopez
Trujillo: «L'immenso sforzo del Papa per recarsi all'appuntamento di Santo
Domingo ha un profondo significato: l'inaugurazione del novenario di anni in
preparazione alle celebrazioni dei cinque secoli dell'evangelizzazione del Nuovo
Mondo, iniziati esattamente con la scoperta dell'America... Due sono stati i
momenti centrali della sua visita: la celebrazione eucaristica, l'11 ottobre,
giorno del suo arrivo, all'Ippodromo, e il discorso pronunciato nello Stadio, il
ottobre, festa della fratellanza ibero-americana, il Giorno della Raza, come
esso viene chiamato in America Latina, nel quale egli ha offerto il messaggio
centrale... Il Papa, come un nuovo Colombo, ha spiegato le vele verso il
continente della speranza, nel quale vivono quasi la metà dei cattolici
del mondo». «Una certa leggenda negra - ha detto il Papa - che per un
certo tempo orientò non pochi studi storiografici, concentrava
prevalentemente l'attenzione su aspetti di violenza e di sfruttamento che si
verificarono nella società civile durante la fase successiva alla
scoperta. Pregiudizi politici, ideologici ed anche religiosi hanno voluto
presentare solo negativamente la storia della Chiesa in questo continente. La
Chiesa, per ciò che la riguarda, vuole accostarsi alla celebrazione di
questo centenario con l'umiltà della verità, senza trionfalismi
né falsi pudori; tenendo solamente alla verità, per ringraziare
Dio dei successi e per trarre dagli errori i motivi per proiettarsi rinnovata
nel futuro. Essa non vuole disconoscere l'interdipendenza che ci fu tra la croce
e la spada nelle prime fasi della penetrazione missionaria. Ma non vuole neanche
dimenticare che l'espansione della cristianità iberica portò ai
nuovi popoli il dono insito nelle origini e nella gestazione dell'Europa - la
fede cristiana - con la sua carica di umanità e con la sua
capacità di salvezza, di dignità e di fraternità, di
giustizia e di amore per il Nuovo Mondo».
A MILANO PER SAN CARLO
Il 4 novembre, festa di San Carlo Borromeo e suo
onomastico, Papa Wojtyla lo va a celebrare in Lombardia, sui luoghi stessi del
Santo, ad Arona e a Milano (anche se Arona è amministrativamente in
Piemonte). Nelle diverse tappe del nuovo viaggio pastorale italiano, Giovanni
Paolo II pronuncia diciassette discorsi: al Sacro Monte di Varese (dove
l'aspetta un altro illustre Carlo, il cardinale arcivescovo di Milano Carlo
Maria Martini), al Collegio Borromeo di Pavia, al Sacro Monte di Varallo, oltre
che, appunto, a Milano e ad Arona. Commenta lo scrittore Giovanni Testori:
«Contrariamente a quanto sta accadendo a certa positivistica
festaiolità cristiana, che ama ritenersi per l'unica e sola espressione
attuale della cattolicità, anche quand'è solo prona servitù
alla più demente violenza mondana, la forza di vita che sa assumere
dentro le proprie braccia tutti i settori dell'esistenza e della conoscenza e
che riesce a dar loro una propulsione integra e reale (non compromessa e
ipotetica) verso il futuro, viene dalla coscienza di lei, la morte; di lei, la
fine; e della totale resurrezione e liberazione che, tramite la Grazia, all'uomo
può venire e derivare. In questi diciassette discorsi, il futuro è
inteso in tutta la sua potenzialità di splendore e di progresso, ma
altresì in tutta la sua correlata possibilità di regresso e di
tenebra; fino, appunto, al rischio dell'umana, totale estinzione; prefigurata
forse, o, comunque, annunciata, dalle terribili distruzioni, e pesti, che sono
gli armamenti atomici, la droga, l'illibertà coperta da ragioni
socialmente rivoluzionarie e la fame». Così Testori, con furore
barocco e apocalittico; e sarebbe davvero interessante sapere che cosa ne pensa
il Papa.
LA PRIMA VOLTA NEL PERÙ
L'anno 1985 si apre con un nuovo viaggio in
America Latina, dove, come ha osservato il cardinale Trujillo, vive circa la
metà di tutti i cattolici del mondo. Questa volta la meta del Papa
è il Perù; le tappe: Lima-Callao, Arequipa, Cuzco, Ayacucho,
Piura, Trujillo e Iquito. Il Santo Padre, che vi si reca per la prima volta,
atterra all'aeroporto di Caracas, nel Venezuela, il 26 gennaio. All'episcopato
venezuelano ricorda il primo vescovo del Paese, Rodrigo de Bastidas, consacrato
nel 1532, e poi altri gloriosi esponenti della Chiesa locale, dal dotto fra
Pedro de Agreda (1561-1579) al vescovo itinerante Mariano Matti (1770-1792),
civilizzatore e fondatore di paesi, nonché il primo cardinale venezuelano
José Humberto Quintero. «Il vostro Paese - soggiunge - possiede
abbondanti ricchezze, e questo non impedisce che vi siano ampi strati sociali
soggetti alla povertà e perfino alla miseria estrema. So che giustamente
vi preoccupa questa situazione precaria di tanti venezuelani, che denuncia una
cattiva distribuzione delle risorse della società», ed esorta i
vescovi a un forte impegno sociale. Le tappe successive vedono Giovanni Paolo II
atterrare in Ecuador il 29 gennaio, parlare a Quito il 30 (e lo stesso giorno,
alla Radio Católica Nacional), quindi agli indios, a Latacunga, il giorno
seguente («Pai Apuchic Jesucristo yupaichashca cachun! Cuyashca churicuna,
ushushicuna») e infine a Lima il 2 febbraio. È il ventiduesimo
pellegrinaggio apostolico del Santo Padre, e sesto in America Latina, nei
settantacinque mesi del suo pontificato. Commenta - su «La Traccia» -
Francesco Ricci: «Come coloro che piantarono la prima croce di Cristo nelle
terre e nei cuori del Nuovo Mondo... Pietro ha incontrato negli uomini di
laggiù il desiderio di Dio e il desiderio di pane. Al primo ha offerto
l'annuncio di Cristo nella realtà della sua verità e della sua
bellezza; al secondo ha indicato le vie della giustizia e della libertà
da percorrere nella sequela di Cristo e nella fedeltà all'uomo. La
domanda di Cristo e la domanda di pane si sono fatte ancora una volta la stessa
unica domanda», e su questo sarebbe davvero interessante sentire cosa ne
pensano i diretti interessati, cioè gli affamati di quei Paesi, e di
tutti gli altri Paesi del mondo. Il Papa lascia il Perù il 5
febbraio.
A TUTTI I GIOVANI DEL MONDO
In marzo, per la ricorrenza dell'Anno della
Gioventù, il papa indirizza a tutta la gioventù del mondo una
Lettera apostolica in cui ricorda che il più intenso colloquio del Cristo
con un giovane è quello col giovane ricco rievocato in Marco, 10, 20 e
seguenti: «Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: Una sola cosa
ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nel
cielo. Poi, vieni e seguimi». Ma il giovane ricco non volle seguire
Gesù, anzi, se ne andò rattristato, poiché aveva molti
beni. Giovanni Paolo II suggerisce che la giovinezza stessa costituisca
«una singolare ricchezza dell'uomo». Questa l'aveva condotto a
Gesù; l'attaccamento ai beni terreni lo stacca da lui.
«L'interrogativo sul valore, l'interrogativo sul senso della vita - incalza
il Papa - fa parte della ricchezza singolare della giovinezza». Ai giovani
parlerà ancora con particolare intensità durante il pellegrinaggio
in Belgio, in Olanda e nel Lussemburgo (maggio 1985). Ai giovani del granducato
dice, il 16 maggio: «In rappresentanza di tanti altri voi menzionate
Willibrordo, Francesco d'Assisi, la religiosa sconosciuta, il missionario
lontano. Sono essi che in voi tengono desto il sogno di un mondo migliore».
San Willibrordo, fondatore di un'abbazia a Echternach nell'anno 698, è il
fondatore della Chiesa neerlandese. E ripete loro il messaggio contenuto nella
Lettera pastorale: «Con il giovane del Vangelo, non esitate a porre al
Maestro la domanda: Cosa devo fare per ottenere la vita eterna?»,
nonostante il triste finale di quel misterioso episodio.
IL SINODO STRAORDINARIO: NOVEMBRE 1985
In luglio Giovanni Paolo II promulga
l'importantissima lettera enciclica «Slavorum Apostoli», sui Santi
fratelli Cirillo e Metodio che nel IX secolo evangelizzarono i popoli slavi,
dando loro anche l'attuale alfabeto che infatti ha preso il nome di
«cirillico». L'8 agosto poi il Papa ritorna in Africa, a Lomé
(Togo), in Costa d'Avorio, nel Camerun, nella Repubblica Centrafricana e nello
Zaire, concludendo il lungo tour nella capitale del Kenya dove partecipa alla
chiusura del Congresso eucaristico nazionale il giorno 18. In settembre è
la volta del piccolo principato del Liechtenstein (dove il Papa si rivolge
ancora ai giovani, a Schaan Dux), e infine, in novembre, inaugura solennemente
il Sinodo straordinario dei Vescovi di tutto il mondo che si riuniscono a Roma
per consultarsi su diversi problemi della Chiesa, primo fra tutti quello della
riforma della Curia romana stessa. I partecipanti sono 217, fra gli uditori
c'è anche Madre Teresa di Calcutta, la piccola suora jugoslava che svolge
il suo apostolato tra i poveri della metropoli indiana. Secondo la stampa laica,
incombe sulle speranze dei cattolici la minaccia di una restaurazione
autoritaria e di una sorta di «revisione» di quelle che furono le
più audaci aperture conciliari del Vaticano II. L'entourage del Papa lo
nega con decisione, anche se si ammette che «venti di discordia dividono i
vescovi». Sdrammatizza un poco il clima l'ex presidente della Repubblica,
Sandro Pertini, il socialista amico del Papa; interrogato ad Alessandria da due
giornalisti, riferisce questo aneddoto di sacra gastronomia: «Dunque, siamo
a Castelporziano, non al Quirinale perché Craxi non aveva ancora firmato
il nuovo Concordato. Arriva il risotto ai frutti di mare e il Papa gradisce; poi
le scaloppine al marsala, e il Papa gradisce ancora. Al dessert, gelato alla
panna montata, esclama: Ma come ha fatto a scoprire il mio menù
preferito? Santità, gli ho risposto, mi è bastato far consultare
il suo cuoco».